Archive pour mars, 2018

via Crucis, Stazione VII, Gesù cade per la seconda volta

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Publié dans:immagini sacre |on 8 mars, 2018 |Pas de commentaires »

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2013

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/lent/documents/hf_ben-xvi_mes_20121015_lent-2013.html

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2013

Credere nella carità suscita carità «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16)

Cari fratelli e sorelle,

la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.
1. La fede come risposta all’amore di Dio.
Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva… Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un ”comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione – che include tutte le nostre facoltà – alla rivelazione dell’amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell’«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore – «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) –, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.
«La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! … La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).
2. La carità come vita nella fede
Tutta la vita cristiana è un rispondere all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20).
Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).
La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).
3. L’indissolubile intreccio tra fede e carità
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall’attivismo moralista.
L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).
In sostanza, tutto parte dall’Amore e tende all’Amore. L’amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l’annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell’Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri.
A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10). Si percepisce qui che tutta l’iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.
4. Priorità della fede, primato della carità
Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all’azione dell’unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l’unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell’amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5).
Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l’Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall’umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13).
Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!

Dal Vaticano, 15 ottobre 2012

BENEDICTUS PP. XVI

Ultima Cena opera moderna

fr e ciottoli

Publié dans:immagini sacre |on 7 mars, 2018 |Pas de commentaires »

L’ISTITUZIONE DELL’EUCARISTIA (1 COR 11, 23-27)

http://www.divinarivelazione.org/listituzione-delleucaristia-1-cor-11-23-27/

L’ISTITUZIONE DELL’EUCARISTIA (1 COR 11, 23-27)

Il racconto più antico dell’istituzione dell’Eucaristia è quello che San Paolo fa nella sua prima lettera ai Corinti. Questo racconto si inserisce in un contesto di rimprovero per gli abusi contro la carità che i Corinti facevano nei riguardi dei più poveri e indigenti. Nei loro banchetti fraterni che precedevano l’Eucaristia e che avevano la finalità di ricordare le circostanze storiche in cui l’Eucaristia era stata istituita o di sovvenire alle necessità dei bisognosi della Comunità, si assisteva a divisioni e a comportamenti mancanti di carità verso i più poveri che non avevano niente di che mangiare, mentre i ricchi banchettavano.
San Paolo richiama i Corinti, facendogli capire che quello non era il modo giusto per disporsi alla Cena del Signore e per ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo, cibo di vita eterna e scuola di carità. San Paolo narra ciò che è avvenuto durante l’ultima Cena del Signore, ricordando così ai Corinti la ragione del loro riunirsi: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (v. 23). Il binomio “ricevere-trasmettere”, desunto dal vocabolario della tradizione rabbinica, esprime la fedeltà ad un dato ricevuto: Paolo ha trasmesso quello che lui stesso, per primo, ha ricevuto e cioè che “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (vv. 23-26). La formula della consacrazione del pane: “Questo è il mio corpo, che è per voi” (v. 24) esprime bene l’aspetto sacrificale e redentivo del rito eucaristico e la presenza reale di Cristo. Per quanto riguarda la consacrazione del calice, San Paolo usa una formula diversa da quella utilizzata da Matteo (26,26ss.) e da Marco (14, 22ss.), dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”, ponendo così l’accento sull’alleanza nuova con la quale Cristo, nel suo sangue, sostituisce l’antica alleanza, anch’essa stipulata nel sangue, tra Dio e Israele. Sia dopo la prima formula, che dopo la seconda, a differenza del Vangelo di Luca (22, 19s.), San Paolo aggiunge: “fate questo in memoria di me” (vv. 24.25). In questo modo San Paolo sottolinea che il rito eucaristico è il memoriale dell’ultima Cena che differisce dal rito sacrificale dell’agnello dell’Antico Testamento, nel quale si ricordava la liberazione degli Ebrei dall’Egitto. Nell’Antico Testamento l’agnello pasquale era solo un ricordo simbolico ed evocativo, mentre la celebrazione dell’Eucaristia realizza e riproduce il sacrificio di Cristo. È una memoria non solo evocativa, ma creativa del fatto a cui si riferisce.
Afferma Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Ecclesia de Eucharistia” che nella celebrazione eucaristica il sacrificio redentore di Cristo “ritorna presente, perpetuandosi sacramentalmente, in ogni comunità che lo offre per mano del ministro consacrato…. In effetti, «il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio»… l’unico e definitivo sacrificio redentore di Cristo si rende sempre attuale nel tempo” (n. 12). Se si trattasse solo di una presenza simbolica, San Paolo non potrebbe dire che “chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1Cor 11, 27). Ora, perché il rito eucaristico sia vero memoriale, è necessario che chi lo compie sia stato investito da Cristo stesso di uno speciale potere di consacrazione. Le parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena: “Fate questo in memoria di me” erano dirette solo agli Apostoli che in quel preciso momento furono ordinati da Cristo stesso sacerdoti. È dunque il sacerdote ministeriale che «compie il Sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo» (Ecclesia de Eucharistia, n. 28).
In persona di Cristo significa che il sacerdote, nel momento della consacrazione si identifica sacramentalmente “col sommo ed eterno Sacerdote, che è l’autore e il principale soggetto di questo suo proprio sacrificio, nel quale in verità non può essere sostituito da nessuno” (Ecclesia de Eucharistia, n. 29). “Il ministero dei sacerdoti che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine, nell’economia di salvezza scelta da Cristo, manifesta che l’Eucaristia, da loro celebrata, è un dono che supera radicalmente il potere dell’assemblea ed è comunque insostituibile per collegare validamente la consacrazione eucaristica al sacrificio della Croce e all’Ultima Cena”. Il Mistero eucaristico, dunque, “non può essere celebrato in nessuna comunità se non da un sacerdote ordinato” (Ecclesia de Eucharistia, n. 29). Ringraziamo il Signore per il “dono incommensurabile” dell’Eucaristia e preghiamoLo perché mandi santi sacerdoti alla sua Chiesa che perpetuino nei secoli il sacrificio eucaristico.

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 7 mars, 2018 |Pas de commentaires »

arte bizantina, Maria e il bambino Gesù

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Publié dans:immagini sacre |on 5 mars, 2018 |Pas de commentaires »

DAL « TRATTATO SULLA PRIMA LETTERA DI SAN GIOVANNI » – SANT’AGOSTINO

http://www.collevalenza.it/Riviste/2009/Riv0509/Riv0509_03.htm

DAL « TRATTATO SULLA PRIMA LETTERA DI SAN GIOVANNI » – SANT’AGOSTINO

(VII, 1. 7. 9; PL 35, 2029. 2032. 2033. 2034)

Se non volete morire bevete la carità
Questo mondo appare a tutti i fedeli, che sono in cammino verso la patria, come appariva il deserto al popolo d’Israele. Se ne andavano vagabondi alla ricerca della patria; ma non potevano smarrirsi perché erano sotto la guida di Dio. La strada per loro fu il comando di Dio. Furono raminghi per quarant’anni, ma il loro viaggio si sarebbe potuto compiere in pochissime tappe, tutti lo sappiamo. Veniva rallentata la loro marcia, perché erano messi alla prova, non perché fossero abbandonati. Quello che Dio ci promette, è una dolcezza ineffabile, un bene, come dice la Scrittura e come sovente udiste dalle nostre parole, che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo (cfr. 1 Cor 2, 9; Is 64, 4). Siamo messi alla prova dagli affanni terreni e riceviamo esperienza dalle tentazioni della vita presente.
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato. (GV 13,34)
Ma se non vogliamo morire assetati in questo deserto, beviamo la carità. E’ la sorgente che il Signore volle far sgorgare quaggiù, perché non venissimo meno lungo la strada: ad essa attingeremo con maggiore abbondanza, quando saremo giunti alla patria. « In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi » (1 Gv 4, 9).
Siamo esortati ad amare Dio. Lo potremmo amare, se egli non ci avesse amati per primo? Se fummo pigri nell’intraprendere l’amore, non siamo pigri nel ricambiare l’amore! Egli ci ha amato per primo e in un modo tale come neppure noi sappiamo amare noi stessi. Amò dei peccatori, ma tolse il loro peccato: sì, amò dei peccatori, ma non li radunò in una comunità di peccato. Amò degli ammalati, ma li visitò per guarirli. « Dio, dunque, è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui » (1 Gv 4, 8. 9).
Allo stesso modo il Signore disse: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15, 13); e, in quella circostanza, fu verificato l’amore di Cristo verso di noi, perché egli morì per noi. Ma l’amore del Padre verso di noi, in quale cosa ebbe la sua verifica? Nel fatto che mandò l’unico suo Figlio a morire per noi. L’Apostolo dice appunto: « Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? » (Rm 8, 32). « Egli ha mandato il suo Figlio, come vittima di espiazione per i nostri peccati » (1 Gv 4, 10), quindi come espiatore, come sacrificatore. Offrì un sacrificio per i nostri peccati. Dove trovò l’offerta, dove trovò la vittima pura che voleva immolare? Non trovò altri all’infuori di sé, e si offerse. « Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri » (1 Gv 4, 11).
Da questo sappiamo d’aver conosciuto Cristo: se osserviamo i suoi comandamenti. (GV 13, 35)
Però, fratelli miei, quando parliamo di carità vicendevole dobbiamo guardarci dall’identificarla con la pusillanimità o con un’inerte passività. Avere la carità non significa certo essere imbelli e corrivi. Non pensate che la carità possa esistere senza una certa bontà o addirittura senza alcuna bontà. La carità autentica non è certo questo. Non credere di amare il tuo domestico unicamente per il fatto che gli risparmi la meritata punizione, o che vuoi bene a tuo figlio solo perché lo lasci in balia di se stesso, o che porti amore al prossimo solo perché non gli fai nessuna correzione. Questa non è carità, ma mollezza. La carità è una forza che sollecita a correggere ed elevare gli altri. La carità si diletta della buona condotta e si sforza di emendare quella cattiva. Non amare l’errore, ma l’uomo. L’uomo è da Dio, l’errore dall’uomo. Ama ciò che ha fatto Dio, non ciò che ha fatto l’uomo. Se ami veramente l’uomo lo correggi. Anche se talvolta devi mostrarti alquanto duro, fallo proprio per amore del maggior bene del prossimo.

Publié dans:SANT'AGOSTINO, Santi - scritti |on 5 mars, 2018 |Pas de commentaires »

cacciata dei mercanti dal Tempio

imm per en e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 2 mars, 2018 |Pas de commentaires »
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