Archive pour février, 2018

ATTI 7 – L’OMELIA DI STEFANO

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Le Scritture e l’epoca di Gesù – 7.1

ATTI 7 – L’OMELIA DI STEFANO

Per questo nuovo articolo con il quale vogliamo intrattenervi ancora una volta sul tema de “le Scritture e il giudaismo”, non riportiamo il testo di Atti 7, perché troppo lungo, per cui invitiamo il lettore a leggerlo per conto proprio in una sua Bibbia che certo non gli mancherà.
Il c. 7 del libro degli Atti riporta una bella e interessante omelia, quella del diacono Stefano, il quale, accusato davanti alle autorità giudaiche di parlare male del tempio e della legge (6,12-14), risponde in sua difesa con un’omelia estremamente interessante. L’intervento di Stefano si sviluppa attorno al tema del tempio, dando così originalità a uno schema omiletico consueto nel libro degli Atti, come abbiamo già constatato nel discorso di Pietro a Pentecoste (Atti 2) e in quello dello stesso Pietro in 3,11-26. In tal modo si rivela la bravura letteraria di Luca nel far procedere il suo racconto sugl’inizi della Chiesa: egli usa degli schemi fissi, come quello della predicazione cristiana primitiva, ma compone i brani artisticamente come variazioni su tema, alla stregua delle composizioni musicali; il tema di base è sempre il credo cristiano, cioè storia antica d’Israele – ministero, passione, morte e resurrezione di Gesù, ma il suo svolgimento tiene conto sempre del contesto immediato. Stavolta, l’accusa ben precisa contro Stefano, che ricorda quella contro lo stesso Gesù di cui Stefano viene ad essere il seguace-testimone (Mt 26,59-61), è occasione, come precedentemente per Pietro, di dare spiegazione della propria fede.
Egli, accusato di parlare contro il tempio di Gerusalemme, ritenuto dalla fede comune come il fondamento perenne della sussistenza storica d’Israele, imbastisce un discorso molto interessante che riproduce quasi pedissequamente la storia d’Israele così com’è scritta nella collezione dei libri dell’AT che vanno dal Genesi fino a 2 Re, aggiungendovi anche citazioni dei Profeti e dei Salmi.
Constatiamo così diversi elementi significativi. Il primo è che soltanto un popolo al quale appartenevano le Scritture poteva essere rivolto un discorso del genere, il cui impianto logico e le cui testimonianze erano basati appunto sulla Legge di Mosé, sui Profeti e sui Salmi (cf. Lc 24,44). Il secondo elemento che ricaviamo è che Stefano fa uso di un’abitudine che era invalsa alle soglie dell’epoca neotestamentaria, quella di “ri-narrare”, cioè di raccontare con parole proprie quello che era tramandato nelle Scritture. In altri termini, mentre la Bibbia rimaneva il testo base di riferimento, se ne raccontava però la storia contenuta adattandola ai propri argomenti. È quanto troviamo in libri di quell’epoca, come I Testamenti dei XII Patriarchi e I Libri dei Giubilei, che prendevano spunto dalla materia dei libri biblici, per poi sviluppare un proprio racconto, in questo caso a sfondo escatologico e apocalittico (vedi i primi articoli di questa serie [indice]).
Se si legge attentamente la narrazione di Stefano, essa mette in risalto sempre l’argomento spazio, perché in riferimento allo “spazio sacro” del tempio. Al v. 5, ad esempio, egli dice che Dio non diede ad Abramo nemmeno uno spazio della terra che calcava (vale a dire la terra santa che avrebbe ospitato il tempio), ma gliela promise soltanto come dono per la sua discendenza. Questo dono a sua volta è qualcosa che si riceve e si lascia in continuazione, seguendo le memorie storiche su Giacobbe, sui dodici patriarchi e su Giuseppe in particolare (vv. 8-16), su Mosé e sulle peregrinazioni del popolo nel deserto (vv. 17-41). Tutto ciò sta ad indicare la provvisorietà dello spazio-terra promessa, a causa soprattutto dei peccati d’Israele, per i quali poi esso perderà ancora la terra per andare esule a Babilonia (v. 43). Nei vv. 46-49, l’argomento dello “spazio” si restringe e si concentra in particolare sul tempio, del quale già Dio in passato aveva detto a David che non ne aveva necessità (cf. 2 Sam 7,5-7); difatti, non fu David che costruì il tempio, bensì il figlio Salomone. A questo punto, l’acme dell’omelia, Stefano, citando Is 66,1-2, così afferma:
“Il cielo è il mio trono e la terra sgabello dei miei piedi. Quale casa potrete mai edificarmi, dice il Signore, o quale sarà il luogo del mio riposo?”. In altri termini, rifacendosi a un concetto del resto già presente anche nel discorso di dedicazione del santuario che fece Salomone (cf. 1 Re 8,27), Stefano dichiara la relatività di ogni spazio in generale e del tempio materiale in particolare. Non è per il tempio quindi che ci si deve preoccupare, ma per qualcos’altro di ben più importante. A quest’affermazione egli lega l’attualizzazione che consiste nell’accusa ai presenti di aver ucciso Gesù, così come i loro padri avevano fatto con gli antichi profeti (vv. 51-53).
La reazione adirata degli astanti scatta immediatamente (v. 54), interrompendo le parole del martire, il quale nel frattempo, ricevendo una visione celeste, può concludere il suo discorso, confessando l’esaltazione di Cristo in cielo alla destra di Dio (vv. 55-56). Gli aspetti più sconvolgenti dell’invettiva di Stefano contro “gli uccisori di Cristo”, vanno spiegati col commento [v. punto b)] che già abbiamo fatto nel commento a Luca16.
L’invettiva di Stefano è nello stile degli antichi profeti, non meno duri nei riguardi del loro popolo, ma certo non miranti al rinnegamento d’Israele, bensì alla sua conversione. Quel movimento giudaico che si era stretto attorno alla fede in Gesù Cristo e che diventerà solo più tardi un’altra religione, voleva in realtà ricondurre i propri correligionari a quella che per essi era l’autentica fede ebraica. La fede in Gesù è il criterio fondamentale e unico di discrimine tra l’ebraismo e il cristianesimo: su questo non si può discutere, perché implica un’opzione di fede. Tuttavia, la parentela fin dalle origini delle due testimonianze religiose, quella ebraica e quella cristiana, è innegabile; inoltre, l’amore con tutto se stessi nei riguardi dell’unico Dio (Dt 6,4-5), dev’essere la fonte perenne dell’apertura reciproca, del rispetto e dell’amore vicendevole.

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San Paolo, Duomo di Treviso

Duomo_(Treviso)_-_interior_-_Cappella_Malchiostro_-_San_Paolo_-_Il_Pordenone

Publié dans:immagini sacre |on 21 février, 2018 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – I GUAI DI SAN PAOLO (2013)

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PAPA FRANCESCO – I GUAI DI SAN PAOLO (2013)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 16 maggio 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 112, Ven. 17/05/2013)

Con la sua testimonianza di verità il cristiano deve «dar fastidio» alle «nostre strutture comode», anche a costo di finire «nei guai», perché animato da una «sana pazzia spirituale» per tutte «le periferie esistenziali». Sull’esempio di san Paolo, che passava «da una battaglia campale a un’altra», i credenti non devono rifugiarsi «in una vita tranquilla» o nei compromessi: oggi nella Chiesa ci sono troppo «cristiani da salotto, quelli educati», «tiepidi», per i quali va sempre «tutto bene», ma che non hanno dentro l’ardore apostolico. È un forte appello alla missione — non solo nelle terre lontane ma anche nelle città — quello che Papa Francesco ha lanciato stamani, giovedì 16 maggio, nella messa celebrata nella cappella della Domus Sanctae Marthae.
Punto di partenza della sua riflessione il passo degli Atti degli apostoli (22, 30; 23, 6-11) che vede protagonista appunto san Paolo nel pieno di una delle sue «battaglie campali». Ma stavolta, ha detto il Papa, è una battaglia «anche un po’ iniziata da lui, con la sua furbizia. Quando si è accorto della divisione fra quelli che lo accusavano», tra sadducei e farisei, ha fatto in modo che andassero «uno contro l’altro. Ma tutta la vita di Paolo era di battaglia campale in battaglia campale, di persecuzione in persecuzione. Una vita con tante prove, perché anche il Signore aveva detto che questo sarebbe stato il suo destino»; un destino «con tante croci, ma lui va avanti; lui guarda il Signore e va avanti».
E «Paolo dà fastidio: è un uomo — ha spiegato il Pontefice — che con la sua predica, con il suo lavoro, con il suo atteggiamento dà fastidio perché proprio annuncia Gesù Cristo. E l’annuncio di Gesù Cristo alle nostre comodità, tante volte alle nostre strutture comode, anche cristiane, dà fastidio. Il Signore sempre vuole che noi andiamo più avanti, più avanti, più avanti». Vuole «che noi non ci rifugiamo in una vita tranquilla o nelle strutture caduche. E Paolo, predicando il Signore, dava fastidio. Ma lui andava avanti, perché aveva in sé quell’atteggiamento tanto cristiano che è lo zelo apostolico. Aveva proprio il fervore apostolico. Non era un uomo di compromesso. No! La verità: avanti! L’annuncio di Gesù Cristo: avanti! Ma questo non era soltanto per il suo temperamento: era un uomo focoso».
Tornando al racconto degli Atti, il Papa ha rilevato come «anche il Signore s’immischia» nella vicenda, «perché proprio dopo questa battaglia campale, la notte seguente, dice a Paolo: coraggio! Va’ avanti, ancora di più! È proprio il Signore che lo spinge ad andare avanti: “Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma”». E, ha aggiunto il Papa, «fra parentesi, a me piace che il Signore si preoccupi di questa diocesi fin da quel tempo: siamo privilegiati!».
«Lo zelo apostolico — ha quindi precisato — non è un entusiasmo per avere il potere, per avere qualcosa. È qualcosa che viene da dentro e che lo stesso Signore vuole da noi: cristiano con zelo apostolico. E da dove viene questo zelo apostolico? Viene dalla conoscenza di Gesù Cristo. Paolo ha trovato Gesù Cristo, ha incontrato Gesù Cristo, ma non con una conoscenza intellettuale, scientifica — è importante perché ci aiuta — ma con quella conoscenza prima, quella del cuore, dell’incontro personale. La conoscenza di Gesù che mi ha salvato e che è morto per me: quello proprio è il punto della conoscenza più profonda di Paolo. E quello lo spinge a andare avanti, annunciare Gesù».
Ecco allora che per Paolo «non ne finisce una che ne incomincia un’altra. È sempre nei guai, ma nei guai non per i guai, ma per Gesù: annunciando Gesù, le conseguenze sono queste! La conoscenza di Gesù Cristo fa che lui sia un uomo con questo fervore apostolico. È in questa Chiesa e pensa a quella, va in quella e poi torna a questa e va all’altra. E questa è una grazia. È un atteggiamento cristiano il fervore apostolico, lo zelo apostolico».
Papa Francesco ha poi fatto riferimento agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, suggerendo la domanda: «Ma se Cristo ha fatto questo per me, cosa devo fare io per Cristo?». E ha risposto: «Il fervore apostolico, lo zelo apostolico si capisce soltanto in un’atmosfera di amore: senza l’amore non si capisce perché lo zelo apostolico ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia spirituale, di sana pazzia. E Paolo aveva questa sana pazzia».
«Chi custodisce proprio lo zelo apostolico — ha proseguito il Pontefice — è lo Spirito Santo; chi fa crescere lo zelo apostolico è lo Spirito Santo: ci dà quel fuoco dentro per andare avanti nell’annuncio di Gesù Cristo. Dobbiamo chiedere a lui la grazia dello zelo apostolico». E questo vale «non soltanto per i missionari, che sono tanto bravi. In questi giorni ho trovato alcuni: “Ah padre, è da sessant’anni che sono missionario nell’Amazzonia”. Sessant’anni e avanti, avanti! Nella Chiesa adesso ce ne sono tanti e zelanti: uomini e donne che vanno avanti, che hanno questo fervore. Ma nella Chiesa ci sono anche cristiani tiepidi, con un certo tepore, che non sentono di andare avanti, sono buoni. Ci sono anche i cristiani da salotto. Quelli educati, tutto bene, ma non sanno fare figli alla Chiesa con l’annuncio e il fervore apostolico».
Il Papa ha invocato quindi lo Spirito Santo perché «ci dia questo fervore apostolico a tutti noi; ci dia anche la grazia di dar fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa; la grazia di andare avanti verso le periferie esistenziali. La Chiesa ha tanto bisogno di questo! Non soltanto in terra lontana, nelle Chiese giovani, nei popoli che ancora non conoscono Gesù Cristo. Ma qui in città, in città proprio, hanno bisogno di questo annuncio di Gesù Cristo. Dunque chiediamo allo Spirito Santo questa grazia dello zelo apostolico: cristiani con zelo apostolico. E se diamo fastidio, benedetto sia il Signore. Avanti, come dice il Signore a Paolo: “Coraggio!”».
Hanno concelebrato, tra gli altri, il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson e il vescovo Mario Toso, rispettivamente presidente e segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, monsignor Luigi Mistò, segretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), e il gesuita Hugo Guillermo Ortiz, responsabile dei programmi di lingua spagnola di Radio Vaticana. Tra i presenti, personale del dicastero Iustitia et Pax e un gruppo di dipendenti dell’emittente vaticana.

 

La tenerezza di Dio

la mia e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 20 février, 2018 |Pas de commentaires »

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

Alberto Piola

Introduzione
Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.
Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».
L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

Conversione di San Paolo

la mia de paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 19 février, 2018 |Pas de commentaires »

LA METANOIA COME CONDIZIONE DI BASE PER ACCEDERE A DIO (stralcio…

http://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2539:la-metanoia-come-condizione-di-base-per-accedere-a-dio&catid=340:npg-annata-1969&Itemid=207

LA METANOIA COME CONDIZIONE DI BASE PER ACCEDERE A DIO (stralcio…

è un articolo molto lungo che andrebbe letto tutto)

Bernard Häring

Tutta la vita cristiana è una grande conversione che ha come condizione di base la svolta più importante nella storia umana: il fatto che Dio stesso va incontro all’uomo per convertirlo a se stesso, in un’Alleanza di amore. L’uomo può accedere a Dio solo perché Dio si volge all’uomo.
La metanoia si inserisce nella linea profetica del Vecchio Testamento (Ezechiele, Geremia, ecc.), nell’annuncio che verrà il tempo in cui Dio toglierà il cuore di pietra dell’uomo e gli darà un nuovo cuore, un nuovo modo di pensare, di desiderare, un nuovo modo di integrazione, di totalità. La parola metanoia è una parola profetica, una promessa: dalla promessa viene all’uomo il dono e col dono il compito. È quindi importante che nella visione teologica e nella pratica catechetica e pastorale si metta l’accento sull’azione divina: Dio volge il suo volto all’uomo; dal fatto che Dio volge il suo volto all’uomo, nel Figlio Unigenito per mezzo dello Spirito Santo, proviene il richiamo, l’invito, l’onore, l’obbligo urgente di volgere il nostro volto, la nostra persona, tutta la nostra intelligenza, la volontà, il cuore a Dio.
Al centro della metanoia, secondo le profezie, sta il fatto della Nuova Alleanza: Dio stesso trasforma il significato della storia. La venuta di Cristo è la grande trasformazione.
Nel senso biblico quindi, nella parola metanoia non troviamo qualcosa che precede l’iniziativa di Dio, come uno sforzo dell’uomo, uno sforzo di ordine morale. Tutte le forme di pelagianesimo fanno della conversione morale e del progresso morale la condizione di base per accedere a Dio. Invece la visione biblica propone tutto come una unica trasformazione, per mezzo della grazia. La base è la fede che porterà frutto nella carità. Questo dobbiamo sottolinearlo con tutta la nostra energia: la metanoia è un fatto religioso, non soltanto un fatto morale. Uno dei grandi pericoli della nostra morale e della prassi pastorale è il pericolo del ritorno al pelagianesimo.

METANOIA COME RISPOSTA ALLA LIETA NOVELLA
La condizione di base della metanoia, del ritorno a Dio è la venuta di Cristo, ossia la lieta novella venuta da Dio in Cristo. In Cristo succede la «transubstantiatio», la trasformazione totale, la conversione della storia umana. Lui è il messaggero e il messaggio della lieta novella. Nel Vangelo di Marco (1, 14) troviamo una brevissima sintesi di tutta la predicazione di Gesù che risulta come una predicazione della metanoia: «In quel tempo Gesù incominciò a proclamare la lieta novella venutaci da Dio: il tempo propizio è venuto. Il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete alla lieta novella». Il senso non è: «Fate la vostra conversione morale e poi credete anche alla lieta novella», ma piuttosto: «Accettate la buona novella con fede viva; e così tutto il vostro modo di pensare, di volere, di agire sarà cambiato». vicino il tempo propizio: non «i tempi cattivi» di cui tanti educatori (cattivissimi educatori) predicano. Sono i non credenti che predicano sempre sui tempi cattivi. I credenti predicano sul tempo propizio, sul tempo favorevole, sul «kairos», come dice la Bibbia. Dio vuol guidare per mezzo del suo amore visibile, in Cristo; l’imperativo, l’invito risulta da questa grazia, da questa lieta novella. E anche l’invito è lieta novella, il tempo propizio in cui Dio ci dà un cuore nuovo. L’imperativo è urgente proprio perché Dio ci dà un cuore nuovo. Questa intima relazione tra metanoia e lieta novella la troviamo in tutte le catechesi bibliche.
- Nel discorso della montagna (probabilmente una catechesi fatta ai neofiti dopo i sacramenti della iniziazione) l’appello alla metanoia è comunicato proprio nelle nove beatitudini, nelle nove «congratulazioni». La pienezza della lieta novella, la gioia della fede viva, porta in sé non soltanto un richiamo a convertirsi, ma soprattutto il dinamismo, la forza che conduce alla novità della vita.
- Luca, nella redazione breve del discorso della montagna, comincia con quattro «congratulazioni-beatitudini» (nel mondo greco il numero quattro era il simbolo della pienezza). Alle quattro beatitudini sono aggiunti quattro «guai». La lieta novella porta in sé la forza della conversione e della separazione. Soltanto in vista della lieta novella «si svelano i pensieri di molti cuori» (Lc 2, 35).
- Anche la catechesi di San Giovanni introduce il comandamento della conversione totale (amare il prossimo come Cristo ci ha amato) con la forza della lieta novella: «Tutto questo vi ho detto perché in voi dimori la mia gioia e la gioia vostra sia piena: questo è il mio comandamento: che vi amiate » (Giov 15, 11-12).
Non dobbiamo separare le prescrizioni morali da questo comandamento: potremmo soltanto scoraggiarci; se vediamo soltanto il comandamento come possiamo noi amare come Cristo? Se abbiamo capito che Cristo è la nostra vita, che vive in noi e ci invita a dimorare in Lui per far dimorare la sua lieta novella in noi, possiamo comprendere il significato del comandamento: è una comunicazione di amore, non una imposizione. Non possiamo provare una vera conversione se non confrontiamo l’uomo, con la bellezza, l’altezza, l’urgenza della lieta novella.
Guai all’educatore che vuole raccogliere il frutto della conversione senza aver seminato la gioia della fede!
Giorni fa, lungo la strada, mi è capitato di osservare il volto di un sacerdote. Ho pensato: che guaio se un fotoreporter riprendesse questo volto, segnato dai caratteri dell’infelicità! Può essere frutto di una malattia, non voglio giudicare. Ma mi è venuta spontanea questa riflessione: non abbiamo portato frutto abbondante nel mondo, perché non abbiamo dato alla parola di Dio il permesso di dimorare nel nostro cuore. Ci manca spesso l’ora di contemplazione, di canto, di gioia come usava la beatissima Vergine che «ha conservato tutte queste parole, sorgenti di letizia, nel suo cuore». La primissima condizione per coloro che vogliono lavorare per la conversione propria e altrui è la presenza della lieta novella nel proprio cuore, l’arte di comunicare questa lieta novella in termini concreti e vitali (non nell’astrattismo di molta teologia dogmatica attuale).

L’INCONTRO CON CRISTO
Un altro aspetto che vorrei sottolineare è che la metanoia non è una nuova reazione a un nuovo imperativo e nemmeno soltanto una nuova relazione a nuove idee: è una nuova relazione ad una persona, alla persona che si chiama il Santo di Dio, la Via, la Vita, la Verità, Cristo. In tutte le catechesi bibliche sulla conversione il centro del quadro è una persona: Cristo, in cui il Padre rende visibile tutto il suo amore.
- Nel Vangelo di Marco la predica della lieta novella che conduce alla conversione, è introdotta dall’immagine viva di Cristo che con il Battesimo della Penitenza prende su di sé il fardello di tutti i suoi fratelli.
Lo Spirito Santo scende visibilmente sopra di Lui, mentre dal cielo viene una voce: «Tu sei il mio figlio diletto, in Te mi sono compiaciuto» (Mc 1, 11 ).
- Nel discorso della montagna si accostano a Cristo i discepoli: il Vangelo parla infatti di tutta la moltitudine. Sette volte risuona la voce dell’amore e dell’autorità: «Ma io vi dico». La via della salvezza consiste nel sentire e mettere in pratica la sua parola. Tutti riconoscono «che Egli ammaestrava come colui che ha autorità» (Mt 7, 29).
- Nella catechesi di conversione di San Luca, Cristo sta di nuovo al centro del quadro. Cristo è circondato dalla folla e dagli apostoli: tutta la folla cerca di toccarlo perché «da Lui usciva una forza» (Lc 6, 19).
La risposta fondamentale – ossia l’opzione fondamentale – della folla, è una relazione nuova, personale, a Cristo: «La folla lo seguiva» (Lc 7, 9). La metanoia non è soltanto una nuova relazione ad un imperativo o a nuove idee, è una relazione personalissima, è una nuova amicizia, un’accoglienza festosa, umile, riconoscente, della verità salvifica, accoglienza di Cristo, messaggio e messaggero del Padre; è un dono totale di se stesso.
- Nella catechesi di San Giovanni (i cosiddetti discorsi di addio) sta di nuovo visibilmente al centro Cristo. I discepoli sono seduti al tavolo; attorno a Lui. Egli, il Maestro Signore, lava i loro piedi; poi proclama il grande mistero: «Io in voi e voi in Me».
Il comandamento fondamentale della conversione risuona come un invito d’intima amicizia: «Dimorate in Me». Se la lieta novella di Cristo dimora in noi e se noi rimaniamo in Cristo, siamo convertiti, abbiamo ricevuto e accolto la grazia della metanoia.
- Lo stesso vale per San Paolo: tutti i richiami alla novità della vita hanno il loro fondamento nella lieta novella, considerata come una realtà dinamica: «Essere e rimanere in Cristo». Nelle lettere di San Paolo questo appello che è presentato come base della morale ritorna centosessantaquattro volte.
L’opzione fondamentale, nel senso religioso, è la fede; una fede però che è molto più che un assenso dell’intelletto: la fede include fondamentalmente una vita vissuta secondo le esigenze della fede, secondo le esigenze della vita di Cristo e con Cristo.
La fede viva porterà frutto nella carità, per la vita del mondo (Cf Optatam Totius, n. 16). Si può accedere a Cristo anche se c’è una debolezza della volontà e una parziale mancanza di libertà morale, in un campo o in un altro. Ma non si può aderire a Cristo senza la decisione fondamentale – opzione fondamentale – di accogliere Cristo come la vita e la via: cioè di vivere secondo le esigenze dell’amicizia con Cristo. L’uomo della strada, di cultura certamente non molto alta, originario da un ambiente in cui non c’è un forte spirito cristiano, porta molte cicatrici, molte piaghe, proprio per la sua vita passata, per una tradizione di superficialità in cui è vissuto; non può evidentemente comprendere subito tutte le esigenze della fede. Ma se ha capito la nuova amicizia, il dono che Cristo gli fa di Se stesso, la nuova vita, gradualmente la fede porterà frutto: non soltanto in un senso individualistico, ma frutto per la vita del mondo, nella carità.
Al centro della fede sta il fatto che Dio rivela se stesso, che Dio, che è amore, rivela il suo amore, un amore senza limiti. E così accoglienza della fede dice già accoglienza di tutta la fecondità dell’amore, in tensione di crescita. Dobbiamo credere come regola fondamentale che Cristo accoglie tutti coloro che accolgono Lui, anche se hanno tutte le piaghe, anche se sono pieni di lebbra. Chiunque ha accolto Cristo e sa che Cristo accoglie l’uomo nella sua potenza e nella sua miseria, si sente spinto da una dinamica urgenza di riconoscenza, di crescita nell’amore, di conversione continua.

Publié dans:meditazioni per quaresima |on 19 février, 2018 |Pas de commentaires »
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