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XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) – CRISTO RE (26/11/2017)

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In antitesi con i nostri sistemi

padre Gian Franco Scarpitta

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) – CRISTO RE (26/11/2017)

Terminato l’Anno Liturgico, in virtù di una decisione di Pio XI del 1925 si celebra la solennità di Cristo Re dell’Universo, che esalta la figura dello stesso Signore di cui si è tanto celebrato nelle Settimane del predetto Anno. Se è vero infatti che un Anno liturgico ci invita a rivivere, nelle varie celebrazioni, il mistero di Cristo incarnato, morto, risorto e asceso al cielo, con la ricca enumerazione delle sue opere di misericordia, dei suoi insegnamenti e del suo messaggio generale, la presente Solennità ci ragguaglia del fatto che Cristo comunque è sempre il nostro Re universale, padrone della storia e dominatore assoluto, che ricapitola in se stesso tutta la creazione (Ef 1, 10) e che è al centro del cosmo e della creazione stessa. Se Gesù Cristo infatti è Dio, è a rigor di logica che egli sia anche Re, poiché sin dall’inizio dei secoli (in quanto Verbo del Padre) cooperatore della creazione: “Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati, Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui.”(Col 1, 16). Come Sapienza che era presente quando Dio Padre ha formato il mondo, Cristo è quindi il Dominatore e Signore e anche noi rientriamo nella creazione di cui Egli è la centralità, avendolo come nostra causa iniziale e come fine ultimo.
La regalità di Cristo dev’essere riconosciuta universalmente e questo fondamentalmente fu il motivo basilare per cui la Solennità venne istituita: al serpeggiare del laicismo e della secolarità che sconfessavano la religiosità e ostruivano alla chiesa il diritto di educare, condurre e orientare il popolo verso l’etica, la morale e la cristianità; all’autoritarismo laicista dei governi e alla relativizzazione etica delle nazioni, si voleva opporre l’idea del solo Cristo unico Dominatore universale al quale ogni Istituzione si sottomette e che è anzi all’origine di ogni sistema legislativo.
Anche con la finalità di incoraggiare nel popolo di Dio l’orientamento verso Colui che, unico, doveva essere il centro della nostra fede e il criterio di ogni atteggiamento di vita. Riconoscere l’autorità e la signoria di Cristo Re dell’Universo è un atto non di sola competenza del singolo individuo, ma anche dell’intera società, che nel sottostare al vero padrone del Cosmo e della storai trova il fondamento della sua esistenza.
Se però la regalità di Cristo è reale e indiscussa, va considerato che essa non si paragona ai sistemi politici di questo mondo. Il regnare di Cristo prende anzi le distanze dai parametri terreni di governo e legislazione. A Pilato che lo interrogava: “Sei tu il re dei Giudei?” Gesù risponde: “Tu lo dici” sottolineando tuttavia che “Il mio Regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei. » (Gv 18, 37 – 38). Infatti ai monarchi e ai governanti di questo mondo è garantita la sicurezza, la protezione di cui possono avvalersi per l’esercizio del loro dominio e dei loro dispotismi.. A loro è garantito il rispetto dei sudditi, la sottomissione del popolo specialmente debole. Certamente ai dominatori di questo mondo è chiesto il massimo della responsabilità per la promozione del bene comune e della giustizia, da loro dipende la vita e la sussistenza del popolo loro sottomesso e al monarca spetta il conseguimento degli obiettivi di pace e di progresso economico. Non di rado però lo stesso Israele aveva fatto esperienza di manifeste sopraffazioni e abusi di potere nella persona dei vari monarchi che si erano succeduti, perché con molta facilità si tendeva a fraintendere la reale motivazione dello scettro. Il regno esercitato da Cristo comporta al contrario il massimo dell’umiliazione e dell’annichilimento, la povertà, il deprezzamento e il dispregio da parte di tutti. La regalità di Cristo esclude tutti gli agi, le sicurezze e le comodità che sono usuali ai monarchi di questa terra e il suo regnare consiste nell’essere povero, perseguitato e indifeso già nella sua infanzia innocente. Cristo è il re dell’Universo e tale viene riconosciuto dal Magio che a Betlemme, prostratosi, gli offre oro, simbolo appunto di signoria e regalità; ma piuttosto che il fulgore di una sontuosissima reggia preferisce uno scomodo alloggio di fortuna quale era una grotta (che è una “casa” all’arrivo dei Magi). Avrebbe potere sui nemici e su quanti lo perseguitano, ma ancora in fasce scappa in Egitto con Maria e Giuseppe; potrebbe avere ragione dei suoi stessi sudditi, Giudei, scribi e farisei, ma viene da questi schernito, deriso, messo alla prova, reso oggetto di accuse per la morte e di fatto poi braccato e appeso sulla croce. Il regnare di Cristo è un continuo umiliarsi e restare sottomesso anche quando potrebbe far saltare i chiodi che lo trafiggono e discendere dalla croce: accetta il supplizio, il dolore, l’abbandono e la morte. Proprio la prospettiva della spoliazione e della morte di croce esalta la sua regalità, perché evidenzia che il regno “che non è di questo mondo” è anche quello che si concretizza nell’amore e nella misericordia. Lo stesso amore che si era evinto nella guarigione del lebbroso e del cieco nato, nella resurrezione di Lazzaro e del figlio della vedova di Giairo; che aveva visto lo stesso Cristo paziente pastore che conduce e soccorre ogni singola pecora; che aveva assunto consistenza nel perdono dei peccati al paralitico poi ristabilito si accentua e si rende convincente nella croce, dove Cristo risolleva le sorti del mondo intero. L’amore con cui Cristo aveva prediletto i poveri, gli emarginati e gli esclusi; l’amore con cui aveva perdonato i peccati alla prostituta con la pedagogia che nessuno è senza peccato e con il quale aveva sconfessato le vigenti mentalità di snobismo nei confronti dei reprobi e dei peccatori, era già espressione evidente del suo Regno. Cristo lo sintetizza nella morte ignominiosa con la quale paga il prezzo dei nostri peccati. Lasciarsi trafiggere in croce sperimentando perfino la sensazione dell’abbandono di Dio, questa è la massima espressione dell’amore che contrassegna la regalità di Gesù. In Cristo Re dell’Universo il regno è quindi l’antitesi delle aspettative di regalità umana: consiste nell’umiliarsi e nell’amare fino alla fine, senza che alcuna di queste due prerogative escluda l’altra. Si è capaci di amare, infatti, nella misura in cui ci si umilia e ci si sottomette, senza nulla richiedere per se stessi ma con massima abnegazione per gli altri.
La croce riassume anche il regnare di Cristo nella promozione della pace, della giustizia e della solidarietà e nel superamento dei reciproci pregiudizi, consci che in Cristo Gesù tutti gli uomini sono uno (Gal 3, 28).
Si diceva all’inizio che noi siamo parte dell’universalità della creazione che al dominio di Cristo è sottomessa, ma cosa ci viene chiesto se non corrispondere attivamente alla stessa dimensione di umiltà e di amore che Cristo ha palesato nel suo essere re? Siamo invitati non a vivere servilmente sottomessi, ma febbrilmente interessati a vivere l’amore gratuito e spontaneo per essere riflesso dell’amore con cui Cristo regna.
La pagina evangelica di oggi ci delucida di un Re universale che viene accudito e assistito dai suoi sudditi che lo hanno riconosciuto nella persona degli affamati, assetati e dei carcerati; che hanno pertanto saputo interpretarlo non nella logica di questo mondo assurdo e altezzoso, ma nella semplicità e nella piccolezza che il Figlio di Dio ha scelto e prediletto per l’esercizio del suo Regno. Soccorrere i poveri e gli indigenti equivale a soccorrere lo stesso Re e a guadagnare le ricompense garantite del suo stesso Regno e di conseguenza partecipare anche noi stessi della sua gloria nella misura in cui saremo stati partecipi della sua croce.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 24 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

San Clemente I Papa

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Publié dans:immagini sacre |on 22 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

LA LETTERA DI CLEMENTE ROMANO AI CORINZI

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LA LETTERA DI CLEMENTE ROMANO AI CORINZI

Il più antico documento letterario della religione cristiana che possa essere datato, immediatamente posteriore al tempo degli apostoli, è la lettera di Clemente Romano ai Corinzi scritta nell’ultima decade del primo secolo. E’ interessante osservare il mutamento avvenuto nel modo di pensare dei Cristiani ad appena trent’anni dalla morte di Paolo. Quest’ultimo aveva scritto alla comunità dei Corinzi nell’intenzione di appianarne le controversie ; Clemente, vescovo di Roma, si rivolge alla medesima comunità perché essa rifiutava di riconoscere l’autorità del proprio vescovo : nelle forme della antica arte retorica, adducendo molti esempi, dimostra loro gli effetti tragici della sedizione (sta@siv) e della disobbedienza. Quando poi arriva al punto in cui è necessario introdurre il topos più terrificante, che, cioè, le discordie intestine travolsero grandi regni, Clemente si astiene dal dare esempi per timore di addentrarsi eccessivamente nella storia pagana e profana, ma applica senza esitare le regole dell’eloquenza politica : il tema da lui suggerito, ad esempio, è sempre stato propagandato dai poeti, dai sofisti e da moltissimi uomini di governo della polis greca classica ( éomo@noia).
In età romana la Concordia è persino diventata una dea, raffigurata sulle monete ed invocata alle nozze ed alle feste : i filosofi l’avevano celebrata come potenza divina che regge l’universo e mantiene nel mondo la pace e l’ordine. Clemente nel capitolo XX della lettera fa esplicito riferimento a queste concezioni, quando nomina la concordia come “ordine cosmico del Tutto”.
L’esempio di Paolo in I Cor.12 deve aver incoraggiato Clemente a ricorrere in questa congiuntura alla tradizione classica greca. Paolo aveva raccontato ai Corinzi l’apologo famoso della lite fra le parti del corpo umano : come essi rifiutarono di compiere le funzioni che erano loro proprie all’interno dell’organismo, sino a che furono costretti a comprendere che erano tutte parti di un corpo e solo come tali potevano esistere. Era la stessa favola che Menenio Agrippa aveva raccontato alla plebe quando questa aveva lasciato la città di Roma e si era ritirata sul Monte Sacro, dopo aver deciso di non voler più vivere con i patrizi. Tutti conoscono questa storia da Livio, ma compariva anche in diversi storici greci, perché sembra risalire ad un discorso simile pronunciato da un sofista greco.
Il discorso affrontato da Clemente, però, è diverso : sicuramente si servì per il suo racconto di una fonte stoica, soprattutto nell’entusiastico elogio dell’armonia, signora di tutta la natura. E’ significativo che Clemente, per sottolineare il concetto di coralità e di collaborazione fra tutti i Cristiani faccia uso del termine ‘ekklesiéa, che rimandava sicuramente la mente del lettore al suo significato più arcaico ed originale, l’assemblea di tutti i cittadini della polis greca. Clemente ricorre con grande frequenza nella sua lettera alla tradizione della paideia classica, nella quale ha saldissime radici. La concezione organica della società, che egli riprende dal pensiero politico greco, acquista nelle sue mani un significato quasi mistico, di unità nel corpo di Cristo.
Dopo aver sottolineato, nel capitolo XXXVII, il parallelismo con l’esercito romano e la sua disciplina gerarchica, Clemente osa attingere persino alla tragedia greca, citando Sofocle ed Euripide: i grandi non possono esistere senza i piccoli ed i piccoli senza i grandi (famoso è il coro di Sofocle nell’Aiace, al v. 158). Clemente sottolinea l’importanza delle parti più piccole del corpo umano per la vita del corpo intero, affermando al termine della sua argomentazione che “tutte respirano insieme” ( sunpnei^, latino conspirant) e dunque subordinano se stesse alla conservazione dell’impero. Il verbo greco sumpne@w significa avere in comune il pne@uma, cioè lo spirito. Il fatto che Clemente usi questa parola per le parti del corpo implica che un solo spirito permea e anima tutto l’organismo. Quest’idea veniva direttamente dalla medicina greca (su@gkrasiv) e poi dalla filosofia stoica.
Clemente aveva bisogno per i suoi fini di un ordo christianus, per rinsaldare la Chiesa in rapida espansione : è chiaro l’intento “educativo” rivolto nella lettera a tutti i membri della comunità, dai diaconi ai laici, perché rispettino ciascuno il proprio posto.
Fondamentale è, all’interno della lettera di Clemente, l’utilizzo del termine paideia, utilizzato generalmente nell’espressione “paidei@a tou^ Kuri@ou”. Ciò che di meglio egli ha desunto da una vastissima tradizione filosofica e culturale propria di numerosissime fonti pagane da lui citate indirettamente è stato magistralmente inserito entro questo vasto concetto di paideia divina, perché, se così non fosse, non avrebbe potuto servirsene per il suo scopo, che è quello di convincere il popolo di Corinto della verità del suo insegnamento. Le verità e le sententiae dei poeti e dei pensatori greci che egli incorpora nella sua paideia cristiana hanno lo scopo di dare la forza dell’evidenza a tutta l’opera. L’alto valore dato alla paideia in quest’ultima parte della lettera, nella quale Clemente cerca di far comprendere a coloro cui si rivolge il fine (sko@pov) del suo scritto, non può essere interamente spiegato dalla parte che tale idea ha avuto sino ad allora all’interno del pensiero cristiano esso è stato senza alcun dubbio enormemente accresciuto dalla valutazione che della paideia è stata data nella civiltà greca.

 

Santa Cecilia

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Publié dans:immagini sacre |on 21 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

22 NOVEMBRE -SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

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22 NOVEMBRE -SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

Nobile romana.

La festa di santa Cecilia, vergine e martire, è la più popolare fra le feste che si succedono al declinare dell’anno liturgico. Cecilia appartenne ad una delle più illustri famiglie di Roma e nel secolo III fu una delle più grandi benefattrici della Chiesa, per la sua generosità e per il dono che alla Chiesa fece del suo palazzo in Trastevere. Meritò certamente per questo di essere sepolta con onore nel cimitero di san Callisto presso la cripta destinata alla sepoltura dei Papi. Ma ciò che maggiormente contribuì a farla amare dappertutto è il fatto che sul suo ricordo è nato un grazioso racconto, che ha ispirato pittori, musici, poeti e la stessa Liturgia.
Cecilia sarebbe stata costretta a sposare un giovane pagano: Valeriano. Durante il festino nuziale, rallegrata dalle melodie della musica, Cecilia nel suo cuore si univa agli Angeli per cantare le lodi di Dio, al quale si era consacrata. Condannata ad essere bruciata nelle terme del suo palazzo, il fuoco non la toccò e, inviato un carnefice, perché le troncasse la testa, tentò tre volte, facendole tre gravi ferite al collo, ma la lasciò ancora semiviva e l’agonia durò quattro giorni. Fu deposta nella tomba vestita della veste di broccato d’oro, che indossava nel giorno del martirio, il suo palazzo fu trasformato in basilica.

Il culto.
I fedeli non dimenticarono la giovane martire e sappiamo che già nel secolo V essi solevano raccogliersi al titolo di santa Cecilia. Nel secolo VI Cecilia era forse la santa più venerata di Roma e nel secolo nono Papa Pasquale restaurò la sua chiesa. Spiacente di non possedere reliquie della santa, il Papa vide una notte in sogno una giovane bellissima, che gli disse essere il suo corpo molto vicino alla chiesa restaurata. Fatti degli scavi si ritrovò il corpo vestito di broccato e fu collocato in un sarcofago di marmo sotto l’altare della chiesa.
Nel 1559 il cardinale Sfondrati, modificando l’altare, ritrovò il sarcofago e lo fece aprire. I presenti videro un corpo coperto di un leggero velo, che ne lasciava intravvedere le forme e sul quale scintillavano i resti della veste di broccato. Emozione e gioia a Roma furono immense, ma non si osò, per un senso di rispetto, sollevare il velo per rendersi conto delle condizioni della salma venerata. Lo scultore Maderno riprodusse nel marmo, idealizzandola, la positura della santa che evoca l’idea della verginità e del martirio. Da quella data, come canta un inno,  » il corpo riposa sotto il marmo silenzioso, mentre in cielo, sul suo trono, l’anima di Cecilia canta la sua gioia e accoglie con benevolenza i nostri voti ».
E i nostri voti la Chiesa rivolge a santa Cecilia, ricordando il suo nome ogni giorno nel Canone della Messa e cantandolo nelle Litanie dei Santi, in occasione delle suppliche solenni. I musici di ogni regione del mondo la venerano quale patrona, la Francia innalzò in Albi una luminosa cattedrale e nel 1866, Dom Guéranger pose sotto la protezione della santa, modello di verginità cristiana e di puro amore, il primo convento dei Benedettini della Congregazione di san Pietro di Solesmes.

Gli insegnamenti della santa.
La scarsità di notizie storiche non deve sminuire l’amore che dobbiamo serbare per i santi ai quali la Chiesa ha sempre reso un culto, ottenendo costante protezione e grazie importanti nel corso della storia.
« La Chiesa onora in santa Cecilia, diceva Dom Guéranger, tre caratteristiche, che, riunite insieme, la distinguono nella meravigliosa coorte dei santi in cielo e ne fa derivare grazie ed esempi. Le caratteristiche sono la verginità, lo zelo apostolico e il sovrumano coraggio con il quale sfidò la morte e i supplizi e di qui il triplice insegnamento che ci dà questa sola storia cristiana ».

La verginità.
« Nel nostro tempo, ciecamente asservito al culto della sensualità, occorre resistere con le forti lezioni della nostra fede al travolgimento cui a stento riescono a sottrarsi i figli della promessa. Dopo la caduta dell’impero romano si videro forse costumi, famiglia e società correre pericolo così grave?
Letteratura, arti, lusso, già da tempo presentano il godimento fisico come unico scopo dell’uomo e ormai nella società troviamo molti che vivono col solo intento di soddisfare i sensi. Sventurato il giorno in cui la società, per essere salvata, crederà di poter contare sulle energie dei suoi membri! L’impero romano fece l’esperienza, tentò più volte di respingere l’invasione, ma per l’infrollimento dei suoi figli, ricadde su se stesso e non si sollevò più.
Soprattutto è minacciata la famiglia. È tempo che essa pensi alla sua difesa contro il riconoscimento legale e l’incoraggiamento del divorzio, e si difenderà in un modo solo: riformando se stessa, rigenerandosi con la legge di Dio e ritornando dignitosa e cristiana. Torni in onore il matrimonio con le sue caste esigenze, cessi di essere un gioco o una speculazione, paternità e maternità siano serio dovere e non calcolo e, con la famiglia, riprenderanno dignità e vigore la città e lo Stato.
Però, se gli uomini non sapranno apprezzare l’elemento superiore, senza del quale la natura umana è soltanto rovina, cioè la continenza, il matrimonio non potrà di nuovo nobilitarsi. Non tutti sono tenuti ad abbracciarlo nella sua nozione assoluta, ma tutti devono onorarlo, se non vogliono trovarsi in balia del senso mostruoso come dice l’Apostolo (Rm 1,28). La continenza rivela all’uomo il segreto della sua dignità, che tempra l’anima a tutte le rinunce, che risana il cuore ed eleva tutto il suo essere. La continenza è il culmine della bellezza morale dell’individuo e, nello stesso tempo, la grande forza della società umana. Il mondo antico, avendone soffocato il sentimento, andò in dissoluzione e solo il Figlio della Vergine, comparso sulla terra, rinnovando e affermando questo principio salvatore, diede all’umanità nuove energie.
I figli della Chiesa, degni di questo nome, gustano questa dottrina e non ne restano stupiti, perché le parole del Salvatore e degli Apostoli loro hanno rivelato, e la storia della fede che professano in ogni sua pagina presenta loro in atto, la feconda virtù della continenza. che tutti gli stati della vita cristiana devono professare, ciascuno nella sua misura. Per essi santa Cecilia è solo un esempio di più, ma così fulgido da meritare la venerazione di tutti i tempi nella storia del cristianesimo. Quanta virtù ha ispirato Cecilia, quanto coraggio ha saputo infondere e quante debolezze ha prevenute o riparate! Tanta potenza di moralizzazione pose Dio nei suoi santi che influisce non solo attraverso la diretta imitazione delle loro virtù, ma ancora per le induzioni che ciascun fedele può trarne per il suo caso particolare ».

Lo zelo apostolico.
« Il secondo carattere che si deve studiare nella vita di santa Cecilia è l’ardore dello zelo del quale resta ammirabile esempio e anche sotto questo aspetto possiamo raccogliere utili insegnamenti. Caratteristica dell’epoca nostra è l’insensibilità al male del quale non ci sentiamo personalmente responsabili, i cui risultati non ci toccano. Si è daccordo che tutto precipita, si nota il totale sfacelo e non si pensa neppure a tendere la mano al vicino, per strapparlo al naufragio. Dove saremmo, se il cuore dei primi cristiani fosse stato gelido come il nostro e non fosse stato conquiso dall’immensa pietà e dall’inesauribile amore, che loro vietò di non avere più speranza per il mondo in cui Dio li aveva collocati, perché fossero sale della terra? (Mt 5,13). Tutti allora sentivano la responsabilità del dono ricevuto. Liberi o schiavi, persone note o sconosciute, tutti erano oggetto di una dedizione senza limiti da parte di questi cuori pieni della carità di Cristo. Leggendo gli Atti degli Apostoli e le Epistole si vedrà con quale pienezza si sviluppava l’apostolato dei primi tempi e come l’ardore dello zelo durasse a lungo senza affievolirsi, tanto che i pagani dicevano: « Vedete come si amano! ». Come avrebbero potuto non amarsi, se in ordine alla fede si sentivano figli gli uni degli altri?
Quanta tenerezza materna provava Cecilia per i fratelli, per il fatto di essere cristiana! Il nome di Cecilia, e con il suo molti altri, ci testimoniano che il cristianesimo conquistò il mondo, strappandolo al giogo della depravazione pagana, con questi atti di devozione agli altri che, compiuti in mille luoghi nello stesso tempo, produssero un completo rinnovamento. Imitiamo almeno in parte questi esempi cui tutto dobbiamo e vediamo di sciupare meno tempo ed eloquenza a gemere su mali già troppo noti. È meglio che ciascuno si metta all’opera e conquisti uno almeno dei suoi fratelli e il numero dei fedeli avrà già superato quello degli increduli. Lo zelo non è morto, lo sappiamo, opera anzi in molti e dà gioia e conforto alla Chiesa con i suoi frutti; ma perché deve dormire cosi profondamente in tanti cuori che Dio per lo zelo aveva preparati? ».

Il coraggio.
« Basterebbe davvero a caratterizzare l’epoca il generale torpore causato dalla mollezza dei costumi; conviene aggiungere ancora un altro sentimento, che ha la stessa sorgente e basterebbe, se dovesse durare a lungo, a rendere incurabile il decadimento di una nazione. Tale sentimento è la paura che ormai si è estesa a tutti. Paura di perdere i propri beni o i propri posti, paura di rinunciare al proprio lusso o alle proprie comodità, paura infine di perdere la vita! Non occorre dire che nulla snerva di più e maggiormente danneggia il mondo di questa umiliante preoccupazione, ma soprattutto occorre dire che non è affatto cristiana. Dimentichiamo di essere soltanto pellegrini sulla terra e abbiamo spenta nel cuore la speranza dei beni futuri! Cecilia ci insegna a disfarci della paura. Quando Cecilia era viva, la vita era meno sicura di oggi e a ragione si poteva avere paura e tuttavia si era tranquilli e spesso i potenti tremavano davanti alle loro vittime.
Solo Dio sa ciò che ci attende; ma se la paura non è sostituita da un sentimento più degno dell’uomo e del cristiano, la crisi politica divorerà presto la vita dei singoli e perciò, qualsiasi cosa avvenga, è giunta l’ora di ricominciare la nostra storia. Non sarà vano l’insegnamento, se arriveremo a comprendere che con la paura i primi cristiani ci avrebbero traditi, perché la parola di vita non sarebbe giunta fino a noi, con la paura a nostra volta tradiremmo le future generazioni, che da noi attendono di ricevere il deposito ricevuto dai nostri padri » (Dom Guéranger, u. s.).

Lode allo sposo delle vergini.
« Quale nobile falange ti segue, o Signore, Sposo delle vergini! Le anime di elezione sono tua conquista e dalle loro pure labbra sale a te la lode squisita dei loro cuori ferventi. Non è possibile contarle attraverso i secoli, perché ogni generazione ne accresce il numero, da quelle che consacrano, per amore a te, la loro vita ai poveri, ai malati, ai lebbrosi, e a tutte le miserie morali, a quelle che, per amore tuo, rinunciano alle gioie della famiglia e si consacrano alle scuole cristiane, alle istituzioni benefiche o si mortificano nei chiostri.
Ecco, prime, le vergini particolarmente benemerite, perché sigillarono col sangue il loro amore sui roghi o nelle arene: Blandina, Barbara, Agata, Lucia, Agnese… e Cecilia, che in nome di tutte fece omaggio della loro fortezza e consacrò la gloria della loro virtù, a te, o Gesù, seminator casti consilii (Prima Antifona del secondo Notturno della festa), divino seminatore di casti propositi, che solo, mieti simili spighe, che solo, leghi tali manipoli! ».

Preghiera alla patrona dei musici.
« Una similitudine frequente nei Padri della Chiesa fa dell’anima nostra una sinfonia, un’orchestra, Symphonialis anima. Appena la grazia l’afferra, come il soffio che sotto le dita dell’artista fa vibrare l’organo, si commuove e vibra all’unisono coi pensieri e sentimenti del Salvatore. Ecco il magnifico concerto delle anime pure, che Dio può ascoltare con compiacenza, senza che lo turbi la stonatura delle note false del peccato, né la cacofonia urtante delle bestemmie e dei tradimenti!
Degnati, o Cecilia, ricambiare il nostro omaggio, ottenendoci la costante armonia della nostra volontà con le nostre aspirazioni alla virtù e le nostre possibilità di fare il bene! Degnati convincerci che lo stato di grazia, vita normale del cristiano, non è sola astensione dal male, né avara e fredda osservanza dei comandamenti, ma un’attività piena di gioia e di entusiasmo, che sa dare alla carità e allo zelo tutte le possibilità » (Card. Grente, Oeuvres Oratoires, VIII, p. 17-20).

Preghiera per la Chiesa.
« Aggiungiamo ancora una preghiera per la santa Chiesa di cui fosti umile figlia, prima di esserne speranza e sostegno. Nella notte fitta del secolo presente, lo Sposo tarda ad apparire e nel solenne e misterioso silenzio permette alla vergine di abbandonarsi al sonno fino a quando si farà sentire l’annuncio del suo arrivo (Mt 25,5). Onoriamo il tuo riposo sulla porpora della tua vittoria, o Cecilia!
Sappiamo che non ci dimentichi, perché nel Cantico, lo Sposo dice: Dormo, ma il mio cuore vigila (Ct 5,2).
È vicina l’ora in cui lo Sposo apparirà, chiamando tutti i suoi sotto l’insegna della sua Croce e presto risuonerà il grido: Ecco lo Sposo, uscitegli incontro! (Mt 25,6). Dirai allora, o Cecilia, ai cristiani, come al fedele drappello, che, nell’opera della lotta si è stretto attorno a te: Soldati di Cristo, rigettate le opere delle tenebre, vestite le armi della luce (Atti di santa Cecilia).
La Chiesa, che pronunzia tutti i giorni il tuo nome con amore e con fede durante i santi Misteri, attende con certezza il tuo soccorso, o Cecilia! Sa che l’aiuto non le mancherà. Tu prepara la sua vittoria, elevando i cuori cristiani verso le sole realtà troppo spesso dimenticate. Quando gli uomini ripenseranno alla eternità del nostro destino, sarà assicurata salvezza e pace ai popoli.
Sii sempre, o Cecilia, le delizie dello Sposo! Saziati dell’armonia suprema di cui è sorgente. Veglierai su di noi dalla gloria del cielo e, quando giungerà la nostra ultima ora, assistici, te ne supplichiamo, per i meriti del tuo eroico martirio, assistici sul letto di morte, ricevi l’anima nostra nelle tue braccia, portala al soggiorno immortale, dove ci sarà dato comprendere, vedendo la felicità che ti circonda, il prezzo della verginità, dell’apostolato e del martirio » (Dom Guéranger, Histoire de sainte Cécile, 1849, Conclusione).

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1302-1308

 

second coming

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Publié dans:immagini sacre |on 20 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – IL FIUTO DEI CRISTIANI

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PAPA FRANCESCO – IL FIUTO DEI CRISTIANI

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Venerdì, 10 novembre 2017

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVII, n.259, 11/11/2017)

In una società contaminata dallo «smog della corruzione», il cristiano deve essere «furbo» e avere «fiuto»: infatti «non può permettersi di essere ingenuo» perché custodisce un «tesoro che è lo Spirito Santo». La riflessione proposta da Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta la mattina di venerdì 10 novembre, ha toccato una delle ferite aperte dell’uomo contemporaneo. E, nel rivolgersi alla coscienza di ogni persona, ha interpellato in particolare quanti nella società hanno responsabilità collettive di governo e di amministrazione.
Punto di partenza dell’omelia è stato il brano evangelico del giorno, nel quale Luca (16, 1-8) passa dalle «tre parabole della misericordia» a un argomento «totalmente diverso» attraverso la parabola dell’amministratore disonesto. Mentre le precedenti descrivevano «la storia di Dio, la storia dell’amore, la storia della misericordia», qui si arriva a «una storia di corruzione».
Il Pontefice ha riassunto la vicenda nella quale si parla di un uomo ricco che «aveva sentito come si amministrava la sua azienda» e si era accorto di «qualche cosa di sospetto nei confronti dell’amministratore». Un personaggio disonesto che, evidentemente, «aveva la mano lunga» e, sapendo ben destreggiarsi nelle truffe, «andò avanti tanto tempo, fino al momento che l’uomo ricco se ne accorse». E come ha reagito l’amministratore?. È lo stesso racconto evangelico, riportato dal Papa, a scandagliare i suoi pensieri: «Ma adesso con questa abitudine che io ho di guadagno facile, devo tornare a lavorare? A guadagnarmi il pane col sudore? Alzarmi tutti i giorni alle sei del mattino? No, no, no».
Da questa consapevolezza, ha spiegato il Pontefice, nasce l’escamotage dell’amministratore che incomincia a fare «la cordata con altri corrotti». E se pure «alcuni di questi non erano corrotti», però gli è ugualmente «piaciuta la proposta ed è entrato nella corruzione». Ha commentato Francesco: «Sono potenti questi! Quando fanno le cordate della corruzione sono potenti; persino arrivano anche ad atteggiamenti mafiosi». E ha sottolineato che quanto descritto in questa parabola «non è una favola», non è «una storia che dobbiamo cercare nei libri di storia antica: la troviamo tutti i giorni sui giornali, tutti i giorni». Infatti, ha aggiunto, «questo succede anche oggi, soprattutto con quelli che hanno la responsabilità di amministrare i beni del popolo». Del resto «con i propri beni nessuno è corrotto, li difende».
La conclusione del brano evangelico ha aperto la strada alle considerazioni del Pontefice. Innanzitutto si legge «che il padrone lodò quell’amministratore disonesto perché aveva agito con scaltrezza». Infatti, ha spiegato il Papa, i corrotti in genere «sono furbi», sanno portare avanti bene la loro condotta disonesta: «Anche con cortesia, con guanti di seta, ma la fanno bene». E, soprattutto, nel racconto c’è la chiosa finale di Gesù che dice: «I figli di questo mondo infatti, verso i loro pari, con i pari, sono più scaltri dei figli della luce». Ecco allora «la conseguenza che Gesù prende da questa storia, che è una storia quotidiana. La scaltrezza di questi».
Proprio da qui Francesco ha iniziato ad approfondire la sua riflessione chiedendosi: «Ma se questi sono più scaltri dei cristiani — ma non dirò cristiani, perché anche tanti corrotti si dicono cristiani —, se questi sono più scaltri di quelli fedeli a Gesù, io mi domando: ma c’è una scaltrezza cristiana?».
La parabola ha quindi offerto al Papa lo spunto per considerare la vita concreta del cristiano, che quotidianamente deve confrontarsi con la piaga della corruzione. Francesco è partito da una questione: «Esiste un atteggiamento per quelli che vogliono seguire Gesù» in modo che «non finiscano male, che non finiscano mangiati vivi — come diceva mia mamma: “Mangiati crudi” — dagli altri»?. Qual è, insomma, «la scaltrezza cristiana», una scaltrezza, cioè, «che non sia peccato, ma che serva per portarmi avanti al servizio del Signore e anche all’aiuto degli altri?». Esiste «una furbizia cristiana»?
La risposta, ha detto il Papa, viene direttamente dal Vangelo, dove si incontrano «alcune parole, alcuni detti che ci aiutano a capire se esiste — io dirò — il fiuto cristiano per andare avanti senza cadere nelle cordate della corruzione». Gesù, infatti, a tale scopo utilizza delle «contrapposizioni», come quella tra «agnelli» e «lupi» («Io vi invio come agnelli tra i lupi») con la quale si capisce che «il cristiano è un agnello che deve cavarsela con i lupi». E perciò, attraverso un «altro paradosso», gli viene dato un consiglio: «Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come la colomba».
Ma, ha proseguito Francesco, «come si fa per arrivare a questo atteggiamento di prudenza come i serpenti e di semplicità come le colombe?». Di nuovo il suggerimento viene da Gesù, che «ripete tante volte nel Vangelo: “State attenti, state attenti. Guardate, guardate i segni del tempo: quando l’albero dei fichi incomincia a fare delle foglie è perché è vicina la primavera; quando il mandorlo fiorisce è vicina la primavera». Occorre, cioè, stare «attenti a quello che succede», guardare bene, tenere «gli occhi aperti».
È proprio questo, ha spiegato il Pontefice, il primo atteggiamento che ci porta alla «scaltrezza cristiana»: l’attenzione a quello che succede. Coltivare, cioè, quel «senso della sfiducia sana», che ci porta, ad esempio, a dire: «Di questo non mi fido, parla troppo, promette troppo…». Come accade quando qualcuno propone: «Fa’ l’investimento nella mia banca io ti darò un interesse doppio di quello che danno gli altri” — “Oh, che bello!”». E invece lo scaltro capisce che «questo è troppo». Il cristiano, quindi, «sta attento, guarda i segni del tempo».
C’è poi un secondo suggerimento: «riflettere». Bisogna, ha suggerito Francesco, «non essere veloci nell’accettare certe proposte, perché il diavolo sempre fa così con noi; viene con una finta umiltà». La stessa cosa è accaduta a Eva: «Ma guarda questa mela, è bella, eh!” — “No, ma non posso mangiarla” — “Ma guarda, se tu la mangi diventerai…”». Una storia che tutti conoscono e che parla della «seduzione» del diavolo. Occorre quindi «stare attenti e riflettere», tenendo conto che «il diavolo sa per quale porta entrare nel nostro cuore, perché conosce le nostre debolezze. Ognuno ha la propria. E bussa a quella porta, entra per quella porta».
Infine, un terzo elemento: «pregare». Se si hanno questi tre atteggiamenti, ha affermato il Papa, «stai sicuro che arriverai a questa scaltrezza cristiana che non si lascia ingannare, non si lascia vendere un pezzettino di vetro credendo che siano pietre preziose. E così saremo, come dice Gesù: “Prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”». E «avremo il fiuto cristiano davanti alle cose che succedono».
In conclusione, come di consueto, il Pontefice ha suggerito un’intenzione di preghiera legata alla meditazione appena compiuta: «Preghiamo oggi il Signore che ci dia questa grazia di essere furbi, furbi cristiani, di avere questa scaltrezza cristiana», perché «se c’è una cosa che il cristiano non può permettersi è essere ingenuo». Infatti «come cristiani abbiamo un tesoro dentro: il tesoro che è Spirito Santo. Dobbiamo custodirlo». Chi «si lascia rubare lo Spirito» è un ingenuo. E un cristiano «non può permettersi di essere ingenuo».
Chiedere al Signore «questa grazia della scaltrezza cristiana e del fiuto cristiano», ha concluso il Papa, è anche «una buona occasione per pregare per i corrotti». Del resto, ha detto Francesco, «si parla dello smog che causa inquinamento», ma esiste anche «uno smog di corruzione nella società». Perciò «preghiamo per i corrotti: poveretti, che trovino l’uscita da quel carcere nel quale loro sono voluti entrare».

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 20 novembre, 2017 |Pas de commentaires »
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