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parabola delle dieci vergini

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12 NOVEMBRE 2017 | 32A DOMENICA T. ORDINARIO- A | OMELIA

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12 NOVEMBRE 2017 | 32A DOMENICA T. ORDINARIO- A | OMELIA

VIGILE ATTESA
Il tema delle Letture di oggi corrisponde al nostro stato d’animo di questi giorni di novembre, mese dedicato al pio ricordo dei Defunti: l’incontro con Gesù, che ci apre le porte della vita eterna.
Il cristiano vive la tensione del possesso e dell’attesa, della certezza e della speranza. Mentre San Paolo c’invita ad eliminare ogni tristezza, Gesù – con la parabola delle dieci vergini – ci esorta ad essere vigilanti.
Dice infatti Gesù: « Vegliate, poiché non sapete né il giorno né l’ora ».
Il Regno dei Cieli e la sua attuazione sono un fatto certo, nella fede e nella speranza, tuttavia il tempo di attuazione è nella mente di Dio e sfugge ai nostri calcoli: per cui resta in gioco la nostra libertà.
Ma è una libertà tragica: potremmo essere sorpresi ed esclusi dal Regno e avere la porta sbattuta in faccia, perché non abbiamo vegliato e accumulato l’olio delle buone opere e della carità operosa.
Esiste dunque un giudizio finale di Gesù: la salvezza viene offerta a tutti, ma non tutti la ottengono. « Vegliate », insiste Gesù. Chi veglia con la fede e le opere buone è sempre pronto a comparire davanti al Giudice divino.
Il significato della parabola è questo: lo Sposo è Gesù; le vergini sono i fedeli; la lampada è la fede; la luce sono le opere buone; il sonno delle vergini, è la morte; la festa nuziale, è la vita del Cielo.

1. Gesù verrà certamente
Il battezzato è sicuro che il Signore verrà nell’ultimo giorno, come affermiamo nel Credo: « E di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti » e verrà anche al momento della nostra morte, termine del nostro pellegrinaggio terreno.
( Antonio Gramsci, il Fondatore del Partito Comunista Italiano (= P.C.I.), rivolgendosi ai milioni di militanti, li ammoniva così: « Porsi domande sulla morte non è moderno ».
Sono ormai passati molti decenni da quel appello, e la gente continua ancora a … non essere moderna, perché pensa alla morte e la vede sempre più crudele).
San Paolo nella seconda lettura ci esorta a eliminare la tristezza della morte con questi pensieri: dice:
a) Di fronte alla morte il cristiano non può essere come i pagani che non hanno speranza (v. 13)
Per sfuggire all’oppressione dell’ universale minaccia della morte, gli uomini hanno davanti a sé due vie: non pensarci mai o pensarci spesso.
Scelgono la prima via i mediocri, i vili e gl’incoscienti.
Scelgono la seconda: i forti, gli asceti e i santi.
Il pensiero della morte diventa così regola per vivere onestamente.
Si chiedeva ad un moribondo: « Che cosa si dovrà incidere sulla vostra tomba? ».
Scrivete: « Qui giace un insensato, che uscì da questo mondo, senza sapere come mai vi fosse entrato ».
« E ci sono tanti che escono da questo mondo, senza sapere che cosa vi siano venuti a fare, e senza curarsi di conoscerlo. Non imitiamoli! » (S. Curato d’Ars).
(Titina De Filippo alla domanda: quale pensiero l’avesse portata a un’intensa pratica della Fede, rispose: « Il pensiero della morte: il pensare che oltre il tempo c’è una città di eterna gioia o di eterno dolore; il costatare che sovente si vive con tanta incoscienza, mentre la morte è sempre in agguato »).
b) San Paolo poi ci ricorda che Gesù
è risorto: così i morti risorgeranno e saranno per sempre col Signore. Nel Credo c’è un articolo che illumina di luce immortale il nostro tramonto: « Credo nella risurrezione della carne ».
Giulio Salvadori, poco prima di morire, diceva a suo fratello: « Domani mi vestirai con gli abiti più belli, perché incomincia la mia festa ». Questa è vera fede!
c) Alla venuta di Gesù, ci troveremo tutti insieme (vv. 15-17)
Questa era la ferma speranza della madre dei Maccabei che confortava il più giovane dei suoi sette figli con queste parole: « Ti scongiuro figlio mio, di guardare il cielo. Non temere questo carnefice, ma mostrandoti degno dei tuoi fratelli, accetta la morte, affinché, nel tempo della misericordia, io ti abbia insieme con loro ».

2. Le condizioni per non essere esclusi dalla presenza di Gesù, sono quelle delle vergini sagge, cioè: vigilanza e perseveranza.
Il cristiano aspetta Qualcuno, in attesa viva e operosa.
a) Vigilanza significa lotta contro il torpore e la negligenza
per giungere alla meta ed essere pronti ad accogliere Gesù quando viene (Vangelo).
Due giovanotti buontemponi un giorno si presentarono ad un vecchio eremita e gli domandarono per ischerzo:
- E noi, quando ci dobbiamo convertire?
- Un’ora prima di morire.
- Ma non sappiamo mica quando morremo…
- Allora convertitevi subito, perché domani potrebbe essere troppo tardi…
Mozart, il celebre musico austriaco (+ 1791), in una lettera al padre (4.4.1787) scriveva: « Da qualche anno mi sono familiarizzato con la morte – la migliore amica dell’uomo – : la sua immagine non mi fa paura, anzi è calmante e consolante. Eppure nessuno di quanti mi conoscono potrà dire che io sia afflitto o triste ».
Fortunato lui che viveva con simili sentimenti, perché gli capitò proprio l’imprevisto.
Infatti un giorno fu avvicinato da uno sconosciuto, che gli disse: – Maestro, c’è un signore che vorrebbe da voi, il più presto possibile, una Messa funebre, ma che sia bella, e degna del vostro grande talento musicale.
Mozart si mise subito all’opera; lavorò giorno e notte, finché portò a termine la Messa funebre. Ma ne sentì tale danno alla salute, da ammalarsi gravemente e da soccombere alla verde età di 36 anni!
E la Messa funebre? Quella persona che l’aveva ordinata non comparve più. Gli amici del grande artista fecero eseguire quella stessa Messa ai suoi funerali, non trovando musica più degna, per onorare il grande Maestro.
Mozart avrebbe pensato che quell’opera musicale sarebbe servita la prima volta per lui defunto?
b) Vigilanza è saper discernere le « visite » del Signore: è andare incontro a Gesù che viene e ci passa accanto nelle persone e negli avvenimenti.
Una sera Madre Teresa di Calcutta incontrò a Roma un uomo tutto solo. Racconta ella stessa: « Mi sembrava abbandonato da tutti. Lo salutai, stringendogli la mano ed egli mi disse che era tanto tempo che non sentiva più il calore di una mano umana! ».
Nel povero e nell’abbandonato abituiamoci anche noi a scoprire il volto di Gesù e ci sarà più facile riconoscerlo nell’istante della nostra morte.
Cari Fratelli e Sorelle, ci sono tanti modi di morire: c’è la morte improvvisa, la morte del disperato, la morte del santo, la morte violenta, quella serena nel proprio letto assistiti dai nostri cari.
Tutti desidereremmo quest’ultima, ma non sappiamo. Tuttavia una cosa è certa: la morte non ci farà paura, se non ci coglierà impreparati, ma ricchi di opere buone e con la coscienza tranquilla di aver fatto sempre il nostro dovere.
Il Calvario ci presenta tre « casi » di morte: quella del giusto, Gesù; quella del peccatore pentito, il buon ladrone; quella dell’impenitente, del disperato.
Questi casi si ripetono ogni giorno. A noi la scelta!
Persino la morte di un bimbo può essere… gioiosa per i suoi genitori.
Emilio era davvero un caro bambino quando, all’età di 9 anni, fu colpito da tifo che poi si complicò in bronco polmonite.
Poco prima di morire, apre gli occhi per niente stralunati, ma luminosi come uno specchio.
« Oh, che cosa io vedo!… La Madonna!… il Paradiso!… ».
Poi si solleva per sedersi, e fissa il padre, poi la mamma, il nonno, la nonna… Infine grida: « Gioia!… ».
Ricade sul guanciale e muore. Quando suo padre – un professore ateo – andò dal sacerdote ad annunziare la morte del suo unico figlio, il suo Millo, ripeté tra le lacrime quell’espressione del bimbo morente: « Gioia!.. ».
Ormai era certo che esisteva il Paradiso e che suo figlio vi era entrato e… lui era convertito…
Cari Fratelli e Sorelle, l’amore alla Madonna trasforma la morte in gioia e apre le porte del Paradiso. Teniamolo quindi sempre presente!.

Don Severino GALLO SDB (+)

 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 10 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

Visione di Ezechiele

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Publié dans:immagini sacre |on 8 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

SI PUÒ SOSTITUIRE, NEL VANGELO, LA PAROLA «CARITÀ» CON «AMORE»? (anche Paolo)

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Si-puo-sostituire-nel-Vangelo-la-parola-carita-con-amore

SI PUÒ SOSTITUIRE, NEL VANGELO, LA PAROLA «CARITÀ» CON «AMORE»? 

Questa settimana la domanda al teologo riguarda l’uso nel vangelo delle parole «carità» e «amore». Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale,

E’ corretto sostituire, leggendo il Vangelo, la parola «carità» con la parola «amore»? Lo si può fare anche nel caso di una lettura inserita in un incontro di preghiera?
Matteo Corsi

La sostituzione, cui allude il lettore, in realtà è un problema di traduzione del termine greco sottostante: agàpe, che veniva normalmente reso in italiano con la parola «carità», ricalcando il latino charitas, ma può essere correttamente tradotto anche con il termine «amore».
Facciamo qualche esempio, tratti dall’apostolo Paolo, dove i due modelli di tradizione vengono affiancati: «la carità (agàpe) è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio» (1 Corinzi 13,4).
Nello stesso Paolo quando scrive ai Romani troviamo anche due traduzioni diverse in tre versetti: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità (agàpe) non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Romani 13,8-10). O, di nuovo in Paolo, quando scrive al discepolo Timoteo, troviamo ancora: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità (agàpe) e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore (agàpe), che sono in Cristo Gesù» (2 Timoteo 1,7-8.13).
Nelle lettere dell’apostolo Giovanni leggiamo: «noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Giovanni 4,16; cf. anche 4,18; 2 Giovanni 2,16). Si potrebbe meglio intendere: «noi che abbiamo creduto, e crediamo ora, abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha in noi».
Giovanni non vuole dare una definizione di Dio, come quando dice, ancora nella stessa lettera, che «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1 Giovanni 1,5). Vuole dire che Dio si è rivelato (ecco perché dice che egli è «luce»), e noi l’abbiamo conosciuto nell’amore che ci ha manifestato quando ha dato il suo Figlio. È ancora Giovanni ad annotare, nel suo Vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Giovanni 3,16)».
Il punto è che nella lingua greca esistono diverse parole che hanno a che fare con il concetto che noi abbiamo dell’amore: dall’amore dei genitori a quello dei figli, a quello degli amici; dall’amore fisico a quello totalmente gratuito dell’agàpe, fino a quello dei credenti fra loro: l’amore per i fratelli (filadelfìa) di Romani 12,10: «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno».
Si potrebbe aggiungere anche l’amore di Dio per gli uomini, nella lingua greca filantropìa: «si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tito 3,4).
Anche in altre lettere troviamo (stavolta è Pietro a scrivere): «mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno (filadelfìa), all’amore fraterno la carità (agàpe)» (2 Pietro 1,5-7). E ancora: «conservate tra voi una carità fervente (agàpe), perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pietro 4,8).
Quindi, come si vede, la versione della CEI oscilla tra i diversi significati, cercando di ottenere uno stile più vario in lingua italiana. Non sempre questo corrisponde al testo originale.
Nella recente intervista rilasciata ad un giornale è lo stesso papa Francesco a dire che l’agàpe «è l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune». All’intervistatore che aggiunge: «Gesù nella sua predicazione disse che l’agàpe, l’amore per gli altri, è il solo modo di amare Dio. Mi corregga se sbaglio», il papa conclude: «Non sbaglia. Il Figlio di Dio si è incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza. Tutti fratelli e tutti figli di Dio. Abba, come lui chiamava il Padre. Io vi traccio la via, diceva. Seguite me e troverete il Padre e sarete tutti suoi figli e lui si compiacerà in voi. L’agàpe, l’amore di ciascuno di noi verso tutti gli altri, dai più vicini fino ai più lontani, è appunto il solo modo che Gesù ci ha indicato per trovare la via della salvezza e delle Beatitudini».
In conclusione, vorrei dire al lettore che il problema non è tanto sostituire una parola con un’altra, magari per un capriccio, ma cercare di entrare nell’infinita ricchezza della Parola di Dio. Non è sempre facile tradurre adeguatamente le Scritture, e soprattutto renderne la complessità del linguaggio nelle lingue che parliamo tutti i giorni. Oltre a tutto, più una parola è usata, tanto più rischiosa è la sua interpretazione. E la parola «amore», con l’importanza che riveste nella nostra esistenza di uomini e donne, ma anche di credenti, è particolarmente al cuore di questo di questo rischio, soprattutto quando vogliamo comunicarla: non tanto per quello che intendiamo dire, ma per quello che i nostri ascoltatori afferrano.

Stefano Tarocchi

Publié dans:anche Paolo, TEOLOGIA, teologia - biblica |on 8 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

e fu notte e fu giorno…

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Publié dans:immagini sacre |on 7 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

E LA NOTTE FU. LA VERA STORIA DEL PECCATO ORIGINALE (Papa Benedetto)

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/212913.html

E LA NOTTE FU. LA VERA STORIA DEL PECCATO ORIGINALE

È uno dei dogmi più trascurati e negati. Ma per Benedetto XVI è « di un’evidenza schiacciante ». Ne ha parlato tre volte in otto giorni. Senza di esso, ha detto, la redenzione cristiana « perderebbe il suo fondamento »

di Sandro Magister

ROMA, 11 dicembre 2008 – Per tre volte in otto giorni Benedetto XVI ha insistito su un dogma che è quasi scomparso dalla comune predicazione ed è negato dai teologi neomodernisti: il dogma del peccato originale.
L’ha fatto lunedì 8 dicembre all’Angelus della festa dell’Immacolata; il precedente mercoledì 3 all’udienza settimanale con migliaia di fedeli e pellegrini; e poi ancora all’udienza generale di mercoledì 10.
All’Angelus dell’Immacolata papa Joseph Ratzinger si è così espresso:
« Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.
« L’esistenza di quello che la Chiesa chiama peccato originale è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Genesi 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione (cfr. Sapienza 1, 13-14; 2, 23-24). È il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Genesi 3, 15).
« Fin dal principio, dunque, ‘l’eterno consiglio’ – come direbbe Dante (Paradiso, XXXIII, 3) – ha un ‘termine fisso’: la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: ‘piena di grazia’ (Luca 1, 28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth. È la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: ‘La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori’ (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha ‘preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato’ (Orazione Colletta).
« Carissimi, in Maria Immacolata noi contempliamo il riflesso della bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo ».
* * *
Ma il papa si è spinto ancora più a fondo, sul peccato originale, nell’udienza generale di mercoledì 3 dicembre.
Ogni mercoledì, da quando è iniziato l’Anno Paolino, Benedetto XVI dedica le sue catechesi settimanali a illustrare la vita, gli scritti, la dottrina dell’apostolo Paolo. Questa era la quindicesima catechesi della serie. Nelle due precedenti il papa aveva spiegato la dottrina della giustificazione e il nesso tra la fede e le opere. Questa volta, invece, il tema di partenza era l’analogia tra Adamo e Cristo, sviluppata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi e più ancora nella lettera ai Romani. Ricorrendo a questa analogia, Paolo evoca il peccato di Adamo per dare il massimo risalto alla grazia salvatrice donata da Cristo.
Come generalmente avviene nelle catechesi del mercoledì, Benedetto XVI si è avvalso di un testo scritto da esperti collaboratori. Ma come già in altre occasioni, se ne è distaccato. Questa volta più ampiamente del solito. Dal terzo capoverso in avanti si è rivolto direttamente ai presenti, improvvisando.
La stessa cosa ha fatto nell’udienza del mercoledì successivo, 10 dicembre. Aveva in mano un testo scritto, ma ha parlato quasi interamente a braccio. E nella parte iniziale è tornato così sul tema del peccato originale:
« Cari fratelli e sorelle, seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall’abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l’uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull’amore e sulla verità.
« Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all’unico corpo dell’umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l’inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo. ».
* * *
Queste improvvisazioni sono un indizio importante per capire il pensiero di Benedetto XVI. Esse contrassegnano le cose che più gli stanno a cuore, quelle che vuole imprimere di più nella mente degli ascoltatori.
Il peccato originale, questo dogma oggi così trascurato, è una di queste verità che papa Ratzinger sente il bisogno di rinverdire.
E il motivo l’ha spiegato ai fedeli così, nella catechesi del 3 dicembre, quella più diffusamente dedicata al tema, riprodotta integralmente qui di seguito:
Adamo e Cristo: dal peccato originale alla libertà

di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, nell’odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della lettera ai Romani (5, 12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita… Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Corinzi 15, 22-45). Con Romani 5, 12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull’umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull’umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull’umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5, 20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.
D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l’incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Romani 5, 12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.
Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento.
Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l’altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell’egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: « C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio » (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.
Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una « seconda natura » che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per l’uomo. Così anche l’espressione solita: « questo è umano£ ha un duplice significato. « Questo è umano » può voler dire: quest’uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma « questo è umano » può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell’essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.
Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l’essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell’antichità questa idea implicava l’opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall’origine dell’essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire.
Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se in tale concezione la visione dell’essere è monistica, si suppone che l’essere come tale dall’inizio porti in se il male e il bene. L’essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l’evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell’essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell’essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male, e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.
E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c’è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l’essere non è un misto di bene e male; l’essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c’è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell’essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.
Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell’uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all’altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l’uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell’evoluzionismo, non possono dire che l’uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l’uomo è sanabile. E il libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 nella Vulgata). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.
Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell’Avvento con l’antico popolo di Dio: « Rorate caeli desuper », stillate cieli dall’alto. E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l’ignoranza di Dio, la violenza, l’ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!

Cristo risorto

la mia e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 6 novembre, 2017 |Pas de commentaires »
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