Archive pour mars, 2018

V DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) (18/03/2018)

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La lezione del chicco di grano

mons. Roberto Brunelli

V DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B) (18/03/2018)

L’episodio del vangelo odierno (Giovanni 12,20-33) si colloca a Gerusalemme, nei giorni appena precedenti la Pasqua: quella che per Gesù sarebbe stata l’ultima. Come d’abitudine, per la festa la città si va affollando di ebrei devoti, venuti anche di lontano, dalla diaspora, cioè dalle comunità ebraiche da tempo stanziatesi fuori dalla terra d’Israele, tra popoli pagani dei quali hanno finito per adottare qualche tratto, come la lingua (si capirà bene nell’episodio della Pentecoste) o i nomi propri.
Alcuni devoti ebrei di lingua greca hanno sentito parlare di Gesù, forse hanno assistito poco prima al suo trionfale ingresso a Gerusalemme (quello che la liturgia celebrerà domenica prossima) e vorrebbero incontrarlo personalmente. Allo scopo si rivolgono.non a caso a Filippo, il quale probabilmente aveva rapporti con loro (questo apostolo porta un nome greco e, precisa l’evangelista, era di Betsaida di Galilea, regione abitata da numerosi non-ebrei). Filippo si consulta con Andrea (altro apostolo dal nome greco) e i due insieme presentano la richiesta al destinatario. L’evangelista non riferisce l’andamento dell’incontro con quei forestieri; ma riporta una sintesi di quanto Gesù ha detto loro, e in particolare il preannuncio di quanto gli sta per accadere.
“E’ giunta l’ora”, esordisce Gesù: affermazione solenne, da collegare con quelle che l’hanno preannunciata (già all’inizio della sua vita pubblica, alle nozze di Cana, alla madre che gli chiedeva di intervenire nella situazione imbarazzante degli sposi rimasti senza vino, prima del miracolo egli aveva precisato che non era ancora giunta la sua “ora”).
Adesso l’ora è giunta, col suo mistero, la sua grandezza, le sue conseguenze; l’ora in cui egli sarà “innalzato da terra”, dopo aver subìto tormenti indicibili. Egli ne è pienamente consapevole; a quella prospettiva non nasconde la sua umana sofferenza, ma insieme ribadisce la volontà di compiere la sua missione fino in fondo: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!”
Va oltre ogni umana prospettiva, che egli sia consapevole di quanto l’aspetta, possa sottrarvisi, e non lo faccia. Qui davvero si tocca con mano la sublimità di un amore, che si esprime con mezzi umani ma è tanto grande da travalicare i limiti dell’umano, specie se si pensa chi sono, che meriti abbiano, coloro per i quali egli accetta di patire.
L’umanità in genere, e i suoi singoli componenti in particolare, non avevano e non hanno alcun titolo per aspettarsi che Dio si degni di volgere verso di loro lo sguardo, dunque ancor meno che addirittura per loro doni la vita. E non per qualcuno soltanto, magari per i migliori: “Io” dice, “quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”. Tutti! Generosi e malvagi, ricchi e poveri, bianchi neri e gialli, uomini e donne, umili e potenti: per tutti egli è stato “innalzato da terra”, e a tutti offre la possibilità di raggiungerlo, e così realizzare la propria vita.
Il modo, l’ha spiegato lui stesso con un esempio eloquente, seguito da una dichiarazione esplicita: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”.
Come il chicco di grano che volesse ostinatamente restare integro non servirebbe a nulla, così chi ama la propria vita, nel senso egoistico di chi pensa solo a se stesso senza curarsi degli altri, condanna la propria vita alla sterilità, all’inutilità; può credersi furbo, mentre in realtà è un perdente. Solo il chicco disposto a disfarsi produce frutto; così chi “odia” la propria vita (l’espressione è un esempio dei paradossi propri del linguaggio orientale), cioè in certo modo se ne priva perché ne fa dono agli altri, arricchisce il mondo di nuovi frutti, che gli valgono la vita eterna.

il Volto di Cristo

ciottoli e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 13 mars, 2018 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO, GRANDIOSO TESTIMONE DELLA DIVINITÀ DI CRISTO (2009)

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SAN PAOLO, GRANDIOSO TESTIMONE DELLA DIVINITÀ DI CRISTO (2009)

RAINER RIESNER, uno dei massimi studiosi protestanti del cristianesimo primitivo e docente di Nuovo testamento a Dortmund, su invito del Centro Culturale di Milano ha tenuto mercoledì scorso un’affollata conferenza su san Paolo presso l’Aula Magna dell’Università Cattolica
Rainer Riesner, su invito del Centro Culturale di Milano, ha tenuto mercoledì scorso un’affollata conferenza su san Paolo nell’Aula Magna dell’Università Cattolica. Ha tutte le competenze per parlare di questo argomento, essendo uno dei massimi studiosi protestanti del cristianesimo primitivo e docente di Nuovo Testamento a Dortmund.

Professor Riesner, san Paolo è un apostolo o un fondatore?
L’apostolo Paolo è assolutamente decisivo per l’evangelizzazione del mondo antico. Ma egli stesso avrebbe fortemente protestato se lo si fosse chiamato “fondatore” di qualcosa. La sua continuità con Gesù Cristo è un dato acclarato e indiscutibile. Gli si è applicata la categoria di “fondatore” per metterlo in contrasto con Gesù.
Come è avvenuto?
Tutto è iniziato nel diciannovesimo secolo. Si è voluto contrapporre l’etica semplice, amichevole di Gesù da un lato e, dall’altro, Paolo con la sua teologia, cristologia e soteriologia complicate. Gesù diventava così un mero maestro e profeta giudeo e Paolo sarebbe stato il responsabile di una successiva divinizzazione di Gesù, operata attraverso teorie tratte dal paganesimo. Il risultato di questa posizione è fin troppo chiaro: per riferirci autenticamente a Gesù, dobbiamo alleggerirci di tutta la dogmatica, che sarebbe un portato paolino.
Finendo così per negare la divinità di Gesù. Ma, dunque, il Paolo vero chi è?
Anzitutto è importante tener presente la sua origine ebraica. A Paolo sono familiari tutte le tradizioni e le categorie dell’Antico Testamento. A questo proposito è decisiva una questione biografica. Tutti gli studiosi sono concordi sulla provenienza di Paolo da Tarso. Per quanto riguarda la gioventù di Paolo vi sono però due posizioni. La prima – cui convintamente aderisco – afferma che Paolo proviene da una devota famiglia di farisei, che lo ha inviato fin da giovane a Gerusalemme per studiare l’Antico Testamento. L’altra posizione vuole dimostrare il condizionamento di Paolo da parte del pensiero pagano dicendo che egli ha vissuto a lungo in Tarso, centro dove le religioni pagane erano parecchio diffuse. Rimane comunque il fatto che l’indubbia adesione di Paolo all’ebraismo rende necessario spiegare come mai, immediatamente dopo la caduta sulla via di Damasco, un ebreo possa affermare la divinità di una persona umana.
Paolo infatti “incontra” Cristo sulla via di Damasco. Come l’esegesi spiega il fatto accaduto quel giorno? Di che tipo di incontro si tratta?
La domanda è interessantissima. Facciamo un passo indietro. Sappiamo che Paolo ha perseguitato la prima comunità di Gerusalemme. Le fonti sono concordi nel datare la caduta da cavallo a un anno e mezzo di distanza dall’Ascensione. Inoltre Paolo stesso – lo apprendiamo dagli Atti degli Apostoli – dice di avere studiato a Gerusalemme. Il lasso di tempo è strettissimo: Paolo a Gerusalemme, Gesù per l’ultima volta a Gerusalemme, l’incontro sulla via di Damasco. Io ritengo possibile che Paolo abbia conosciuto personalmente Gesù a Gerusalemme: non come discepolo, ma come abitante della città. E certamente era a conoscenza di cosa gli apostoli testimoniassero riguardo la Sua risurrezione; era proprio quello il motivo per cui li perseguitava! Dirò di più: per Paolo la prova schiacciante della falsità messianica di Gesù consisteva proprio nella morte in croce.
Poi dirà: «Non conosco altro che Cristo, e Cristo crocifisso».
Nel terzo capitolo della lettera ai Galati si vede perfettamente la sua precedente opinione su Gesù, laddove dice: «Maledetto colui che pende dal legno della croce». Dopo la conversione – attenzione! – continua a condividere questa frase, ma le dà un significato molto più profondo: Cristo è effettivamente maledetto, ma non per Sua colpa, bensì per la salvezza degli uomini.
La domanda centrale è dunque: come è potuto avvenire un cambiamento simile? Anzitutto ce lo dice Paolo stesso. Dopo quel giorno sulla via di Damasco egli non ha più alcun dubbio: Gesù è Figlio di Dio. Nella Seconda Lettera ai Corinzi Paolo descrive l’avvenimento nel quale ha incontrato Cristo e parla della luce divina, cioè egli attribuisce a quell’apparizione le caratteristiche che gli ebrei riservavano alle manifestazioni di Dio (come, per esempio, quella sul Sinai). Nell’avvenimento sulla via di Damasco Paolo ha visto una persona – Gesù Cristo – manifestarsi nella gloria divina. La mia personale ipotesi è che Paolo abbia avuto una visione di Cristo crocifisso. Così è ancora più evidente il contenuto del suo annuncio: quel Gesù crocifisso è contemporaneamente e inscindibilmente il Signore della gloria. E si ricordi che quando Paolo parla di gloria – la doxa – pensa sempre e solo a quella divina.
Era impensabile che un devoto ebreo si inventasse una cosa del genere?
Sì, dev’essere successo qualcosa. Non è un caso che nella esegesi anglofona più avanzata si riconosca che la divinità di Cristo è un’esperienza dei testimoni di Gesù (e, dunque, non qualcosa aggiunto posteriormente). Essi non possedevano le premesse culturali e intellettuali per inventarsi una cosa simile, dunque devono aver fatto esperienza di qualcosa al di fuori di loro.
Si sta concludendo l’anno di celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo, quale ritiene sia il suo insegnamento più urgente per noi?
La missione. La passione di Paolo è stata quella di portare il fatto di Cristo in tutto il mondo. Ciò implica due cose. La prima è la certezza su chi sia Cristo; Paolo risponde: la manifestazione definitiva di Dio per tutti. La seconda è l’apertura a tutto il mondo; Paolo conosceva solo un mondo che finiva in Spagna e voleva portare l’annuncio fin là, ma certo non se ne avrebbe a male se noi andassimo in terre di cui egli ignorava l’esistenza.

Publié dans:Paolo: studi |on 13 mars, 2018 |Pas de commentaires »

Gesù in preghiera nell’orto degli ulivi

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Publié dans:immagini sacre |on 12 mars, 2018 |Pas de commentaires »

(La) MEDITAZIONE – di Enzo Bianchi

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(La) MEDITAZIONE – di Enzo Bianchi

Il carattere proprio della meditazione cristiana è stato colto dal cristianesimo antico nella sua applicazione e nel suo rapporto con la Bibbia. Spezzato, o affievolito, questo rapporto nei secoli dell’esilio della Scrittura dalla chiesa, si è assistito, nell’epoca della devotio moderna, e particolarmente nell’epoca barocca, a un fiorire di molteplici forme di metodi di meditazione, sempre più schematici e complessi, isolati e assolutizzati, che si applicavano a temi di meditazione sempre più dettagliati (vite dei santi, dottrine dei teologi ecc.), fino a cadere nell’artificiosità, nella macchinosità, nella razionalizzazione e intellettualizzazione, nella ginnastica psicologica.
Del resto, ci si trovava nel momento storico dell’emergere e dell’affermarsi della coscienza riflessa.?Per la Bibbia «meditare» (in ebraico hagah) significa «mormorare», «sussurrare», «pronunciare a mezza voce», e si applica alla Torah, cioè alla rivelazione scritta della volontà di Dio. La meditazione biblica si propone infatti come fine la conoscenza della volontà di Dio, per poterla praticare, vivere, obbedire. Il latino meditari rinvia etimologicamente all’idea di esercizio, di ripetizione che conduce alla memorizzazione, all’assimilazione di una Parola che non deve semplicemente essere capita, ma vissuta, incarnata.
La meditazione è dunque organica a un atto di lettura che sia «incarnazione» della Parola. Non a caso la terminologia biblica e poi della letteratura cristiana parla di manducazione della Parola, di masticare e ruminare le Scritture. E se l’uso linguistico è arrivato a riservare exercere alle attività fisiche e meditari a quelle dello spirito, è però vero che la meditazione era intesa come applicazione di tutto l’essere personale: «Per gli antichi meditare è leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica» (Jean Leclercq).
Questo legame tra corpo e meditazione, tra lettura orante e gestualità è ben visibile nei molti atteggiamenti motòri e nei dondolii del corpo e della testa che ritmano la recitazione dei versetti in scuole coraniche o in scuole talmudiche. Ma anche nei monasteri cristiani la prassi della lectio divina ha sempre cercato di legare corpo e lettura: la parola deve imprimersi nel corpo! Ugo di San Vittore (XII secolo) distingue la cogitatio, che è analisi concettuale delle parole, dalla meditatio, che è invece immedesimazione.
La meditazione dunque muove dalla lettura, ma evolve verso la preghiera e la contemplazione. Capiamo perché la meditazione cristiana ci porti inevitabilmente a far riferimento alla lectio divina, cioè alla prassi di lettura-ascolto della Scrittura condotta non con intento speculativo, ma sapienziale e rispettoso del mistero, che tenta di farne emergere la Parola di Dio per portare il credente ad applicare se stesso al testo e il testo a se stesso in un processo dialogico che diviene preghiera e sfocia nella condotta di vita conforme alla volontà di Dio espressa dalla pagina biblica.
Questo processo è stato elaborato come cammino in quattro tappe definite rispettivamente lectio, meditatio, oratio, contemplatio.?La meditazione è l’operazione spirituale (mossa cioè dallo Spirito santo e attuata da tutto l’uomo, corpo e intelligenza) che dall’ascolto della parola conduce alla risposta di preghiera e di vita al Dio che esprime la sua volontà attraverso la parola scritturistica.
Questa centralità della Scrittura nella meditazione cristiana non è casuale, ma deriva direttamente dal carattere proprio del cristianesimo: Dio si rivela parlando, e la sua rivelazione definitiva è la Parola fatta carne, Gesù Cristo. Perciò la meditazione cristiana sarà sempre la ricerca di appropriazione e interiorizzazione della Parola di Dio. Se di questa Parola la Scrittura è sacramento, è però anche vero che essa raggiunge l’uomo attraverso le vie dell’esistenza, degli incontri umani, degli eventi della vita. Ma anche allora il credente sarà chiamato a leggere e ascoltare, quindi ad approfondire, a interpretare pensando e riflettendo, a meditare, cioè a dar senso a eventi e incontri, per poi discernere la presenza, la Parola di Dio nel mondo e nella storia, e quindi a vivere conformemente ad essa. Del resto la lettura del libro della Scrittura deve accompagnare quella del libro della natura e del libro della storia.
La meditazione cristiana non consiste perciò in una tecnica, né mai può assegnare come fine al soggetto la sua stessa soggettività, ma sempre cerca di aprire il soggetto all’alterità, alla carità e alla comunione guidandolo ad avere in sé lo stesso sentire e lo stesso volere che furono in Cristo Gesù.

 

Publié dans:MEDITAZIONE (sulla) |on 12 mars, 2018 |Pas de commentaires »

Gesù innalzato sulla croce

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Publié dans:immagini sacre |on 9 mars, 2018 |Pas de commentaires »

CRISTO È LA NOSTRA GIOIA, SEMPRE E ASSOLUTAMENTE

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CRISTO È LA NOSTRA GIOIA, SEMPRE E ASSOLUTAMENTE

padre Antonio Rungi

IV Domenica di Quaresima – Laetare (Anno B) (11/03/2018)

Cristo è la nostra gioia, sempre e assolutamente. E’ questo in sintesi il messaggio che ci arriva dalla parola di Dio della quarta domenica di Quaresima, chiamata “Laetare”, cioè della gioia, della letizia.
Dove troviamo, noi cristiani questa gioia vera, sempre ed in termini assoluti? Leggendo i testi della Sacra Scrittura di questa domenica, questa gioia la possiamo sperimentare, prima di tutto, nella misericordia di Dio nei confronti dell’umanità.
La prima lettura di oggi, tratta dal libro delle Cronache ci riporta al tempo dell’esilio babilonese del popolo d’Israele e del suo susseguente tempo della liberazione e del ritorno in patria. Le cause di questa triste esperienza, sono individuate nel fatto che “tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme”.
Per richiamare il popolo sulla retta via ed un comportamento consono alla legge di Dio, “il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora”.
Cosa successe? Invece di accogliere i messaggeri di Dio e di cambiare vita, essi si beffarono di loro, “disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio”.
Le conseguenze furono disastrose per Israele. Infatti “[i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi”. La gente scampata alla spada fu portata in esilio in Babilonia.
La liberazione da questa schiavitù avvenne per opera di Dio che suscitò il Re persiano, Ciro, i quale emanò questo editto: «Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”». La gioia del ritorno in patria viene così a realizzarsi per intervento divino ed Israele ritorna, anche questa volta, a casa.
L’altro motivo di gioia ci è ricordato dall’apostolo Paolo, nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni, ed è la grazia della fede che ci è stata donata e che dobbiamo alimentare. Non tutti sanno apprezzare questo dono e questa gioia che ci portiamo nel profondo del nostro cuore e del nostro essere salvati in Cristo. Per grazia infatti siamo stati salvati “mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”.
Il terzo motivo della nostra gioia cristiana è messo alla nostra attenzione e valutazione spirituale dal brano del Vangelo di Giovanni di questa quarta domenica di Quaresima ed è il Cristo Crocifisso, il Cristo innalzato sulla Croce per noi, richiamando alla nostra mente ciò che avvenne nell’Esodo, quando Mosè innalzò il serpente nel deserto e gli israeliti in cammino verso la Terra promessa furono salvati. Infatti, il morso dei serpenti velenosi, che si annidavano tra le pietraie, era stata una delle tante insidie durante la marcia di Israele nel deserto del Sinai. Il racconto del libro dei Numeri (21,4-9) ha come sbocco l’“innalzamento” di un serpente di bronzo da parte di Mosè, quasi come una sorta di antidoto e di ex voto. Il racconto biblico sottolinea che la liberazione dalla morte per avvelenamento avveniva solo se si “guardava” il serpente innalzato, cioè se si aveva uno sguardo di fede nei confronti di quel “simbolo di salvezza”, come lo definisce il libro della Sapienza. Gesù, nel dialogo notturno con Nicodemo, di cui ci occupiamo oggi, nel brano giovanneo, stabilisce un parallelo tra quel segno di salvezza e «il Figlio dell’uomo innalzato», cioè se stesso crocifisso.
La nostra gioia piena sta nel fatto che Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”.
Qui c’è la certezza non del pena, ma della salvezza per tutti, a patto che, ogni persona che si incammina sulla via del Cristo, poi agisca di conseguenza, accogliendo la luce ed allontanandosi dalle tenebre, facendo il bene e distaccandosi da ogni struttura di peccato: “Chiunque fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Una verità assoluta emerge da tutta la parola di Dio di questo giorno di festa e di gioia che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”.
La fede in Dio ci spinge ad agire per il bene e alla fine il bene viene fuori in ogni circostanza, se accolgono Cristo, vera luce del mondo, vera luce della mente e del cuore di ogni buono che buono, che non conosce la malvagità. Mi piace concludere questa riflessione con una bellissima preghiera del prossimo Santo, Papa Paolo VI, che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita:
Signore, ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, e ancora di più che facendomi cristiano, mi hai generato e destinato alla pienezza della vita.
Tutto è dono, tutto è grazia. Come è bello il panorama attraverso il quale passiamo; troppo bello, tanto che ci lasciamo attrarre e incantare, mentre deve apparire segno e invito.
Questa vita mortale, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, è un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e in gloria.
Dietro la vita, dietro la natura, l’universo, tu ce lo hai rivelato, sta l’Amore.
Grazie, o Dio, grazie e gloria a te, o Padre. Amen.

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