Archive pour mars, 2018

Pesach

la mia e paolo (3) - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 20 mars, 2018 |Pas de commentaires »

LA CENA DI GESÙ

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LA CENA DI GESÙ

Era il giorno del mese di Nissan in cui si doveva immolare l’agnello pasquale: era la Pèsach, il giorno di pasqua.
Già fin dalle prime luci dell’alba, appena svegliati, i discepoli s’avvicinarono a Gesù e gli chiesero: « Dove preferisci che prepariamo la cena pasquale? ».
Egli, ancora profumato di nardo, si rivolse a Simone e Giovanni: « Andate in città e passate dalla Porta della Fontana e non appena entrati » disse dando un’occhiata alla posizione del sole « vedrete un uomo che trasporta, compito da donna, una brocca d’acqua. Seguitelo dunque fino a casa e dite al suo padrone: « Il Maestro ti manda a dire: « Passerò la Pasqua da te. C’è una stanza in cui possa mangiare il Sèder con i miei discepoli? »". Egli allora quasi certamente vi mostrerà la sala grande del piano superiore che è sempre pronta e addobbata riccamente con tappeti e cuscini: là preparerete tutto in attesa del nostro arrivo. ».
I due si gettarono il mantello sulle spalle e presi i bastoni imboccarono la strada polverosa verso Gerusalemme dove fecero com’era stato loro detto.
Per preparare la cena di Pasqua comprarono al mercato le erbe amare (maròr), il vino di cedro, le spezie, la salsa per intingervi le verdure (haròset) e la farina per fare i pani azzimi (matztzàh). Comprarono anche l’agnello e lo sacrificarono subito al Tempio. Non appena furono tornati a casa, s’affrettarono ad arrostirlo prestando attenzione a non rompergli alcun osso, come prescritto dalla Legge. Prepararono, con cinque tipi d’erbe amare, l’insalata ed infine realizzarono numerose forme di pane azzimo, ossia senza il lievito, e mescolarono l’acqua al vino di cedro, com’era prassi a quei tempi.
Nel tardo pomeriggio, quand’ogni cosa era ormai quasi pronta, prepararono il charoseth (un dolce a base di mandorle, fichi, datteri, vino e cannella) che, in ricordo delle piramidi costruite in Egitto durante la schiavitù, si sforzavano di rendere di un marcato colore mattone.
Venuta la sera, il Maestro ed i restanti apostoli li raggiunsero a Gerusalemme e salirono al piano loro riservato. Una tavola di legno massiccio, a forma di « U » ed alta una trentina di centimetri, era in mezzo alla stanza con il lato aperto rivolto verso la porta d’ingresso mentre il posto a capotavola, per Gesù, era dall’altro capo, al centro del « ferro di cavallo ». Qualcuno iniziò a sedersi, altri restarono a chiacchierare in piedi. Simone e Giovanni lasciarono l’incarico di controllare la cottura della cena a qualcun’ altro e si sdraiarono: Simone a sinistra del Maestro mentre a destra, posto di solito occupato da Giuda di Kerioth, si mise Giovanni. I tre avrebbero mangiato sdraiati su di un unico basso lettino il cui lato dalla parte del tavolo raggiungeva alla stessa altezza dei piatti. Si sprofondarono ognuno sul proprio cuscino appoggiando il gomito sinistro e lasciando libera la mano destra per iniziare subito ad assaggiare qualche stuzzichino.
Alle sette iniziò ufficialmente la Pasqua ed alcuni servitori entrarono ed accesero i bracieri di bronzo in quanto l’aria iniziava a farsi fredda. L’agnello fu estratto dal forno caldo e, mentre gli apostoli professarono in coro il loro monoteismo: « Non c’è che un solo Dio: Iahweh. », venne posto sulla tavola, in mezzo ai piatti e ai calici. Le spezie, l’insalata, i pesci, il vino, la frutta ed il dolce erano già sul tavolo.
Tutti si sdraiarono e Gesù, terminata la purificazione delle mani, s’alzò da tavola e, mentre la prima coppa girava già tra i commensali, si tolse la tunica per non sporcarla dato che era una delle migliori che aveva. Prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Versò dell’acqua in un catino e poi cominciò, come un qualsiasi servo, a lavare i piedi ai propri discepoli che restarono attoniti a guardare.
Arrivato all’altezza di Simone, questi lo guardò e disse « Signore, tu vorresti forse lavarmi i piedi? ». Gesù rispose: « Quello che sto’ facendo, forse, ora non lo puoi capire. ». Al che’ Simone borbottò sbuffando: « Non mi laverai mai i piedi! ». E Gesù: « Solo se ti laverò sarai un mio discepolo. ». Simone allora, per quanto ancora perplesso, ma preso già da nuovo entusiasmo, gli disse: « Signore, allora non lavarmi solo i piedi ma anche le mani e la testa! ».
Gesù aggiunse: « Non ne avete bisogno: voi siete del tutto puri. Siete stati completamente immersi in acqua durante il battesimo e non avete alcun bisogno di lavarvi altro se non i piedi che s’impolverano sulla strada. ». Dopo che ebbe finito di lavare loro i piedi, si rivestì e sedendosi disse loro: « Sapete ciò che ho fatto? Voi mi chiamate Signore, ma se io vi ho lavato i piedi, anche voi dunque dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato l’esempio, e ciò che ho fatto fatelo anche voi.
Un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi l’ha mandato. Voi lo sapete e sarete benedetti se vi comporterete di conseguenza. ».
Cerfoglio e prezzemolo vengono intinti nella salsa per ricordare le amarezze della vita in Egitto. Poi Gesù prese il pane ed alzatolo lo benedisse: « Benedetto colui che ha creato i frutti della terra. ». Mentre tutti bevevano a turno dal primo calice, Gesù divise il pane azzimo, simbolo della loro fretta nel lasciare la terra d’Egitto, tra i commensali e ne conservò una piccola porzione, avvolta in un panno, da mangiare a fine pasto con la frutta.
Lessero l’haggadàh, la cronaca della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. « Ecco il pane della miseria che i nostri padri hanno mangiato in Egitto. Chi ha fame venga e ne mangi; chi ha bisogno venga e celebri la Pasqua con noi. ».
Giovanni, il più giovane del gruppo, chiese come da tradizione: « Perché questa notte è diversa dalle altre notti? Perché stanotte mangiamo solo pane azzimo ed erbe amare? Perché di solito non intingiamo nulla e stanotte invece lo facciamo per ben due volte ed inoltre mangiamo solo appoggiati? ».
E Gesù rispose seguendo il rito di Pasqua: « Il Signore mi ha favorito quando uscii dall’Egitto.
Il faraone s’ostinava a trattenerci e per questo il Signore fece morire tutti i loro primogeniti, sia dell’uomo sia dell’animale. Per questo motivo siamo soliti sacrificare al Signore ogni primogenito del gregge e riscattare ogni primogenito della famiglia.
E’ stata questa promessa che ha sostenuto noi ed i nostri padri! Molti nemici hanno tentato di sterminarci, ma l’Onnipotente ci ha sempre salvato da loro. ».
Dopo aver poi spiegato, con le parole del dodicesimo libro dell’Esodo, ciò che l’agnello e le erbe rappresentano, proseguì: « Di generazione in generazione ognuno di noi ha il dovere di considerarsi come fosse stato personalmente liberato dalla schiavitù in quanto il Signore ha liberato non solo i nostri padri ma, con loro, anche noi.
Il Signore ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorre latte e miele. Noi dobbiamo ringraziare, lodare e glorificare Colui che ha compiuto per noi tutto questo. ».
Poi fu servito il pranzo contornato dalle usuali benedizioni.
Mentre, sdraiati tra i cuscini ricamati, gustavano l’agnello pasquale ed i pesci del lago di Galilea ripieni di riso e di melagrana, Gesù guardò i suoi apostoli e soffermandosi ciascuno di loro il suo sguardo e poi disse loro: « Desideravo passare questa Pasqua con voi dal momento che non ne celebrerò più finché non si compirà il regno di Dio.
Come è scritto « Uno di voi pur mangiando lo stesso mio pane, e pur servendosi dal mio stesso piatto » disse indicando il piatto centrale di portata « si leverà contro di me. »".
I suoi discepoli, stupefatti e addolorati, si guardarono tra loro e, non sapendo a chi potesse riferirsi, incominciarono a domandarsi a vicenda chi mai di loro avrebbe potuto fare ciò. Giovanni che poggiava la testa sulla sua spalla, gli chiese: « Sono forse io? » ma egli scosse la testa per tranquillizzarlo. Simone, anch’egli preoccupato nella sua emotività, chiese a Giovanni: « Dì un po’, di chi sta’ parlando? » ma la risposta di Gesù si perse nel brusio che aleggiava sulla tavola assieme alla tristezza del giorno, tra le erbe amare ed il pane dell’afflizione.
Intinto nella salsa un boccone di pane lo porse, significativo atto d’amicizia ed affetto, a Giuda di Kerioth, figlio di Simone che era fratello di Caifa. Lo guardò e gli disse: « Quello che devi fare, fallo al più presto. » ma nessuno udì le sue parole.
Egli preso il boccone uscì nella notte e Gesù disse: « Ora le scritture si avvereranno ed il figlio dell’uomo sarà glorificato, e con lui anche Dio.
Miei cari, ancora per poco sarò con voi; poi mi cercherete, ma, come vi ho già detto, vado dove non potete venire.
Io vi ho amato così come mi ha amato il Padre. Rimanete nel mio amore! Se osserverete i miei insegnamenti, come io ho osservato i comandamenti di mio Padre, rimarrete nel mio amore. Vi dico questo affinché vi rimanga la mia gioia e la vostra gioia sia completa. Vi lascio solo questo comandamento: amatevi a vicenda così come vi ho amati io e così tutti sapranno che siete miei discepoli. ».
Poi vedendoli angosciati per queste sue parole di commiato sorrise e dolcemente aggiunse: « Non siate turbati. Credete in Dio ed in me. Nella casa di mio Padre vi sono molte dimore altrimenti non v’avrei annunciato che vado a prepararvi il posto. Quando il posto sarà pronto, ritornerò e vi porterò con me. ».
Chiese Simone: « Signore, dove’ è che vai? ». E Gesù: « Voi conoscete bene la strada che porta al posto dove vado. ». Lo interruppe Tommaso: « Ma Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscerne la strada? ». Gesù rispose: « Ma Tommaso, sono io sono la strada: si va’ al Padre attraverso me. ».
Filippo, insistendo, chiese: « Mostraci il Padre. ». Gesù sorrise: « E’ molto che sono con voi e tu non mi hai ancora conosciuto, Filippo? Chi vede me, vede il Padre. Come puoi dire: « Mostraci il padre »? Io sono nel Padre ed il Padre è in me. Le parole che dico non le dico io ma il Padre che attraverso me compie le sue opere. Credete se non alle parole almeno alle opere che compio.
Vi assicuro che chi crede in me potrà eseguire le stesse opere che compio io ed anche di più grandi perché io vado al Padre ed intercederò per lui.
Non preoccupatevi: io pregherò il Padre affinché vi mandi chi potrà consolarvi e restare sempre con voi. Lo spirito di verità, che il mondo non può accogliere in quanto non lo riconosce, voi però lo conoscete perché è già in voi: è il vostro cuore che vi parla.
Ancora un po’ e lascerò il mondo, ma voi mi vedrete sempre, perché resto in voi e quel giorno saprete che io sono nel Padre, voi in me ed io in voi. ».
Un altro apostolo, anch’egli di nome Giuda, gli si rivolge dicendo: « Ma Signore, perché ti riveli solamente a noi e non a tutto il mondo? ». Gli rispose Gesù: « Chi mi ama, mi ascolterà anche se non è qui, ora, con noi ed il Padre sarà in lui perché le parole che ascoltate non sono mie, ma del Padre che mi ha inviato. ». Giuda lo osservò perplesso.
« Vi lascio la mia pace, e non è quella terrena. Non siate turbati perché ho ricordato che me ne vado per poter ritornare. Se mi amaste, godereste del fatto che torno al Padre, perché il Padre è più grande di me. Me ne andrò non perché il principe del mondo abbia alcun potere su di me, ma perché tutti sappiano che amo il Padre e agisco secondo il suo volere.
Ho detto queste cose ora che sono con voi. Ma lo spirito consolatore che ho invocato v’insegnerà tutto e farà sì che ricordiate tutto ciò che vi ho detto. ».

Durante la serata iniziarono a discutere su chi fosse il più importante tra loro. Egli intervenne dicendo: « Anche i tiranni si fanno chiamare « benefattori », voi però cercate d’agire diversamente. Chi è il più grande diventi come il più piccolo, ed i governanti diventino come servi. Chi è infatti più grande: chi siede a tavola o chi serve? Non è forse chi siede a tavola? Nonostante questo io sono qui ora come uno che serve. ».
Poi, cambiato argomento, aggiunse: « Quando vi mandai, senza borsa e senza scarpe, vi è forse mancato qualcosa? ». « Nulla. » mormorarono i discepoli. Allora egli proseguì: « Ora, però, se avete una borsa prendetela perché sta’ per avverarsi il passo della scrittura: « E’ stato messo nel numero dei malfattori « . ».
Tutti assieme intonarono poi la prima parte dell’Hallèl.
« Lodate, servi del Signore,
lodate il nome del Signore … ».
A fine cena Gesù prese l’ultimo pezzo di pane azzimo, l’afiqomàn, e, pronunciata la benedizione del pasto (« birkàth ha mazòn »), lo spezzò e lo offrì ai suoi discepoli: « Benedetto sii tu, eterno nostro Dio, re dell’universo che trai il pane dalla terra. Questo è il pane della sofferenza che i nostri padri mangiarono in Egitto. Tutti voi che avete fame, venite e mangiate; questo sono io che mio offro a voi. Tutti voi che siete bisognosi, venite e prendete la Pèsach. Fate questo in mio ricordo e celebratelo come « zikkaròn », come una memoria. ».
Allo stesso modo prese il terzo calice prescritto per la cena pasquale, il « calice della benedizione » e rese grazie a Dio, come aveva fatto anche con le altre coppe: « Benedetto sii tu eterno nostro Dio, re dell’universo, che hai creato il frutto della vite! ». Poi la diede loro affinché se la passassero tra loro e ne bevessero tutti.
« Come nel Sinai il sacrificio sancì l’alleanza di Dio con il suo popolo, questo calice serve ora a sigillare un altra alleanza: il mio sangue sarà versato per voi e per molti, come espiazione di ogni vostra precedente mancanza.
Vi assicuro che da ora in poi" non berrò più vino, fino al giorno in cui potrò farlo con voi nel regno di Dio. Ricordate ogni volta che ne berrete. ». Il pasto venne terminato portando alle labbra la quarta coppa, l’Hallèl.
Poiché era sera tardi, dopo aver cantato gli ultimi salmi di lode, uscirono e si diressero in direzione di Betania, verso il monte detto « degli ulivi », lungo la valle del fiume Cèdron. Avevano intenzione, come d’abitudine di fermarsi a dormire presso il « Gethsèmani »: il frantoio locale.

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San Giuseppe ed il bambino Gesù

la mia e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 19 mars, 2018 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – 19 MARZO 1980 – GIUSEPPE: L’UOMO AL QUALE DIO CONFIDÒ I SUOI MISTERI

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1980/documents/hf_jp-ii_aud_19800319.html

GIOVANNI PAOLO II – 19 MARZO 1980 – GIUSEPPE: L’UOMO AL QUALE DIO CONFIDÒ I SUOI MISTERI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 marzo 1980

Prima della catechesi il Santo Padre rivolge un saluto ai ragazzi presenti nella Basilica Vaticana

Aula Paolo VI

1. Dedichiamo il nostro odierno incontro, che cade il 19 marzo, a colui che la Chiesa, in questo giorno, secondo una tradizione antichissima, circonda con la venerazione dovuta ai più grandi santi.
Il 19 marzo è la solennità di san Giuseppe, lo sposo di Maria santissima, Madre di Cristo. Già nel secolo X troviamo segnalata in vari calendari questa festività. Il Papa Sisto IV la accolse nel calendario della Chiesa di Roma a partire dall’anno 1479. Nel 1621 essa venne inserita nel calendario della Chiesa universale.
Interrompendo quindi la serie delle nostre meditazioni, che stiamo svolgendo ormai da tempo, rivolgiamoci oggi a questa figura così cara e vicina al cuore della Chiesa e, nella Chiesa, ad ognuno e a tutti coloro che cercano di conoscere le vie della salvezza, e di camminare su di esse nella loro vita terrena. L’odierna meditazione ci prepari alla preghiera, affinché, riconoscendo le grandi opere di Dio in colui al quale egli ha confidato i suoi misteri, cerchiamo nella nostra vita personale il riflesso vivo di queste opere per compierle con la fedeltà, l’umiltà e la nobiltà di cuore che furono proprie di san Giuseppe.
2.
« Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati » ( Mt 1,20-21 ).
Troviamo queste parole nel capitolo primo del Vangelo secondo Matteo. Esse – soprattutto nella seconda parte – suonano simili a quelle che ascoltò Miriam, cioè Maria, nel momento dell’Annunciazione. Tra qualche giorno – il 25 marzo – ricorderemo nella liturgia della Chiesa il momento in cui quelle parole furono pronunciate a Nazaret « a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria » ( Lc 1,27 ).
La descrizione dell’annunciazione si trova nel Vangelo secondo Luca.
In seguito Matteo nota di nuovo che, dopo le nozze di Maria con Giuseppe « prima che andassero a vivere insieme, ella si trovò incinta per opera dello Spirito Santo » ( Mt 1,18 ).
Così dunque si compì in Maria il mistero che aveva avuto il suo inizio nel momento dell’annunciazione, nel momento, in cui la Vergine rispose alle parole di Gabriele: « Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto » ( Lc 1,38 ).
A mano a mano che il mistero della maternità di Maria si rivelava alla coscienza di Giuseppe, egli, « che era giusto, non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto » ( Mt 1,19 ), così dice il seguito della descrizione di Matteo.
E proprio allora Giuseppe, sposo di Maria e dinanzi alla legge già suo marito, riceve la sua personale « Annunciazione ».
Egli sente durante la notte le parole che abbiamo riportato sopra, le parole, che sono spiegazione e nello stesso tempo invito da parte di Dio: « Non temere di prendere con te Maria » ( Mt 1,20 ).
3.
Nello stesso tempo Dio affida a Giuseppe il mistero, il cui compimento avevano aspettato da tante generazioni la stirpe di Davide e tutta la « casa d’Israele », ed al tempo stesso affida a Lui tutto ciò da cui dipende il compimento di tale mistero nella storia del Popolo di Dio.
Dal momento in cui tali parole sono giunte alla sua coscienza, Giuseppe diventa l’uomo della divina elezione: l’uomo di un particolare affidamento. Viene definito il suo posto nella storia della salvezza. Giuseppe entra in questo posto con la semplicità e l’umiltà, in cui si manifesta la profondità spirituale dell’uomo; ed egli lo riempie completamente con la sua vita.
« Destatosi dal sonno – leggiamo da Matteo – Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore » ( Mt 1,24 ). In queste poche parole c’è tutto. Tutta la descrizione della vita di Giuseppe e la piena caratteristica della sua santità: « Fece ». Giuseppe, quello che conosciamo dal Vangelo, è uomo di azione.
È uomo di lavoro. Il Vangelo non ha conservato alcuna sua parola. Ha descritto invece le sue azioni: azioni semplici, quotidiane, che hanno nello stesso tempo il significato limpido per il compimento della promessa divina nella storia dell’uomo; opere piene della profondità spirituale e della semplicità matura.
4.
Tale è l’attività di Giuseppe, tali sono le sue opere, prima che gli fosse rivelato il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, che lo Spirito Santo aveva operato nella sua sposa. Tale è anche l’opera ulteriore di Giuseppe, quando – già consapevole del mistero della maternità verginale di Maria – rimane accanto a lei nel periodo precedente la nascita di Gesù e soprattutto nella circostanza della Natività.
Poi vediamo Giuseppe nel momento della presentazione al tempio e dell’arrivo dei re magi dall’oriente. Poco dopo si inizia il dramma dei neonati a Betlemme. Giuseppe di nuovo viene chiamato e istruito dalla voce dall’alto su come deve comportarsi.
Intraprende la fuga in Egitto con la Madre e il Fanciullo.
Dopo breve tempo, il ritorno alla nativa Nazaret.
Lì finalmente ritrova la sua casa e l’officina, alla quale sarebbe tornato certamente prima se non glielo avessero impedito le atrocità di Erode. Quando Gesù ha dodici anni, si reca con lui e con Maria a Gerusalemme.
Nel tempio di Gerusalemme, dopo che tutti e due hanno ritrovato Gesù smarrito, Giuseppe sente queste misteriose parole:
« Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? » ( Lc 2,49 ).
Così diceva il ragazzo di 12 anni, e Giuseppe, così come Maria, sanno bene di Chi parla.
Nondimeno, nella casa di Nazaret, Gesù era loro sottomesso ( Lc 2,51 ): a loro due, a Giuseppe e Maria, così come un figlio è sottomesso ai suoi genitori. Passano gli anni della vita nascosta della Sacra Famiglia di Nazaret. Il Figlio di Dio – mandato dal Padre – è nascosto per il mondo, nascosto per tutti gli uomini, perfino per quelli più vicini. Soltanto Maria e Giuseppe conoscono il suo mistero. Vivono nella sua cerchia. Vivono questo mistero quotidianamente. Il Figlio dell’eterno Padre passa, dinanzi agli uomini, per loro figlio; per « il figlio del carpentiere » ( Mt 13,55 ). Quando inizierà il tempo della sua missione pubblica, Gesù si richiamerà nella sinagoga di Nazaret alle parole di Isaia, che in quel momento si adempiono in lui, i vicini e compaesani diranno: « Non è il figlio di Giuseppe? » (cf. Mt 4,16-22 ).
Il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, durante i trent’anni della vita terrestre è rimasto nascosto: si è nascosto all’ombra di Giuseppe.
Nello stesso tempo Maria e Giuseppe rimasero nascosti in Cristo, nel suo mistero e nella sua missione. In particolare Giuseppe, che – come si può dedurre dal Vangelo – lasciò il mondo prima che Gesù si rivelasse ad Israele come il Cristo, rimase nascosto nel mistero di colui che il Padre celeste gli aveva affidato quando era ancora nel grembo della Vergine, quando gli aveva detto mediante l’angelo: « Non temere di prendere con te Maria tua sposa » ( Mt 1,20 ).
Erano necessarie anime profonde – come santa Teresa di Gesù – e gli occhi penetranti della contemplazione, perché potessero essere rivelati gli splendidi tratti di Giuseppe di Nazaret: colui del quale il Padre celeste volle fare, sulla terra, l’uomo del suo affidamento.
Tuttavia la Chiesa è stata sempre consapevole, e oggi lo è in modo particolare, di quanto fondamentale sia stata la vocazione di quell’uomo: dello sposo di Maria, di colui che, dinanzi agli uomini, passava per il padre di Gesù e che fu, secondo lo spirito, una incarnazione perfetta della paternità nella famiglia umana ed insieme sacra.
In questa luce, i pensieri e il cuore della Chiesa, la sua preghiera ed il suo culto, si rivolgono a Giuseppe di Nazaret. In questa luce l’apostolato e la pastorale trovano in lui appoggio in quel campo vasto e insieme fondamentale che è la vocazione matrimoniale e dei genitori, tutta la vita nella famiglia, piena della sollecitudine semplice e servizievole del marito per la moglie, del padre e della madre per i figli – la vita nella famiglia – in quella « Chiesa più piccola » sulla quale si costruisce ogni Chiesa.
E poiché nel corrente anno ci prepariamo al Sinodo dei Vescovi il cui tema è « De muneribus familiae christianae », tanto maggiormente sentiamo il bisogno dell’intercessione di san Giuseppe e del suo aiuto nei nostri lavori.
La Chiesa che come società del Popolo di Dio, chiama se stessa anche la famiglia di Dio, vede pure il posto singolare di san Giuseppe nei confronti di questa grande famiglia e lo riconosce come suo patrono particolare.
Questa meditazione risvegli in noi il bisogno della preghiera per l’intercessione di colui in cui il Padre celeste ha espresso, sulla terra, tutta la dignità spirituale della paternità. La meditazione sulla sua vita e sulle sue opere, così profondamente nascoste nel mistero di Cristo e, al tempo stesso, così semplici e limpide, aiuti tutti a ritrovare il giusto valore e la bellezza della vocazione, alla quale ogni famiglia umana attinge la sua forza spirituale e la santità.

IL Passaggio del Mar Rosso, affresco 1640, Jaroslavl, Russia

il passsaggio del mar rosso affresco degli anni 1640 a Jaroslavl', in Russia - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 16 mars, 2018 |Pas de commentaires »

SALMI (I)- A CURA DI ENZO BIANCHI

http://ora-et-labora.net/bibbia/bianchi.html

SALMI – A CURA DI ENZO BIANCHI

IL CONTENUTO

Il Salterio si presenta suddiviso in cinque libri scanditi da una dossologia finale; il Quinto libro è concluso da una piccola collezione di Salmi (dal 146 al 150), detti alleluyatici perché hanno come titolo l’espressione «Lodate il Signore» (halelûyah), che fungono da dossologia conclusiva non solo del Quinto libro ma dell’intero Salterio (dal greco psaltérion, lo strumento a corde che accompagnava i Salmi).
Questa antica suddivisione, risalente almeno al Il secolo a.C. ma probabilmente più antica, riproduce la suddivisione in cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e sottolinea l’autorevolezza dei Salterio: anch’esso è una Torah! La dossologia finale di ciascun libro si accompagna a una beatitudine che troviamo all’interno di ognuno dei Salmi che chiudono i cinque libri: 41,2; 72,17; 89,16; 106,3; 146,5 (all’inizio della collezione alleluyatica conclusiva dei Salterio). Il doppio registro della «beatitudine dell’uomo» e della «lode di Dio» scandisce così ciascuno dei libri dei Salterio. Ma si può dire di più: visto che i Salmi 1 e 2 costituiscono il «prologo» dell’intero Salterio e sono racchiusi dal concetto della beatitudine dell’uomo (1,1; 2,12), e visto che i Salmi 146-150, che costituiscono l’epilogo laudativo del Salterio, sono interamente pervasi dalla lode di Dio, è l’intero libro dei Salterio a essere racchiuso – secondo un tipico procedimento stilistico della letteratura ebraica detto «inclusione» -dal doppio registro della beatitudine dell’uomo e della lode di Dio. li Salterio è cosi un libro dell’uomo e di Dio, un libro teandrico, che indica all’uomo la via della felicità affermando che questa si compie nella lode di Dio: nei Salmi 146-150 la radice hll, «lodare», ricorre ben 31 volte e il Salmo 145, che di fatto è l’ultimo del corpo del Salterio – essendo i Salmi 146-150 l’epilogo – è, come recita la sua soprascritta al versetto 1, una «lode», una tehillâ.
La testimonianza di un popolo che sapeva pregare. Il Salterio è forse il libro biblico più particolare. Si tratta di una raccolta di 150 componimenti poetico-religiosi, differenti per autore, data di composizione, ambiente di origine, tonalità letteraria, lunghezza, modalità di composizione. Accanto al brevissimo Salmo 117 con i suoi due soli versetti, vi è il maestoso Salmo 119 composto da ben 176 versetti. Vi sono Salmi «studiati a tavolino», redatti da capo a fondo con l’elaborato ricorso ad artifici letterari raffinati, come il già ricordato 119; altri, invece, mostrano le tracce e il peso della storia nella stratificazione letteraria di cui sono portatori, come il Salmo 68, costituito da un nucleo originario antichissimo che celebrava una vittoria militare all’epoca dei giudici, da una successiva «rilettura» che lo ha adattato al tempo della monarchia di Giuda, e infine dall’intervento con glosse e ampliamenti di una terza «mano» nell’epoca postesilica. Tutto ciò rende impossibile parlare di una teologia dei Salmi compatta e unitaria.
Tuttavia tali componimenti hanno in comune il fatto di essere preghiere, di essere le parole che hanno retto il dialogo fra Israele e il suo Dio. È con questa prospettiva particolare che essi si collocano all’interno della struttura teologica centrale con cui Israele ha letto il proprio rapporto con Jhwh: «l’alleanza». I Salmi costituiscono la risposta di Israele alla parola di Dio, al suo intervento nella storia: essi sono «preghiere», e la «teologia del Salterio», se cosi si può dire, è essenzialmente una teologia della preghiera biblica. Questa preghiera conosce una grande quantità di inflessioni e modulazioni, parallela all’estrema diversità delle situazioni esistenziali e storiche: il Salterio è preghiera nella vita e nella storia, anzi, è storia e vita messe in preghiera. Esso può dunque essere giustamente considerato la migliore «Scuola di preghiera» in quanto tende a unificare vita e preghiera, storia e preghiera: esso insegna che «la preghiera è vivere alla presenza di Dio». Anche in una prospettiva cristiana, la quale ha al suo centro l’incarnazione e individua la storia e il mondo come il luogo della risposta a Dio, essi restano la preghiera per eccellenza: la Liturgia delle ore, vale a dire la preghiera ufficiale della chiesa, è intessuta essenzialmente di Salmi e afferma la sostanziale irrinunciabilità dei Salmi per la chiesa. E non sarebbe difficile mostrare come le grandi tematiche che attraversano la preghiera salmica (la confessione del nome salvifico di Dio, il riconoscimento della fraternità che lega i credenti nel Signore, la preghiera per l’avvento dei suo Regno, la confessione di peccato e la richiesta di perdono ecc.) sfociano quasi come in un compendio nella preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, il Padre nostro (cf. E. Beaucamp, Israël en prière. Dès Psaumes au Notre Père, Cerf, Paris 1985). Né si deve dimenticare che i Salmi, essendo pregati in tutte le confessioni cristiane, sono preghiera «ecumenica» per eccellenza.
I Salmi sono lode di Dio. I Salmi attestano che i due polmoni della preghiera biblica sono «la supplica» e «la lode». O forse, meglio, la lode e la supplica. Infatti, la lode costituisce l’orizzonte inglobante di tutta la preghiera di Israele. «La lode non è soltanto una « forma letteraria » all’interno del Salterio; la lode di Dio risuona in tutti i Salmi ed è pronunciata anche de profundis, dal profondo dell’angoscia. Lodare Dio: questa è la peculiarità di Israele, poiché nella lode è espresso il riconoscimento che il popolo di Dio è consapevole di essere « semplicemente dipendente » dal suo Dio e, al tempo stesso, che deve se stesso e tutto ciò che ha ricevuto e riceve alla bontà di Dio creatore. La lode è quindi la risposta tipica di Israele» (H. J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, p. 109). La supplica implica sempre la lode (perché la lode è anzitutto confessione di fede nel nome di Dio e questo è sempre presente nelle suppliche, anche le più disperate, come invocazione del volto e dei nome che solo può salvare) e la supplica tende sempre alla lode, com’è ben visibile nei Salmi di supplica che terminano con tonalità di lode (cf. le due parti dei Salmo 22, la prima sotto il segno dell’angoscia – versetti 2-22 – e la seconda impregnata di gioia e di esultanza – versetti 23-32; si veda anche l’espressione «ancora lo celebrerò! » dei levita esiliato che si esprime con tono di lamento in Salmi 42-43). Così, sebbene le suppliche siano il genere di preghiera più presente nel Salterio, si comprende il nome di «Lodi» (Tehillîm) che la tradizione ebraica ha attribuito all’insieme del libro. L’intersecarsi di questi diversi registri di preghiera e di atteggiamenti davanti a Dio (domanda e ringraziamento, lamento ed esultanza, grido angosciato e fiducia, lacrime e risa) dice l’intrinsecità del rapporto fra lode e supplica: « Quando ho levato il mio grido a lui, / la mia bocca già cantava la sua lode» (66,17).
I Salmi sono preghiera personale e collettiva. L’interscambio colto a proposito della lode e della supplica riguarda anche la dimensione personale e collettiva della preghiera del Salterio. Spesso queste dimensioni sono compresenti ìn uno stesso Salmo (cf. 22; 51; 130): a volte forse perché l’orante è il re, dunque una personalità corporativa che abbraccia in sé il destino del popolo, altre volte forse perché un Salmo originariamente individuale è stato rimaneggiato in senso collettivo per meglio adattarlo alla preghiera comunitaria. In ogni caso, al di là delle spiegazioni di dettaglio, va rilevato che la dimensione teologica dell’alleanza implica una intrinsecità fra «io» e «noi». Nei Salmi di ringraziamento l’orante invita i presenti al tempio a unirsi alla sua lode nella piena coscienza che il beneficio che il Signore gli ha procurato gli è stato ottenuto non grazie ai propri meriti, ma alla propria appartenenza al popolo con cui Dio ha stretto alleanza (cf. 34,4); la supplica dell’orante che invoca il perdono dei proprio peccato in vista della propria restaurazione personale e della propria riammissione alla presenza di Dio è seguita dall’invocazione a Dio per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e la ripresa del culto al tempio (51,3-19 e 20-21). La stessa utilizzazione comunitaria e liturgica di Salmi composti da un individuo fa sì che « io » del singolo e «io» di Israele si collochino in situazione di circolarità e non di esclusione. In ogni caso, il fatto che le preghiere contenute nel Salterio siano destinate a essere cantate e musicate indica che esse trovavano nella liturgia il loro luogo di destinazione. La qual cosa non ha impedito che divenissero testi usati anche nella pietà personale. Il Salterio tuttavia lascia trasparire numerose situazioni liturgiche, rituali e cultuali in cui venivano utilizzati i Salmi: processioni (48,13-15; 68,25-26; 118,26-27), pellegrinaggi (84; la collezione dei 15 Canti delle salite, espressione presente nelle soprascritte dei Salmi 120-134), sacrifici (50,23; 66,13-15; 116,17 ecc.), liturgie di ingresso al tempio (15; 24), benedizioni sacerdotali (115,14-15; 118,26; 128,5; 134,3), oracoli (12,6; 60,8-10; 81,7-17).
I Salmi sono musica e gestualità. Il riferimento a numerosi strumenti musicali (cf. 150,3-5) mostra l’estrema vivezza di queste liturgie: strumenti a corda (arpa, lira, cetra), fiati (flauti, liuti, oboe), corni (sia naturali che artificiali, cioè di bronzo o rame o argento), e poi cimbali, tamburi, campanelle… Ma lo strumento per eccellenza della preghiera salmica, e biblica in genere, è il corpo: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » » (P. Beauchamp, « La prière à l’école des Psaumes », in O. Odelain – R. Séguineau, Concordance de la Bible. Les Psaumes, Desclée de Brouwer, Paris 1980, P. XVII). Ecco dunque che il corpo si esprime nella preghiera inginocchiandosi (95,6), levando in alto le mani (141,2), protendendo in avanti le mani (143,6), sciogliendo le membra in danze (149,3), battendo le mani (47,2), prostrandosi faccia a terra (29,2), alzando gli occhi verso l’alto in segno di supplica (123) ecc. È cosi che i Salmi strappano la preghiera ai rischi di cerebralità e la presentano come linguaggio globale, di tutto l’uomo.
I Salmi sono poesia. Questa totalità di espressione dell’uomo trova la sua più adeguata manifestazione nella forma poetica: non bisogna dimenticare che i Salmi sono poesia e che pertanto la musicalità e il ritmo, le assonanze e le allitterazioni, cosi come tutti gli altri elementi stilistici della poetica ebraica che compongono la trama dei Salmi, sono essenziali per penetrarli, o meglio, per lasciarsene penetrare. Senza addentrarsi nella grande ricchezza della poetica ebraica, basti qui ricordare che la regola fondamentale della poesia ebraica si basa sul fatto che la lingua ebraica è accentuale, regolata dall’accento tonico distribuito fra pause e cesure. Ogni parola ha un accento su cui cade il tono della voce nel canto o nella recitazione, e il ritmo si adatta al carattere proprio di ciascun Salmo: i Salmi sapienziali, meditativi, avranno più frequentemente un ritmo pacato e disteso di 3+3 accenti (per esempio 1); le suppliche hanno spesso il ritmo detto qinâ («lamento»), un ritmo strozzato di 3+2 accenti che riproduce il parlare sincopato di chi è preso da singhiozzi e pianto (42-43). Tuttavia molti Salmi non presentano affatto una regolare struttura ritmica o per la lunga e stratificata storia letteraria che li ha prodotti, o per le corruzioni e lacune che si possono essere prodotte nel corso della tradizione manoscritta.
Altra regola essenziale della poesia ebraica è quella del «parallelismo»: un concetto è ripetuto una o più volte con parole diverse, con espressioni variate, per ottenere lo scopo di una adeguata interiorizzazione. I Salmi delle salite (120-134), tutti databili all’epoca postesilica – eccetto il Salmo 132, di origine più antica – sono redatti facendo ricorso al procedimento della «ripetizione»: una stessa parola o espressione è ripetuta più volte per aiutare la memorizzazione del testo, tra l’altro sempre molto breve (tranne, ancora, il Salmo 132). Si trattava infatti di componimenti che dovevano essere recitati durante il pellegrinaggio a Sion (detto «la salita», poiché a Gerusalemme, data la sua collocazione geografica, «si sale»: cf. Vangelo secondo Marco 10,33), e dunque dovevano essere semplici, adatti a tutti i livelli della popolazione, e facilmente memorizzabili.
Al «parallelismo sinonimico» (6,2) si affianca il «parallelismo antitetico», in cui un’idea è rafforzata dal suo contrario: «Gli uni contano sui carri, gli altri sui cavalli; / noi invochiamo il nome di Jhwh nostro Dio; / quelli si piegano e cadono, / noi restiamo in piedi e siamo saldi» (20,8-9).
Il « parallelismo sintetico » si riferisce a un concetto che, espresso nel primo membro di un versetto, viene completato dal secondo: « La volontà del Signore è luminosa / dà trasparenza allo sguardo » (1 9,9cd).
Il «parallelismo ascendente» mostra il continuo e progressivo accrescimento dell’idea fondamentale espressa: «Riconoscete a Jhwh, figli di Dio, / riconoscete a Jhwh gloria e potenza / riconoscete a Jhwh la gloria del suo nome» (29,1-2a).
Preghiera di tutto l’uomo, i Salmi rivelano la grande quantità di linguaggi che può esprimere la relazione con il Signore. Il sussurro, il brusio sommesso della meditazione (1,2), i singhiozzi e le lacrime del pianto del supplice (6,7-8; 56,9), la protesta nei confronti di un agire di Dio che non si riesce a comprendere («Perché, Signore?», 88,15), il silenzio (65,2), il grido e l’urlo (22,6; 61,2; 69,4), l’invettiva (58; 83,10ss), il lamento (5,2), la riflessione e il dialogo interiore (4,5; 42,6.12; 43,5; 73,16), il riso incontenibile della gioia straripante (126,2). Ogni linguaggio rinvia a una situazione esistenziale e storica che l’orante cerca di leggere davanti a Dio.
La molteplicità di situazioni e di atteggiamenti espressa nei Salmi si riflette sulla variegata gamma di generi letterari presenti nel Salterio che di seguito analizzeremo. Occorre però dapprima premettere che in realtà molti Salmi presentano una tale mescolanza di generi al loro interno che risulta quasi impossibile rinchiuderli in una sola griglia. Così il 36 combina il registro sapienziale con quello della supplica; il 52 contiene elementi sapienziali, ma anche i toni dell’invettiva e della requisitoria, del lamento personale e del ringraziamento; il 75 può essere annoverato tra i ringraziamenti, benché vi emerga la tematica della regalità di Jhwh e presenta elementi liturgico-profetici; il 95 e il 115 sembrano tradire un’origine liturgica senza che sia possibile specificare il tipo di liturgia; il 125 unisce il tono della supplica a quello della fiducia; il 126 è un Salmo di ringraziamento che diviene lamentazione e supplica; il 129 vede coabitare in sé i toni della supplica, della fiducia e del ringraziamento… E questo, che potrebbe essere verificato su molti altri Salmi, da un lato dice la precarietà dell’attribuzione di un Salmo a un determinato genere (mentre spesso si tratta piuttosto di giudicare la preponderanza di un tono rispetto a un altro), dall’altro attesta che i Salmi riflettono anzitutto la complessità e la non linearità della vita e della storia più ancora che la regolarità ingessata di forme e moduli letterari rigidi.

N.B.: Questo testo è solo una piccola parte dell’introduzione ai Salmi
curata da Enzo Bianchi e riportata nel volume citato più sopra.

Giovanni 12, 20-30

la mia e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 15 mars, 2018 |Pas de commentaires »
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