LA MIA POTENZA SI MANIFESTA NELLA DEBOLEZZA – (2COR 12,8-9).

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Una realtà sempre nuova

Editoriale

LA MIA POTENZA SI MANIFESTA NELLA DEBOLEZZA – (2COR 12,8-9).

La vulnerabilità riguarda tutti, indistintamente. Per l’antropologia, essa non è una condizione periferica o accidentale, ma indica una dimensione intrinseca all’umano: in modi e gradi diversi, chiunque può essere “ferito” e nessuno può dirsi “invulnerabile”. Non si tratta di semplice “contingenza” né di un destino avverso che si abbatte solo su alcuni, limitandone le possibilità o le aspirazioni, ma di una caratteristica costitutiva della condizione umana.
Nell’antichità, l’uomo sperimentava la propria fragilità soprattutto in rapporto alla malattia, alla violenza, alle forze della natura e infine con la morte. In un contesto dominato dal fato, dalla condizione sociale e da altri elementi sui quali l’uomo non aveva alcun potere, il sapiente era colui che affrontava la vulnerabilità assecondando il destino, senza opporre resistenza.
Diverso il quadro offerto dalla tradizione biblica. Il primo uomo appare sulla scena del mondo con l’appellativo di Adam, per indicare la sua fragilità costitutiva, significata dal riferimento “alla terra”, da cui era stato tratto e a cui sarebbe ritornato. Il vulnus di cui è portatore va oltre i limiti esterni, la debolezza morale o il difetto di conoscenza del bene: si tratta del peccato originale, radice di tutte le possibili forme di fragilità. La “ferita” proviene, dunque, dal peccato che pone l’uomo in una condizione dalla quale non può liberarsi senza l’intervento divino. La libertà umana di scelta, anch’essa raggiunta dal vulnus del peccato, non fu annullata, ma il rischio di farne un cattivo uso è divenuto una possibilità concreta e sempre presente («Ecco io pongo davanti a te la vita e la morte: scegli la vita perché viva tu e la tua discendenza»: Dt 30,15.19). La riflessione biblica, dunque, coglie la vulnerabilità umana anche nei suoi aspetti drammatici, ma la comprende in un orizzonte più ampio: quello del disegno salvifico di Dio. Mediante l’evento Cristo, Dio stesso si è fatto uomo, vulnerabile, fino alla morte, «pur di dare la vita anche all’ultimo indifeso e indifendibile peccatore di questa terra. Per questo, la vulnerabilità come ferita dell’esistenza umana ha sempre la possibilità di essere presa in cura, in vita e in morte, da un Amore più grande» (R. Maiolini).
Nella nostra epoca si è notevolmente accresciuta la capacità di intervenire sulla vulnerabilità, in modo particolare nelle sue manifestazioni più vistose, grazie ai progressi della medicina, al miglioramento delle condizioni di vita, ecc. Nello stesso tempo, però, si è scoperto quanto la vita umana sia vulnerabile rispetto a fattori di cui, in passato, non si era compresa la pericolosità o di cui non si sospettava neppure l’esistenza. In campo sociale, ad esempio, molti processi socio-economici sfuggono ormai alle possibilità di controllo dei singoli, dei gruppi e anche delle grandi istituzioni politiche, mentre in riferimento all’individuo la psicologia ricorda quanto l’uomo sia vulnerabile rispetto a dinamiche solo parzialmente note.
Oltre a ciò, emerge un altro elemento: la vulnerabilità non è una realtà statica, ma cangiante; assume volti nuovi, non sempre facili da percepire o da concettualizzare. Spesso si presenta sotto forma di povertà ed esclusione, condizioni esistenziali diverse, ma caratterizzate dal forte impatto sulla situazione esistenziale del soggetto, trasformato in “domanda d’aiuto” o in “assistito”, cioè in semplice destinatario di prestazioni, dimenticando ciò che ha di più prezioso: la capacità e le potenzialità per superare la situazione di indigenza.
Senza pretesa di esaustività, ma con l’intenzione di offrire il proprio contributo, la nostra rivista si confronta con la vulnerabilità, una dimensione dell’umano che chiama in causa anzitutto la chiesa e il suo modo di intendere la nuova evangelizzazione. L’approccio è multidisciplinare, e non potrebbe essere diversamente, nel tentativo di offrire un’ampia panoramica di un fenomeno che si distingue non solo per il suo impatto sulla vita degli individui e della società, ma anche per la sua crescente complessità.
Tiziano Vecchiato si sofferma sui Nuovi volti della povertà e dell’esclusione. È uno studio sulla dimensione “sociale” della vulnerabilità, in cui povertà ed esclusione, pur non identificandosi, esprimono condizioni di vita diffuse e rappresentano un ostacolo allo sviluppo umano e socio-economico.
Sul concetto di vulnerabilità in un discorso antropologico fondamentale riflette Raffaele Maiolini, Tra ferita e cura. Per una riflessione sulla vulnerabilità dell’esistenza umana alla luce del pensiero occidentale. Dopo aver precisato i termini della questione, l’autore si sofferma sull’elaborazione del tema nella tradizione occidentale, concentrando la propria analisi sul binomio “ferita e cura”, una prospettiva singolare e ricca di suggestioni.
La vulnerabilità individua un aspetto integrante della vicenda storica di Gesù. Non solo egli incontrò persone segnate dalla fragilità umana, ma sperimentò personalmente la propria vulnerabilità, dalla nascita fino agli eventi della passione e morte. Aldo Martin indica ne La fragilità di Gesù la strada singolare e sconcertante attraverso la quale si può giungere alla fonte della solidarietà e della comprensione.
L’attenzione a un Dio “vulnerabile” ha segnato il percorso della teologia del Novecento. I conflitti che hanno insanguinato il mondo, il dramma della shoah e un nuovo approccio alle Scritture hanno contribuito a mettere in discussione l’immagine di Dio ereditata dal teismo tradizionale. Nel suo studio, Dio vulnerabile, Alessandro Cortesi suggerisce anzitutto di rileggere lo stile di Gesù, quale narrazione del Dio vulnerabile, e insieme di comprendere il rapporto tra teologia ed esperienza come traccia per ripensare l’incontro con Dio.
La ricerca individuale dell’esperienza religiosa gode di rinnovato interesse, mentre il tessuto ecclesiale, almeno in Occidente, tende ad assottigliarsi, nonostante gli sforzi della teologia e del rinnovamento pastorale. In particolare, sembra diffondersi sempre più la prassi del “credere senza appartenere”. Dei fattori che indeboliscono il senso dell’appartenenza ecclesiale si occupa il contributo di Alessandro Ratti, La chiesa vulnerabile: un’appartenenza fragile.
Una delle manifestazioni più note della vulnerabilità è la malattia, esperienza che attraversa la nostra vita e quella dei nostri cari. La malattia non è solo sofferenza, ma anche occasione per rivedere il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e soprattutto con Dio e le idee che ci siamo fatti di lui. Su questi aspetti riflette Luciano Sandrin, Esperienza della malattia e immagini di Dio.
Paolo Tomatis, I gesti della cura. Liturgia e vulnerabilità, considera il tema della fragilità nel suo rapporto con un “luogo” privilegiato dell’esperienza cristiana: la liturgia. L’autore si chiede quale sia l’apporto della liturgia, la sua specifica risorsa, affinché la fragilità possa essere accolta, integrata ed “evangelizzata”.
Intesa come capacità di accogliere in sé le avversità e di rispondere in modo creativo ed efficace ad esse, la resilienza rientra nel modo cristiano di vivere. Secondo Giovanni Salonia, Resilienza e dono, l’atteggiamento interiore resiliente trova pieno compimento nel consegnarsi – come Maria, come Gesù – fino alla prova ultima: il dono di sé.
L’ultimo contributo è di Domenico Cravero, Vulnerabilità dell’amore: la teologia clinica. La riflessione unisce la domanda religiosa e la condizione di vulnerabilità: l’aggettivo “clinica” indica un percorso che riconosce la centralità dell’agape, un dato dal quale la teologia e la pastorale ricavano ancora troppo poco per la vita dei cristiani e la speranza del mondo.

Publié dans : Lettera ai Corinti - seconda |le 18 juin, 2018 |Pas de Commentaires »

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