OMELIA IN COENA DOMINI – di ENZO BIANCHI (2011)

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Bose, 21 aprile 2011

Giovanni 13,1-15
1Corinti 11,23-32

OMELIA IN COENA DOMINI – di ENZO BIANCHI (2011)

Carissimi,
questa sera siamo commensali alla tavola del Signore, la nostra comunità, le nostre sorelle di Cumiana, le sorelle della chiesa etiopica copta che sono con noi, e voi amici e ospiti. Siamo tutti invitati dal Signore per celebrare la Pasqua, la Pasqua in cui il Signore è passato da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1), la Pasqua in cui il Signore ha voluto riassumere tutta la sua vita, per quanto umanamente possibile, in due gesti accompagnati da pochissime parole.
Il gesto della lavanda dei piedi, che noi ricorderemo dopo questa omelia, come gesto che narra l’azione di Gesù, non l’azione di chi presiede, ma l’azione, l’atteggiamento di Gesù nei confronti dei suoi discepoli, dunque nei nostri confronti. Un gesto che è un invito a che noi ci laviamo i piedi gli uni gli altri, ma un gesto che trova il suo canone, la sua forma nel gesto di Gesù, di cui noi cerchiamo di narrare tutta la portata attraverso un segno.
Il gesto eucaristico, ringraziamento di Gesù al Padre, benedizione di Gesù verso tutta la creazione e tutta la storia, ma anche risposta agli eventi che incombevano su di lui nella sua vicenda, eventi che lo avrebbero portato alla fine, alla passione e alla morte.
Quest’anno la nostra meditazione sarà su questo secondo gesto di Gesù, dunque sull’eucaristia, la cui narrazione abbiamo ascoltato nelle parole dell’Apostolo Paolo, che riferisce alla comunità di Corinto una memoria viva, vissuta dalla chiesa di Antiochia (cf. 1Cor 11,23-32), una memoria che era ormai celebrata in tutte le comunità cristiane come memoria del gesto compiuto da Gesù alla vigilia della sua passione e anche come rivelazione della sua Pasqua. Cerchiamo dunque semplicemente di ascoltare le Scritture sante e di comprendere l’eucaristia attraverso di esse.

Gesù è salito a Gerusalemme con la sua comunità, i Dodici, e l’evangelista Luca ci dice che nella consapevolezza di quella Pasqua che incombeva su di lui, Gesù ha assunto un viso duro, una faccia dura e decisa (cf. Lc 9,51), quasi a dire che ormai le parole non erano più assolutamente necessarie e che bisognava tutto riassumere nella semplicità, con gesti elementari, con poche parole. Gesù sa – certo, con la sua coscienza umana, soltanto umana, ma vigilante, una coscienza non sonnolenta, una coscienza esercitata a comprendere la necessitas umana e le esigenze della volontà di Dio – che ormai si avvia verso la morte. L’ostilità nei suoi confronti è cresciuta, l’autorità religiosa legittima e istituzionale lo vuole far tacere e lo vuole eliminare, e i suoi discepoli mostrano sempre di più di non essere capaci né di comprendere né di reggere un coinvolgimento con la sua vita. Gesù sa che i più dormiranno, sa che addirittura colui che egli aveva chiamato Pietro, la roccia, preso da paura sarà più debole di una canna incrinata, e sa che tra i suoi, nella sua comunità c’è anche chi lo consegna per facilitare la sua fine. Ma Gesù legge tutto questo con una coscienza umana e come una necessità umana: Gesù sa che non c’è un destino che pesa su di sé, non c’è un fato, ma sa che c’è una necessità umana nella storia, perché le cose in questo mondo vanno così, seguono una logica ferrea per cui l’innocente il giusto, può solo essere rigettato, perseguitato e abbandonato ai suoi nemici (cf. Sap 1,16-2,20). La banalità del male di questo mondo – che non è umiltà del male, parola troppo nobile per essere applicata al male –, la banalità del male sta proprio in questo quotidiano avvenire delle cose.
Gesù però non conosce solo la necessità umana, conosce anche le attese di Dio; si potrebbe anche parlare di una necessitas divina, ma per comprendere bene e non lasciare posti a equivoci preferisco dire che Gesù conosce le attese di Dio. Gesù ha una grande assiduità con Dio, lo prega intensamente, in particolare nella notte, legge le Scritture per trovarvi come fare la sua volontà, ha soprattutto la parola del Signore nel suo intimo, come tante volte ha ripetuto pregando il Salmo 40: «La tua legge, Signore, è nel mio intimo» (Sal 40,9). C’è dunque di fronte a Gesù, in quei giorni di Pasqua, l’attesa di Dio suo Padre, e ci sono delle precise azioni, responsabilmente fatte dagli uomini. Gesù deve rispondere alle attese di Dio e alle azioni dell’uomo: e ciò che è straordinario, e che per questo sarà proprio il cuore di tutta la nostra fede e della nostra vita cristiana, è che Gesù risponde con l’eucaristia. Eucaristia è veramente la parola migliore per identificare i gesti di Gesù, perché è la parola che dice un ringraziamento: «eukaristésas» (Mc 14,23; Mt 26,27; Lc 22,17.19; 1Cor 11,24), ossia «avendo ringraziato, innalzando a Dio una lode, dicendo a Dio un “amen” convinto e un grazie», un ringraziamento che scaturiva dalla sua fede incrollabile e dal suo fedele amore del Padre.
Ma questo ringraziamento era anche una risposta ai suoi avversari, a Giuda e ai suoi discepoli, risposta che viene data Gesù da con quel gesto sul pane e sul vino, accompagnato da pochissime parole. È significativo, Gesù non fa lunghi discorsi quella sera: sappiamo che nel quarto vangelo i discorsi di addio (cf. Gv 14,1-16,33) sono la memoria di sue parole, ma parole rivelate da un Kýriosglorioso e risorto alla sua chiesa, non parole dette da Gesù prima della sua passione. Gesù fa semplicemente un gesto, dice solo che quel gesto, quella Pasqua tanto desiderata (cf. Lc 22,15), sarebbe stata l’ultima con i suoi, e dice che quel calice del frutto della vite, quel vino della convivialità, quel vino che rappresentava tutto il possibile amore vissuto da un uomo sulla terra, sarebbe stato l’ultimo della sua vita. Chiarito il momento, resi consapevoli dell’ora i discepoli – l’abbiamo ascoltato, lo ascoltiamo sempre al cuore della nostra eucaristia, del nostro ringraziamento fatto con lui – «Gesù prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo per voi”» (Lc 22,19; 1Cor 11,24). Poi allo stesso modo disse: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» (Lc 22,20; 1Cor 11,25), oppure: «Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per le moltitudini» (Mc 14,24; Mt 26,28). Il gesto è chiarissimo, vuole essere una prefigurazione di quello che Gesù sta per vivere, la sua passione, la sua morte; ma vuole anche essere una sintesi di tutto ciò che fino ad allora Gesù ha vissuto. Ecco la risposta al Padre, all’attesa di Dio, che può essere espressa veramente dalle parole del Salmo: «Ecco, Padre, io vengo per fare la tua volontà (cf. Sal 40,8-9), il corpo che tu mi hai preparato ora accetto che sia spezzato, che sia dato, è un corpo per i discepoli, è un corpo per la comunità, è un corpo per la chiesa; e il sangue versato attraverso una morte violenta, è versato per le moltitudini di tutti gli uomini, di tutte le epoche e di tutta la terra».
Perché corpo spezzato e sangue versato? Il Padre cosa attendeva da Gesù? Il Padre attendeva da Gesù quello che aveva atteso da tutti i giorni della sua vita terrena. Attendeva che Gesù, quale Figlio, non assumesse nessun atteggiamento contrario alla giustizia, che Gesù non assumesse nessun atteggiamento contraddicente l’amore, non conforme alla sua infinita misericordia. Gesù risponde al Padre ringraziando, e in quel ringraziamento c’è un ringraziamento per la vita che il Padre gli aveva dato, perché Gesù sapeva, e sapeva più di noi, che la sua vita, come la vita di ciascuno di noi, l’aveva voluta Dio in un disegno preciso e in un amore preciso. Gesù ringrazia il Padre per il dono di essere un uomo, per il dono di essere un uomo, per la grazia di essere stato terreno, mortale come noi; ringrazia il Padre per aver potuto amare questa terra; ringrazia il Padre perché gli è dato di avere del pane e di avere del vino, di muoversi in quella logica del bisogno e della gratuità, nella quale ogni uomo cerca ogni giorno di vivere e di fare vivere gli altri accanto a sé; ringrazia benedicendo il Padre, ma soprattutto la vera benedizione al Padre il vero ringraziamento è offrire la propria vita, offrire se stesso. Ecco la risposta di Gesù a Dio. Dio si attendeva solo questo, non si attendeva né la morte di Gesù, né la violenza che egli ha subito, ma si attendeva che Gesù restasse fino all’ultimo fedele ai suoi sentimenti, che Gesù sapesse narrare fino all’ultimo l’amore di Dio agli uomini. Se Gesù moriva, era per una necessità umana, non perché Dio lo voleva.
Ma attraverso l’eucaristia Gesù dà anche una risposta ai sacerdoti e agli scribi, che lo accusavano di bestemmiare Dio. Lasciando che i sacerdoti e gli scribi, che l’autorità legittima del suo popolo disponga di lui, che lo catturi, che lo dichiari maledetto, che lo consegni a una morte infame, proprio facendo questo e permettendo questo, egli mostra di poter davvero ringraziare Dio, perché Dio gli ha concesso di narrarlo in questo mondo e di narrarlo senza venire meno. Ecco perché Gesù non fa nulla per contrastare il piano degli avversari, ecco perché non risponde con le armi da loro usate. A un certo punto addirittura tacerà (cf. Mc 14,61; Mt 26,63): ha parlato, ha anche attaccato quei sacerdoti e quegli scribi, ha anche lanciato loro dei «guai» (cf. Mt 23,1-36), ma, giunto il momento, resta un agnello afono, non risponde (cf. Is 53,7). Quel pane spezzato e dato: ecco ciò che vuole essere Gesù; quel sangue versato: ecco ciò che suggella chi era Gesù, cosa veramente voleva e come non tenesse alla propria vita ma tenesse soprattutto a che Dio potesse essere narrato agli uomini e gli uomini potessero conoscere che cos’è l’amore.
Ma Gesù dà anche una risposta a Giuda. Giuda è terribilmente presente in questi racconti: lo abbiamo sentito nel quarto vangelo, ma Giuda è presente anche nei sinottici, e sappiamo dell’annuncio che Gesù, parlando di Giuda, ha dato in stretto legame con l’eucaristia (cf. Mc 14,17-21 e par.). Giuda è uno dei Dodici, che lo consegna e lo tradisce, e Gesù dà il boccone eucaristico anche a lui, dà il suo corpo e il suo sangue anche a Giuda. Lo scandalo va assunto nella comunità cristiana: i vangeli non stanno ad analizzare le cause psicologiche per cui Giuda ha tradito, non lo scusano e lasciano lo scandalo intatto, scandalo, inciampo per tutti. Se ci sono ragioni in Giuda per essere giunto fino alla consegna, quelle ragioni le sa solo Dio, non dobbiamo essere noi a investigarle, perché, quando lo facciamo, in realtà cerchiamo solo delle attenuanti per noi stessi. Ciò che veramente va preso in considerazione è lo scandalo del tradimento, ma anche la risposta di Gesù con l’eucaristia: «Giuda» – dice Gesù – «ecco il mio corpo, te lo do». E significativamente al momento della consegna, al Getsemani, il saluto che Gesù gli rivolge è: «Amico» – amico, perché questo era il rapporto che Gesù aveva instaurato con Giuda – «per questo sei qui!» (Mt 26,50). Non solo, Gesù ha accettato anche il bacio da Giuda (cf. Mt 26,49), lo ha accettato senza rifiutarlo, senza vendicarsi, senza difendersi e senza condannare un bacio (tutti noi sappiamo che il bacio è l’atto più essenziale all’amore, e forse solo quelli che lo danno unicamente al vangelo o all’altare sanno che cos’è il bacio nella carne di un uomo…).
Infine, Gesù con l’eucaristia risponde ai suoi discepoli, a Pietro e agli altri, a chi è pieno di paura e si mostra una canna incrinata, e agli altri che dormono e non sanno vegliare. Anche qui Gesù «non spezza la canna incrinata, non spegne lo stoppino dalla fiamma smorta», come annunciava il primo canto del Servo di Isaia (cf. Is 42,3; Mt 12,20); dice addirittura ai discepoli: «Dormite pure!» (cf. Mc 14,41 e par.). Ma a tutti questi suoi discepoli – che siamo noi, perché i discepoli di Gesù non erano differenti dalla comunità cristiana di oggi, e da ciascuno di noi, paurosi come «la roccia» o sonnolenti come gli altri dieci –, Gesù ha dato il suo corpo e il suo sangue, così come li dà a noi.
L’eucaristia è la sola e definitiva risposta di Gesù a Dio e all’umanità intera, e ogni volta che la celebriamo dovremmo essere presi davvero da timore – il vero timor Domini, l’unico principio di una sapienza umana (cf. Sal 111,10; Pr 1,7) –, nell’accogliere nelle nostre mani e nell’accogliere in noi la vita di Gesù, la vita di Gesù raccolta in un gesto, il corpo del Signore per noi, il sangue per la moltitudine degli uomini. Ciò che celebriamo con il gesto del pane e del vino, ora lo celebriamo in memoria di Gesù anche con il gesto della lavanda. Sono due memorie di Gesù in cui non è possibile nessun protagonismo né di chi presiede, né del presbitero che presiede l’azione eucaristica: è il Signore che ci lava i piedi, è il Signore che ci dà il suo corpo e il suo sangue.
ENZO BIANCHI, priore di Bose
Fonte: monasterodibose

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