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La vita? Un racconto al Padre
don Maurizio Prandi
V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) (08/02/2015)
Anche questa domenica Gesù non si tira indietro rispetto alla malattia dell’uomo: il vangelo ce lo presenta completamente immerso nel fare il bene di chi incontra… non solo: ci dice anche che il desiderio di annunciare il vangelo (desiderio fortissimo che dà impulso anche alla vita di san Paolo come sottolinea la seconda lettura…) non lo rinchiude in un facile appagamento da successo è ai discepoli che gli dicono: tutti ti cercano lui risponde che è necessario andare altrove per incontrare, predicare, annunciare; infine coloro che Gesù incontra vengono portati nel cuore del suo incontro con il Padre. In pochi versetti Marco ci regala una sintesi rapida, ma ricchissima, che ci offre i tratti decisivi del volto di Gesù come di un uomo che si muove tra l’annuncio della Parola di Dio (« per questo sono venuto! »), il farsi vicino a chi soffre, e il continuo ritorno alla fonte delle sue attività, Dio Padre, ritrovato nella solitudine della preghiera. E’ stato bello vedere i ragazzi delle comunità dei discepoli ripercorrere, nell’incontro di catechismo, la giornata tipo di Gesù tra guarigioni, preghiera e predicazione… ripercorrerla cercando di entrarci dentro e viverla, guarendo i propri amici con gesti di bene, pregando attraverso l’Eucaristia e annunciando il vangelo con la presenza, la testimonianza, una partecipazione nuova e diversa alla vita quotidiana. Oppure quel cercare di capire quali sono le tracce che noi seguiamo giorno per giorno… chi sono i nostri modelli, le persone alle quali ci riferiamo, che lasciano un segno nella nostra vita.
La pagina che oggi ascoltiamo ha anche una forte valenza ecclesiale… Gesù entra in una casa, che per Marco simboleggia appunto la chiesa. La casa è il luogo dell’ospitalità, è il luogo che permette a Gesù un’intimità con i suoi discepoli al di là degli incontri con le folle che rischiano di disperderli un po’… la casa è il luogo dove ti formi, impari come centrare la tua vita, ti prepari ad affrontare le avversità. E’ importante che avvenga li questo miracolo, che lega fortemente la potenza di Gesù al servizio… il miracolo è per il servizio, non è per dimostrare qualcosa, non è per convincere, per far credere… mi pare bello allora poter pensare che al centro delle preoccupazioni dei discepoli e della chiesa ci possano essere tutte quelle persone o realtà che dovrebbero proiettarsi al servizio degli altri ma ne sono incapaci. Grazie al gesto di Gesù si può ricominciare a servire, si possono mettere a disposizione degli altri le energie ritrovate, la propria creatività. La chiesa non sono solo i discepoli che parlano a Gesù di una donna malata. La chiesa sono tutti coloro i quali portano a Gesù gli ammalati al tramonto del sole… il tramonto del sole, ovvero il momento in cui termina il riposo del sabato (per cui è possibile il trasporto dei malati in barella…) e comincia un giorno nuovo. Bello questo gruppo indefinito… l’anonimato di chi ne fa parte aiuta la nostra identificazione in chi si spende in favore di tutti quelli che si ritrovano ammalati. Bello anche che sia distante da Gesù l’idea di catturare, di sedurre, di comprare l’altro con un miracolo. Vuole semplicemente annunciare il farsi prossimo di Dio ad ogni umano soffrire, il suo impegno ed amicizia per chi, dalla vita, è stato messo a margine (Servizio della Parola).
La prima lettura è tratta dal libro di Giobbe e anticipa bene i temi del vangelo: la preghiera e la condizione dell’uomo malato. C’è un bellissimo commento di don Daniele Simonazzi che credo ci possa aiutare molto. Parte da una mancanza, da un taglio che la liturgia fa non facendoci leggere il versetto 5 del cap. 7: la mia carne è ricoperta di vermi e di croste, la mia pelle è raggrinzita e va disfacendosi. Certamente fa un po’ di senso e si potrebbe anche capire il perché sia stata omessa la lettura di particolari così crudi; la parola di Dio che ci chiede tanto coraggio nel campo della giustizia e dell’etica, ci chiede altrettanto coraggio nell’ascoltare tutto quello che ci vuole dire, raccontare, circa la condizione degli uomini e delle donne. Non si fa problemi Giobbe, parlando al Signore: gli racconta la sua condizione. Forse io mi impressionerei a vedere una carne ricoperta di vermi, forse tanti di noi si impressionerebbero, ma il Signore, con tutto il bene che ci vuole, può impressionarsi? Può provare ribrezzo? Ci sono persone ridotte in condizioni estreme e so che corro il rischio di tagliarle fuori dalla mia vita in modo facile, così come è facile tagliare dalla lettura parole che possono risultare scomode o troppo forti, pesanti…
E’ un libro prezioso quello di Giobbe, perché non parla solamente di un uomo, ma dell’umanità intera. Giobbe non è un israelita e quindi ogni uomo può ed è chiamato a riconoscersi in lui. Le sue parole prendono due direzioni: Dio (e le sue parole diventano preghiera) e gli uomini, i suoi amici, dai quali ascolta solo risposte « facili » su Dio e sulle ragioni della sua malattia e delle sue sventure è le sofferenze che colpiscono l’uomo sono una conseguenza dei suoi peccati, dei quali, deve innanzitutto cominciare a pentirsi. Giobbe sa di essere un giusto e sa che chi soffre non è automaticamente un peccatore, sa che Dio non colpevolizza il povero, non colpevolizza l’ammalato… lo sa, anche se Dio, di fronte al suo dramma e alle sue domande rimane muto. E’ un cammino straordinario quello che fa Giobbe, il quale, affrontando la notte del dolore arriva ad amare Dio per se stesso, per quello che è e non per quello lui vorrebbe che fosse. Giobbe ci dice che Dio non si può afferrare, non lo si può ricondurre a schemi o formule teologiche umane. Mi rendo conto che il tema è delicato soprattutto perché rischio di non essere rispettoso del dolore di altri, ma credo che sia qualcosa di inspiegabile… resta un mistero, va vissuto e attraversato è Barth: il dolore, per il credente ed il non credente è una porta: aprendola puoi trovare Dio o il diavolo, la vita o la disperazione. La prima lettura di questa domenica allora, presa nella sua interezza, vuole darci il coraggio dei poveri; io vivo nella « paura » dei poveri… Dio no, e in Gesù, nella sua vita così bella, tutto quello che io preferisco non vedere, lo fa suo, lo recepisce come proprio, a cominciare dai poveri, dai piagati, da quelli il cui corpo è ricoperto di vermi.
Giobbe parla di sé a Dio, gli dice la sua verità, la sua condizione descrivendosi senza omettere nulla… don Daniele Simonazzi scrive che non prega se non a partire da quello che lui è!. E nel vangelo troviamo un bel collegamento: Gesù entra nella casa di Simone e subito gli parlano di una persona malata.; c’è già un bel volto di chiesa qui… una chiesa che intercede per chi è malato. Che bello quando la vicenda di chi soffre diventa un racconto… un racconto così importante per noi che non possiamo non farlo a Dio. C’è qualcosa di importantissimo qui per quello che riguarda la nostra preghiera personale: non si può lasciar fuori la vicenda di chi è povero, di chi è malato, di chi soffre… è come se la preghiera non fosse vera. Per questo è importantissimo quel versetto che invece la liturgia taglia. Se si tratta di qualcuno che amiamo, non vogliamo perdere niente della sua vita. Amiamo qualcuno? Non vogliamo perdere niente, nemmeno un respiro, nemmeno l’ultimo respiro di chi sta congedando da noi.
Cosa facciamo durante la messa? Durante la preghiera eucaristica? scrive don Daniele. Qualcosa di estremamente decisivo per la nostra fede: la preghiera eucaristica è il racconto che facciamo a Dio, di quella che è stata la morte di suo Figlio… lui lo sa, ma, come ogni padre, non si stanca di sentirsi raccontare le cose di suo Figlio. Forse questo ci può aiutare a pregare meglio, a sentire meno come formula certe preghiere e a sentirle più come un racconto, un qualcosa che piano piano viviamo sempre di più. Quando preghiamo, bisogna che la nostra preghiera abbia lo spessore delle vicende della povera gente… se manca questo coinvolgimento nelle vicende dei nostri fratelli, è come se raccontassimo al Padre di un Figlio che non conosciamo. Ecco cosa può diventare la preghiera Eucaristica: un ripetere/ascoltare stanco, svogliato, muto perché privato della conoscenza del Figlio. E poi una cosa bellissima ancora: perché è così difficile pregare? Perché la preghiera è l’appuntamento che diamo a tutta la povera gente nel nostro raccontarla al Padre. Nella preghiera trovo tutti, davanti al Signore; trovo anche quelli che vivono una condizione così disperata che vale la pena togliere un versetto. Ma (e forse è un’esperienza che tanti potrebbero sottoscrivere), se proviamo a togliere un versetto nella vita e nella condizione di coloro che ci hanno lasciato a causa di una malattia, togliamo tanto… forse troppo…
Bella anche l’immagine di Gesù che toglie alla notte, al riposo il tempo per la preghiera, che viene descritta come solitaria, prolungata… bello che Gesù, come accennavo, dalla preghiera venga confermato nella sua missione e a quella missione richiami anche Pietro e i suoi discepoli, troppo preoccupati di sfruttare il momento favorevole che stanno vivendo: tutti ti cercano! Come dire: bisogna approfittare di questo momento… a questa popolarità della quale sarebbe facile approfittare, Gesù risponde dilatando l’orizzonte e aprendo piste nuove. Ci lasciamo, su suggerimento di don Daniele, con una domanda: i discepoli, per cercare Gesù, si mettono sulle sue tracce… ma che tracce lascia uno che prega? Si mettono sulle sue tracce, e per quelle, lo trovano! Come facciamo a cercare uno che prega?