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L’11 SETTEMBRE, GIOVANNI PAOLO II, LA VERGINE MARIA E UN RE POLACCO

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L’11 SETTEMBRE, GIOVANNI PAOLO II, LA VERGINE MARIA E UN RE POLACCO

Storia della festa del Santo Nome di Maria, istituita come ex voto per la vittoria dell’esercito polacco sui turchi e ripristinata da Giovanni Paolo II nel 2002, a seguito dell’attentato alle Twin Towers

12 SETTEMBRE 2014ANITA BOURDINCHIESA E RELIGIONE
Per Giovanni Paolo II l’11 settembre non era solo la data dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, ma il giorno che ricordava l’intercessione della Vergine Maria nella vittoria dell’esercito polacco che pose fine dell’assedio di Vienna da parte dei turchi, nel XVII secolo. Fu dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 che il Pontefice polacco vide la necessità di ripristinare la festa del Santo Nome di Maria, stabilita come ex-voto per questa vittoria poi cancellata nel XX secolo, per mancanza di memoria degli eventi
Pertanto, la Chiesa celebra il Santo Nome di Maria il 12 settembre, il giorno dopo l’anniversario della vittoria dell’11 settembre 1683. La festa è stata registrata nella Ottava della Natività della Vergine, per ricordare ai cristiani che possono ricorrere all’intercessione della Madonna in ogni evento della vita, grande o piccolo che sia, come insegna il Vangelo delle Cana e le parole di Cristo sulla croce: “Ecco tua Madre”.
Tuttavia la festa scomparve dal calendario liturgico intorno al 1970, dopo l’accurato lavoro storico compiuto dal Concilio Vaticano II. Ma sempre per un lavoro storico, è stata ricostituita nella stessa data dal Santo Pontefice, nella editio tertia del Messale Romano, e nel martirologio romano, il 22 marzo 2002; quindi, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e dopo la preghiera interreligiosa per la Pace ad Assisi del gennaio 2002.
Il ‘movente’ fu spirituale. Ma Karol Wojtyla conosceva anche le ragioni storiche, dal momento che coinvolgevano la storia della sua patria, la Polonia, e anche l’Europa, come testimoniano gli affreschi della “cappella polacca” della “Santa Casa” di Loreto.
La guerra a cui ci si riferiva risale al 1863, oltre un secolo dopo la battaglia di Lepanto (1571): i turchi stavano tentando di entrare in Europa occidentale attraverso un attacco di terra. Maometto IV aveva preso la bandiera di Maometto Kara Mustafà, all’inizio dell’anno, giurando di difenderla con la sua stessa vita, se necessario. Il Gran Visir si avvaleva di circa 300.000 uomini e promise di prendere Belgrado, Buda, Vienna, di penetrare in Italia e arrivare a Roma “fino l’altare di San Pietro”. Si può immaginare il turbine di violenza e sangue che un progetto del genere comportava.
Sempre nel 1683, ad agosto, un cappuccino italiano residente a Vienna, grande mistico, di nome Marco d’Aviano – poi beatificato da Giovanni Paolo II – fu nominato Gran Cappellano di tutti gli eserciti d’Europa. Il religioso viene ricordato più che altro come l’inventore del “cappuccino” o del “caffè viennese”, ma la grande storia lo annovera come colui che seppe infondere coraggio al popolo austriaco e riuscì a convincere il re polacco Jan Sobieski a venire in soccorso della capitale, dal momento che disponeva di 40.000 uomini. La città fu assediata il 14 luglio e la sua resa era solo una questione di ore. L’equilibrio di potere non era a favore delle truppe europee. Tuttavia, Vienna fu affidata all’intercessione della Vergine, tanto che l’effigie di Maria fu posta su tutti gli stendardi.
L’11 settembre 1683, poi, sul Kahlenberg che domina la città, a nord, padre Marco celebrò la Messa, servita dal re polacco davanti a tutto l’esercito posto in semicerchio. Il cappuccino predisse una vittoria senza precedenti. E invece di finire la festa nelle parole liturgiche, “Ite missa est”, gridò: “Ioannes vinces! Jan vincerà!”.
Le truppe guidate da Sobieski insieme a Carlo duca di Lorena, attaccarono gli Ottomani all’alba dell’11 settembre. Il sole splendeva sui due eserciti da cui dipendeva il destino dell’Europa. Le campane della città squillarono al mattino. Donne e bambini pregavano nelle chiese, implorando l’aiuto della Vergine Maria. E la sera dell’11 settembre, lo stendardo del gran visir cadde nelle mani di Sobieski. Il pericolo di far capitolare Roma fu quindi scongiurato.
Il giorno successivo, il 12 settembre, re Jan fece il suo ingresso in una città in giubilo, e volle celebrare una Messa e un Te Deum nella chiesa della Madonna di Loreto per ringraziare della vittoria. Fu Papa Innocenzo XI poi ad attribuire la vittoria all’intercessione della Vergine, stabilendo un ex-voto con cui si istituiva la festa in onore del Santo Nome di Maria.
Il 25 novembre 1683, la festa fu estesa a tutta la Chiesa, e la Natività di Maria fu fissata per la domenica successiva. In seguito, San Pio X preferì poi ritornare alla data del 12 settembre, anniversario non della vittoria sui turchi, ma della sua celebrazione.
Su questa scia, Giovanni Paolo II ricostituì poi la festa per ricordare ai cattolici di invocare Maria per affrontare gravi pericoli internazionali.
Nel corso del suo pontificato, è sorprendente notare il numero di volte in cui Giovanni Paolo II ha invocato il nome di Maria e ha chiesto ai cattolici di pregare, soprattutto in un periodo di sviluppo del terrorismo internazionale. Il giorno dopo la strage dell’11 Settembre 2001, Papa Wojtyla, durante l’udienza generale del mercoledì, invocò infatti una preghiera per la pace affidando il mondo alla Madonna: “Preghiamo il Signore perché non prevalga la spirale di odio e violenza. Possa la Vergine Santa, Madre di misericordia, risvegliare nel cuore di tutti pensieri di saggezza e di intenzioni pacifiche”, disse il Santo Papa.
Anche durante la Messa a Frosinone di domenica 16 settembre, davanti a 40mila persone, il Pontefice incentrò la sua omelia sulla figura di Maria: “La Vergine – disse – rechi conforto e speranza anche a quanti soffrono a causa del tragico attentato terroristico, che nei giorni scorsi ha ferito profondamente l’amato popolo americano. A tutti i figli di quella grande nazione dirigo, anche ora – aggiunse – il mio pensiero accorato e partecipe. Maria accolga i defunti, consoli i superstiti, sostenga le famiglie particolarmente provate, aiuti tutti a non cedere alla tentazione dell’odio e della violenza, ma ad impegnarsi a servizio della giustizia e della pace”.
Nell’ottobre del 2001, mese del Rosario, poco tempo dopo l’attacco alle Twin Towers, Giovanni Paolo II esortò ancora una volta a pregare la Madre di Dio soprattutto attraverso la coroncina: “Il XXI secolo, nato sotto il segno del grande riconciliazione giubilare, ha purtroppo ereditato dal passato molti teatri di guerra e di violenza ancora attivi – affermò -. Gli sconcertanti attentati dell’11 settembre e tutto quello che è successo dopo nel mondo hanno aumentato la tensione a livello globale”.
Una situazione, quella internazionale, che portò il Santo Padre a convocare una nuova riunione interreligiosa per la pace ad Assisi, il 24 gennaio 2002, realizzando quello che poi passò alla storia come lo “Spirito di Assi”, ovvero una comune invocazione di pace da parte di tutti i rappresentanti delle religioni, e una condanna contro ogni violenza e terrorismo.
E proprio nel contesto di paura provocato dal terrorismo internazionale, dopo l’evento di Assisi, Wojtyla ripristinò infine, nel 2002, la festa del Santo Nome di Maria. In quello stesso anno, l’11 settembre, primo anniversario dell’attentato a New York, il Papa presiedette una preghiera universale di intercessione per le vittime della strage e le loro famiglie, e per la pace nel mondo. E in arabo, pregò “per i credenti di tutte le religioni, in modo che il nome di Dio, misericordioso e amorevole pace, rifiutino con fermezza ogni forma di violenza, in conformità con le diverse esperienze storiche, culturali, religiose”.
La devozione di Giovanni Paolo II al Nome di Maria fu proseguita poi dal suo successore Benedetto XVI. Il Papa emerito lo invocò per la conversione dei battezzati nell’Angelus del 12 settembre 2010: “Alla Vergine Maria, il cui nome più santo si celebra nella Chiesa di oggi, affidiamo il nostro modo conversione a Dio”, disse.
Nel 2007, durante l’Udienza generale del mercoledì, Ratzinger sottolineò invece il collegamento della festa del Nome di Maria con quella della Natività della Vergine, l’8 settembre. In particolare, rivolgendosi ai giovani, rammentò: “Sabato scorso abbiamo celebrato Festa della Natività della Vergine, e oggi ricordiamo il suo santo Nome. La celeste Madre di Dio, che ci accompagna durante tutto l’anno liturgico, guidi voi cari giovani sul sentiero di un’adesione al Vangelo ogni giorno più perfetta”.
Nel corso dei secoli, poi, sono stati numerosi i Santi che hanno invocato il Nome di Maria, a partire da Sant’Ambrogio (397) che scrisse: “Il tuo nome, o Maria, è un delizioso balsamo che si diffonde l’odore di grazia!”. Poi San Bernardo di Chiaravalle (1153) vide nella Vergine un rifugio in mezzo ad una guerra spirituale: “Il nome di Maria mette in fuga tutti i diavoli”, affermava. Anche San Bonaventura da Bagnoregio (1274) proclamò: “Il tuo nome è glorioso, Santa Madre di Dio! È glorioso il nome che è stato la fonte di tante meraviglie!”. E, in ultimo, il Beato Enrico Suso (1365) soleva esclamare: “O nome pieno di dolcezza! O Maria! Chi è dunque Lei, se il Vostro nome è già tanto amabile e talmente colmo di grazie?”.

 

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Matteo 18, 15-20

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Publié dans:immagini sacre |on 8 septembre, 2017 |Pas de commentaires »

XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (10/09/2017)

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Investire in fraternità

don Luciano Cantini

XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (10/09/2017)

Se il tuo fratello
Basterebbe la prima parola per aprire una riflessione infinita.
« Ogni uomo è mio fratello » è il titolo del messaggio che Papa Paolo VI° ha inviato per la giornata della pace del 1° gennaio 1971 che tra l’altro cita la dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo: «Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali nella dignità e nei diritti; essi sono dotati di ragione e di coscienza, e devono comportarsi gli uni verso gli altri come fratelli».
Purtroppo alle dichiarazioni di principio ritenute universali fanno seguito comportamenti opposti e correnti di pensiero che pongono limitazioni e distinguo stanno facendo breccia nel genere umano. Per Gesù, invece, la fraternità tra gli uomini è talmente forte che comprende anche coloro che ci sono nemici (Mt 5,44). L’altro, ogni altro fa parte di me. Io sono chiamato ad essere custode del mio fratello (Gn 4,9). È proprio la parola fratello che concede tutte le autorizzazioni per rompere ogni isolamento, sanare ogni interruzione di fraternità.
La preoccupazione di Gesù in questo testo non è tanto suggerire una tecnica per dirimere le questioni quanto aiutare a comprendere il senso della comunione come fondamento del vivere fraterno.
Vivere da soli può essere relativamente facile, vivere in comunità richiede sicuramente una capacità organizzativa del tempo e dello spazio, una capacità relazionale, di interazione tra le persone, ma ancor più è richiesto uno spirito di comunione.
Una o due persone
Nel testo è descritta un’azione progressiva fino al coinvolgimento di tutta la comunità. La comunione inizia sempre da un io e un tu che progressivamente si allarga fino a farsi carico l’uno dell’altro nella comunità. L’invito del Signore è nel prendere coscienza di una realtà che più modernamente oggi si chiamerebbe globalizzazione. Non c’è mai un fatto o un avvenimento totalmente privato, tutto interagisce anche inavvertitamente e tutti ne siamo coinvolti. “Nessun uomo è un’isola” è il titolo di un saggio del monaco pensatore Thomas Merton “Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo”.
Fa riflettere non poco un articolo che mostrava l’intima connessione con la crescente attività aggressiva del dittatore nord coreano e la soppressione da parte USA di Saddam Hussein (Damiano Serpi, il Sismografo, 5.9.17). Anche le guerriglie in Congo hanno come causa l’incremento della vendita dei cellulari nel mondo occidentale. Sappiamo bene come gli uragani sempre più pericolosi sono provocati dal un innalzamento della temperatura del globo da cui non è estraneo la mancata revisione della mia auto.
La storia, la natura continuano a raccontarci dei legami che ci allacciano l’uno all’altro, a noi è la scelta se viverli come catene da cui liberaci (ma sarà poi davvero possibile?), o come relazioni che ci aiutano a crescere.
Avrai guadagnato
Il senso di tutto questo insegnamento sta nella espressione avrai guadagnato il tuo fratello. Chi mai penserebbe che l’altro, riconosciuto come fratello sia un “guadagno”! Nella prospettiva, anche economica, di questo guadagno c’è bisogno di investire nella comunione, compiere ogni sforzo per realizzare concretamente la fraternità. Non si concede il perdono, non si fa l’elemosina all’altro, non si benefica nessuno, piuttosto si investe in fraternità per crescere insieme perché ognuno diventa ricco dell’altro.
D’accordo
La parola greca che viene tradotta con si metteranno d’accordo è la parola sumphoneo che richiama l’armonia delle diversità. Le corde di una chitarra accordata non emettono lo stesso suono, come gli strumenti di una orchestra sinfonica, ma ogni suono interagisce con l’altro ed entra in armonia se accetta e rispetta la diversità. Lontano da noi l’idea di un pensiero unico, omologato, normalizzato prodromo di ogni integralismo origine di violenza. La comunità della Chiesa capace di realizzare nella storia la presenza del Signore – lì sono io in mezzo a loro – mette la sua abilità nel farsi carico l’un l’altro del peccato, sa radunare ogni diversità per renderla sinfonica convergendola nella prospettiva evangelica.

 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 8 septembre, 2017 |Pas de commentaires »

Michelangelo, separazione della luce dalle tenebre

en e paolo MICHELANGELLO SEPARATION OF LIGHT FRO - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 6 septembre, 2017 |Pas de commentaires »

JOHN HENRY NEWMAN SU SAN PAOLO

https://www.ilcattolico.it/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/john-henry-newman-su-san-paolo.html

JOHN HENRY NEWMAN SU SAN PAOLO

di HERMAN GEISSLER

Per John Henry Newman l’evangelizzatore per eccellenza è san Paolo, «il glorioso apostolo, il più soave degli scrittori ispirati, il più commovente e il più attraente dei maestri». Newman ha dedicato quattro omelie interamente all’Apostolo delle genti, dove il tema non è tanto l’attività esteriore di Paolo, quanto i sentimenti e l’atteggiamento interiore che caratterizzano la sua opera evangelizzatrice. Nessuno può essere apostolo se non è stato afferrato dalla grazia di Dio. In un’omelia che risale al tempo in cui era ancora anglicano, Newman parla infatti dell’esp erienza della conversione di Saulo come dell’effettivo esordio del ministero di Paolo. Saulo è conosciuto come il capo dei persecutori dei cristiani e approva la lapidazione di Stefano che, morendo, prega per i suoi uccisori. In seguito, ottiene dai capi l’autorizzazione a mettere in prigione i discepoli della nuova «via» anche a Damasco.
Ma davanti alle porte della città viene «gettato a terra prodigiosamente e convertito alla fede, che perseguitava». La conversione di Paolo è prima di tutto una dimostrazione della potenza di Dio e del suo trionfo sul Nemico: «Per mostrare la sua potenza, la sua mano s’introdusse in mezzo alla schiera dei persecutori del suo Figlio e afferrò il più energico di essi». Allo stesso tempo, la conversione è frutto della preghiera di Stefano: «La preghiera del giusto può molto. Con l’aiuto di Dio, il primo martire ha avuto il potere di suscitare il più grande degli apostoli». Paolo è come predestinato alla missione presso i pagani, non solo per la sua scienza e per i suoi doni spirituali, ma anche per il suo cammino di fede e di conversione. La sua esperienza gli insegna a non farsi scoraggiare dalla gravità del peccato commesso, a saper trovare le scintille di fede nascoste negli uomini, a immedesimarsi nei più diversi tipi di tentazione, a utilizzare saggiamente le proprie esperienze per la conversione di altri. Certo, Paolo non è diventato un cristiano migliore a causa della colpa commessa, ma «essa lo rese più idoneo — in quanto convertito — a un determinato scopo della provvidenza di Dio, più idoneo, cioè, a convertire anche altri». Newman sottolinea che la vita di Paolo, prima della conversione, non era una vita immorale. Egli ascoltava la voce della coscienza e non si volgeva orgogliosamente contro Dio. La coscienza di Paolo però non era sufficientemente illuminata dalla sacra Scrittura, come lo fu, ad esempio, per Simeone e Anna, che a partire dalle Scritture hanno riconosciuto Gesù come il salvatore che attendevano. Paolo, invece, non ha riconosciuto il messia ed è diventato così un persecutore dei cristiani. Che conseguenze trae Newman da queste riflessioni per il singolo cristiano? Ogni credente «deve nutrire e seguire la santa luce della coscienza, come fece Saulo. Deve studiare accuratamente le Scritture, come non fece Saulo. Dio, che ha avuto misericordia perfino con il persecutore dei suoi santi, effonderà certamente la sua grazia su ogni cristiano, e lo condurrà alla verità che è in Gesù». Come Newman mostra nell’omelia intitolata Il dono caratteristico di san Paolo, l’Apostolo delle genti fa parte dei santi «in cui il soprannaturale non si sostituisce alla natura, ma si combina con essa e la rinvigorisce, la eleva, la nobilita. «Costoro non sono meno uomini per il fatto che sono santi». In questa omelia, che Newman tiene nella chiesa universitaria di Dublino alcuni anni dopo la sua conversione alla Chiesa cattolica, si chiede quale sia la caratteristica che distingue l’ap ostolo dagli altri santi. Secondo lui Paolo si caratterizza soprattutto per il fatto che la pienezza dei doni divini non distrugge, ma perfeziona quanto di umano è in lui. Perciò Paolo comprende particolarmente bene l’uomo con tutte le sue forze e debolezze, le sue tentazioni e aspirazioni: «La natura umana, cioè, la natura che tutta la stirpe d’Adamo ha in comune, parlava, agiva in lui, era presente in lui in tutta la sua forza, con una pienezza, direi, corposa: sempre sotto la guida sovrana della grazia divina, ma senza perdere alcunché della sua effettiva libertà e del suo potere a causa di tale subordinazione. Ed è proprio perché la natura dell’uomo si manifesta in lui con tanto vigore che san Paolo riesce a penetrare così a fondo nella natura umana, che riesce a simpatizzare così profondamente con essa, per un dono che è caratteristicamente suo». Paolo si sente solidale con i suoi simili, con tutta la stirpe di Adamo. È consapevole di essere in possesso di una natura compromessa con tutta la gamma di emozioni, inclinazioni, intenzioni, di peccati che caratterizzano la vita dell’uomo nel mondo. In questo senso Paolo, sulla scia del Signore, porta su di sé il peccato di tutti gli uomini e si sente in piena comunione con loro. Egli non punta il dito sull’altro, perché è consapevole che il peccato e la cupidigia sono presenti anche in lui. È un grande conoscitore della natura umana «perché — attraverso la propria natura che la grazia aveva santificato — egli aveva compreso vividamente che cosa fosse la natura priva della grazia, nelle sue tendenze e nei suoi effetti». L’apostolo mostra il suo amore per la natura umana anche perché non esita a ricorrere ad autori pagani. Newman si riferisce a tre noti brani di alcuni scrittori greci che Paolo cita. Innanzi tutto, sull’A re o -pago di Atene, quando fa riferimento all’iscrizione di un altare che dice: «Al Dio ignoto» (Atti degli apostoli, 17, 23). Poi quando rammenta una parola del poeta Menandro: «Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi» (1 Corinzi, 15, 33). E dove viene citato il filosofo Epimenide: «I cretesi sono sempre bugiardi, brutte bestie e fannulloni» (Ti t o , 1, 12). Perché queste citazioni di autori pagani? Newman risponde che Paolo «è un vero innamorato delle anime: ama questa nostra povera natura umana di un amore profondamente appassionato. La letteratura dei greci è l’espressione di questa natura, sulla quale l’ap ostolo si curva con tenerezza e con dolore, desiderando la sua rigenerazione, sperando la sua salvezza». Il piano di salvezza di Dio comprende tutti i popoli. Così come san Paolo insegna «che i pagani sono nelle tenebre e in potere del Maligno, altrettanto chiaramente insegna che lo sguardo della divina misericordia si posa su di loro». L’ap ostolo ha un cuore accogliente perché è convinto che Dio vuole la salvezza di tutti. Un’altra omelia tenuta poco dopo, sempre nella chiesa universitaria di Dublino, si intitola Il dono di simpatia di san Paolo. Newman mostra con quale affetto l’apostolo tratta i suoi fratelli e sorelle nella fede e mette in risalto la suahumanitas, «una virtù che nasce dalla grazia soprannaturale di lui, ed è coltivata per amore di lui, nonostante che ne sia oggetto la natura umana in se stessa, nel suo intelletto, nei suoi affetti e nella sua storia. Questa è la virtù che io considero caratteristica di san Paolo al massimo grado; spesso l’inculca egli stesso in persona nelle sue epistole, come quando comanda viscere di misericordia, di benignità, di gentilezza e simili». Newman sottolinea che Paolo è così pieno d’amore per gli altri che «nel tenore dei suoi pensieri d’ogni giorno, perde quasi di vista i doni e privilegi suoi, il suo stato e la dignità, a meno che non sia forzato a ricordarli per dovere», come «un fragile uomo che parla a fragili uomini; ed è tenero verso il debole, per il sentimento che ha della debolezza propria». Paolo sa che non solo gli altri hanno bisogno della misericordia di Dio, ma lui stesso per primo. L’apostolo parla spesso delle sue lotte (cfr. 2 Corinzi, 1, 8), dei suoi timori e battaglie (cfr. 2 Corinzi, 7, 5), della spina nella sua carne (cfr. 2 Corinzi, 12, 7), delle sue lacrime e delle sue prove (cfr.Atti degli apostoli, 20, 18-19). Perché Paolo fa vedere con tanta franchezza e naturalezza le sue debolezze? Newman spiega: un uomo che sa spogliarsi della sua grandezza e si sa mettere a livello dei suoi fratelli mostra una profonda condivisione della natura umana; un uomo che parla con semplicità e comunica le sue emozioni è in grado di sentire e manifestare un grande amore per gli uomini e allo stesso tempo di farsi a m a re . Paolo vive in comunione con il suo amato Signore e allo stesso tempo è sempre sensibile ai sentimenti delle persone che lo circondano. Newman vede in questo l’essenza dell’umanità del cuore di Paolo: «Stupendo a dirsi, lui che trovava il suo riposo e la sua pace nell’a m o re di Cristo, non era soddisfatto senza l’amore dell’uomo; la maggiore ricompensa la poneva nell’a p p ro v a z i o -ne di Dio, e tuttavia cercava l’a p p ro -vazione dei suoi confratelli. Dipendeva esclusivamente dal Creatore, eppure sottometteva se stesso alla creatura. Pur possedendo quel che è infinito, non si esonerava dal finito. Amava i suoi confratelli, non soltanto “per amore di Gesù”, volendo usare l’espressione sua, ma anche per amor loro. Viveva in loro; sentiva con loro e per loro; era ansioso per loro, li aiutava, e in cambio se ne riprometteva dell’incoraggiamento. La sua anima assomigliava a quegli strumenti musicali, come l’arpa e la viola, le cui corde entrano in vibrazione, benché non toccate, dalle note che emettono gli altri strumenti; e sempre, secondo il suo stesso precetto, “godeva con quelli che godevano, piangeva con quelli che piangevano” (Romani, 12, 15); riuscendo così il meno magistrale di tutti i maestri, e il più gentile e il più amabile di tutti i superiori». Particolarmente forte è il legame di Paolo con i suoi amici e collaboratori: uomini e donne, coppie e famiglie. Newman ne è profondamente toccato e scrive: «Paolo è il predicatore particolarissimo della grazia divina, ed è insieme l’amico singolare e intimo della natura umana. Rivela a noi i misteri dei decreti supremi di Dio, e al tempo stesso manifesta l’interesse più sviscerato per le singole anime». L’apostolo ha un grande cuore, pensa al mondo intero e prega per tutti. Ma allo stesso tempo con amore si immedesima in ogni singola persona. Questo sentimento di Paolo spiega bene la sua indignazione di fronte alla gelosia, l’invidia e le rivalità esistenti nelle comunità cristiane. Considera vergognosi questi atteggiamenti e irriverenti non solo nei confronti di Cristo, ma anche nei riguardi della comune natura umana che conferisce a tutti la medesima dignità. Paolo amava così tanto gli uomini che «simpatizzava con loro, dovunque e comunque fossero; e sentiva come una misericordia speciale, trasmessa a loro tramite il Vangelo, il fatto che la natura umana da quel momento in poi fosse stata riconosciuta e redenta in Gesù Cristo. Lo spirito partigiano era quindi puramente e semplicemente all’opp osto dello spirito dell’apostolo, costituiva un gran peccato per lui». Nelle brevi note di un’omelia del periodo cattolico tenuta a braccio su san Paolo come modello della Chiesa missionaria Newman afferma che Paolo era soprattutto un seminatore della parola: «Seminò in tutti i paesi». Ed era anche un campione, non solo come David contro Golia, ma «contro il mondo». Quest’azione sarà continuata dalla Chiesa in ogni luogo e in ogni tempo e Paolo ne è il modello per eccellenza di questo: egli lotta nella fede contro gli zeloti del giudaismo (cfr. Atti degli apostoli, 23, 12) e contro i fanatici del paganesimo, come mostra la rivolta degli argentieri di Efeso (cfr. Atti degli apostoli, 19, 23-40). Deve confrontarsi con gli indifferenti, per esempio con il governatore Festo, che lo dichiara pazzo (cfr.At t i degli apostoli, 26, 24), o con i filosofi greci sull’Areopago, che, dopo il suo discorso sulla risurrezione lo deridono e gli dicono che lo avrebbero ascoltato un’altra volta (cfr.Atti degli apostoli, 17, 32). Newman applica questi esempi alla sua epoca: la Chiesa, nell’Inghilterra dell’Ottocento, doveva combattere, da una parte, contro coloro che disprezzavano Roma come Anticristo e, dall’altra, contro l’i n d i f f e re n z a e lo spirito mondano che cercava di adattare la fede al pensiero corrente. Ma Newman non è in alcun modo pessimista; al contrario, è pieno di fiducia, perché vede nella fede la grandezza e l’unità della Chiesa di tutti i tempi: «Questa ammirabile unità della Chiesa è la nostra consolazione». Ciò mostra che «la Chiesa viene da Dio» e «nulla le capita di strano». Per tutti i membri della Chiesa vale il principio: «Nostra cura sia seminare, combattere e lasciare il resto a Dio».

Osservatore Romano – 10 agosto 2014

La gioia cristiana

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Publié dans:immagini |on 4 septembre, 2017 |Pas de commentaires »

L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, E’ FONTE DI GIOIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/2002-2003/02-Doni-Spirito-Santo-amore-e-gioia.html

L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, E’ FONTE DI GIOIA

La verità, enunciata nel titolo, traspare in modo chiaro da Gv 15,9-12: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato. Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
La gioia, anche quella semplicemente umana, nasce dall’amore. Secondo il brano citato si tratta di un “amore diffusivo”: dal Padre al Figlio, dal Figlio ai discepoli e da ogni discepolo agli altri discepoli. Dell’amore del Padre e del Figlio se ne parla al passato, perché davanti alla comunità c’è oramai il Cristo-risorto; la sua risurrezione è il segno tangibile di una vita spesa nell’amore del Padre e del prossimo. Dell’amore dei discepoli, invece, si parla al presente: Rimanete. Il presente dice continuità: rimanete, perseverate nel mio amore che è già in voi, perché è l’amore che rende bello e possibile il mutuo “rimanere in”, è l’amore che crea l’atmosfera della comunità cristiana che potremmo definire come un entusiasmo, un mutuo infervorarsi nella donazione totale degli uni agli altri. Di qui l’inevitabile gioia, una gioia che deve farsi piena.
Che cos’è la gioia?
La definizione più bella è questa: “armonia con se stessi”, un sentirsi, un essere presenti a se stessi; è la scoperta di sentirsi soddisfatti. La vera gioia è uno stato d’animo, una realtà spirituale; è legata al nostro spirito, al nostro intimo; essa offre alla nostra esistenza un’alta ragione di essere: dà senso al nostro vivere. La vera gioia non può essere racchiusa in noi come in un cassetto. Se è vera e profonda, è anche diffusiva e non può restare nascosta. Traspare dagli occhi, dal volto e viene intuita da chi ci è vicino. La vogliamo definire meglio? Chiamiamola serenità di spirito. Solo così la possiamo distinguere dalle gioie passeggere e false, dalle gioie che non fondano la comunione. È falsa la gioia di chi si rallegra del male altrui (Sal 35,15), di chi giudica felicità il piacere di un giorno (2 Pt 2,13); è passeggera ogni gioia puramente umana (Ger 25,10). Più bella e profonda è la gioia della festa, soprattutto quella in cui, nel culto, si esprime in forma di giubilo il nostro rapporto con Dio.
Ascoltiamo un testo meraviglioso: “Gioiscano i cieli, esulti la terra, rombi il mare e quanto contiene, esplodano di gioia tutti gli alberi della foresta davanti al Signore che viene…” (Sal 96,11-13a). Non è una gioia isolata questa; è il popolo che esplode di gioia davanti al suo Dio e vuole coinvolgere nella gioia la creazione intera. È una gioia cosmica, pura, festosa, una gioia che si fa “rombo”, cioè esultanza rumorosa; è l’esplosione di tutto l’essere in una danza cosmica, è l’esplosione di una gioia pura e totale, un inno di giubilo che sale da tutto l’essere a Dio. Quando si prega e si loda Dio, tutto il mondo appare sotto un aspetto meraviglioso e ogni cosa mi dice che esiste solo per l’uomo e testimonia così l’amore di Dio per me. C’è gioia perché il Signore viene, perché Dio entra solennemente nella storia con lo scopo di ricostruire un nuovo cielo e una nuova terra. È una gioia che dice la speranza della totale salvezza.
Muoviamoci in questo campo puramente religioso, perché è qui dove il credente fa esperienza di vera gioia, di una gioia che può farsi piena. Per ottenerla bisogna vivere il “martirio della speranza”. Se guardiamo la storia umana, ci accorgiamo che bisogna sempre andare contro corrente per avere il coraggio di una gioia vera, per vivere una vita serena, malgrado ogni difficoltà.
Gioia e sofferenza
È un binomio inevitabile, e ne possiamo parlare con serenità solo se fissiamo lo sguardo su Gesù, riunito con i suoi discepoli nel Cenacolo. È lì che ha pronunciato le parole che abbiamo letto all’inizio; ci ha invitato a vivere nell’amore e ha concluso dicendo: “Che la mia gioia sia in voi e che la vostra gioia sia (diventi) piena” (Gv 15,9-11). Era la vigilia della sua passione, la notte in cui venne tradito, in cui percepiva che l’odio dei suoi nemici si sarebbe scatenato su di lui e che avrebbe sommerso i suoi discepoli nella tristezza. Non poteva non soffrire. Eppure parla di gioia. È così che si è soliti tradurre la parola greca charà, ma lasciate che la renda con serenità. Si riesce meglio a unirla con la parola sofferenza e a sentirla come un dono che emana dall’amore che è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo.
È impressionante la serenità con cui Gesù ha vissuto la sua Passione. Quando nel tempio sente dire che alcuni Greci desiderano vederlo, Gesù capisce che è giunto il momento in cui la sua missione deve aprirsi all’universalità; per questo dice: “È giunta l’ora in cui il Figlio dell’uomo deve essere glorificato”. Parla in termini di gloria, anche se sa che “il chicco di grano deve morire prima di produrre molto frutto” (Gv 12,20-24). Lo stesso avviene quando Giuda, ormai deciso al tradimento, lascia il Cenacolo. Gesù dice: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui”. Parla al passato come se già tutto fosse avvenuto, ma subito passa al futuro, perché aggiunge: “Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà e lo glorificherà subito” (Gv 13,31-32). Gesù sa che la sofferenza sarà breve; il presente è orribile perché significa “morte”, ma Gesù, nella speranza, sa andare oltre il triste presente per guardare al futuro: “Io vado al Padre”. E questo che gli dà serenità, perché ha la certezza che, malgrado tutto, porterà a compimento la sua missione. È l’unione con il Padre che lo rende sereno: egli sa che il Padre non lo lascerà solo (16,32).
In questa situazione guarda i suoi discepoli e li invita alla gioia dicendo: “Se mi amaste vi rallegrereste che io vado al Padre” (Gv 14,28). Con queste parole Gesù vuole coinvolgere i discepoli nella sua gioia. Sa che non riescono pienamente a capire quello che sta avvenendo, che il presente è anche per loro colmo di tristezza, ma sa che la loro tristezza, si cambierà in gioia. Infatti dice loro: “Ora siete tristi, ma io vi rivedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22s). Questa loro gioia scoppierà nel giorno di Pasqua. Lo racconta Giovanni quando scrive: “I discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20), e Luca racconta che quando Gesù ascese al cielo “Essi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”, e nel Cenacolo, pregando con Maria, si prepararono all’annuncio della salvezza: la gioia del Signore era in loro (Lc 24,52).
Gioia e sofferenza nella vita cristiana
La vita cristiana è il riflesso della vita di Gesù in noi; perciò quello che Gesù ha vissuto anche i discepoli lo hanno vissuto
e i cristiani lo vivono in continuità. Chi vive con franchezza e con sincerità la vita cristiana si accorge presto quanto sono ve-
re le parole di Gesù:
“Se il mondo vi odia sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18); “Beati voi quando vi odieranno, vi metteranno al bando e vi insulteranno per causa mia. Rallegratevi, saltate di gioia in quel giorno perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Lc 6,22s).
La realtà di queste parole la vissero in pienezza gli apostoli. Si racconta negli Atti che Pietro e Giovanni, dopo essere stati incarcerati, insultati e percossi, “uscirono gioiosi per essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù ” (At 5,41). È l’unione con Gesù che dà loro un senso di gioia e serenità nello svolgimento della loro missione. Paolo per esprimere questo vincolo di comunione con il Signore, usa per tre volte la formula: gioire nel Signore (Fil 3,1; 4,4.10). Paolo è in carcere quando dice questo, eppure gioisce e vuole continuare a gioire anche quando sa che Cristo viene annunciato da chi non gli vuole bene, perché a lui basta sentire che Cristo viene annunciato (Fil 1,8). Come nel Cenacolo Gesù ha invitato i discepoli a gioire, anche Paolo invita i fedeli, che pure hanno avuto “la grazia di soffrire per Cristo”, non solo a gioire, ma a congioire con lui”: “Se anche il mio sangue dovesse essere versato in sacrificio gioisco e congioisco con tutti voi; e anche voi gioite e congioite con me” (Fil 2,17-18). E non si tratta di una gioia passeggera. Dice infatti: “Rallegratevi sempre nel Signore; ve lo ripeto, rallegratevi”. Paolo gioisce nella sofferenza, gioisce nel Signore, gioisce perché il Vangelo viene annunziato e vuole che questa gioia sia comunitaria. La gioia che viene dal Signore dev’essere condivisa, deve coinvolgere altri, il mondo intero: “La vostra amabilità (bontà, dolcezza) sia nota a tutti” (Fil 4,5). Quando in una comunità cristiana sentiamo che qualcuno ha fatto qualcosa di bello, non hanno senso le gelosie, che annullano la comune gioia. Il bene di uno è il bene di tutta la comunità.
La vera gioia, infatti, cioè la gioia cristiana è intrisa di amore, di quell’amore che è frutto dello Spirito e perciò è una gioia diffusiva, una gioia vissuta insieme nella speranza. Paolo dice: “Il Signore viene”. Noi siamo gente che vive nell’attesa del Signore, perché solo quando egli verrà la gioia sarà davvero piena. Per questo ai Filippesi che sono nella sofferenza dice: “Non angustiatevi!”. Lo ha detto anche il Signore ai suoi discepoli nel Cenacolo. È dalla mutua comunione nel Signore che nasce nel singolo e nella comunità quel senso di serenità e di pace che solo il Signore può dare.
Come posso possedere questa gioia? Amando! Cioè amando gli altri come Gesù ci ha amati, vivendo in una totale donazione agli altri senza cercare gratificazioni di sorta. Quando nella fede e in comunione con Gesù mi dono, da questo amore nasce la vera gioia e la nostra vita, anche nei momenti difficili, sprigiona quel senso di serenità che coinvolge tutti e la gioia, dono del Signore, diventa apostolica. La gioia che emana dall’amore, non si impone, si comunica insensibilmente. Non posso presentarmi a uno che soffre scoppiando di gioia e parlando con entusiasmo della mia felicità. Tutto questo non ha senso per chi soffre. Se voglio comunicargli la mia serenità debbo prima condividere la sua sofferenza, lasciare che si sfoghi, stringergli a lungo e in silenzio la mano, fargli sentire che gli voglio bene. Allora, se io sono davvero una persona serena, il sofferente sentirà la dolcezza di essersi incontrato con me nel Signore e sperimenterà un senso di sollievo e serenità e lo percepirà come dono del Signore, come presenza del Signore. Debbo infatti comunicargli quella gioia che Gesù chiama “la mia gioia”.
La Vostra gioia sarà piena
La vera gioia guarda alle esperienze liete del passato solo per lodare e ringraziare il Signore e se, nel presente, sentiamo in comunione con lui serenità e gioia anche nei momenti difficili della nostra testimonianza, mettiamoci in atteggiamento di grazie e di lode. La pienezza della gioia però è sempre nel futuro. Il vero discepolo non volge mai indietro lo sguardo; egli vive nell’attesa gioiosa del suo Signore. È lui che ci ha comandato di gioire. Dopo aver parlato del suo ritorno con quadri che infondono paura a tutti, si rivolge ai suoi discepoli e dice: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi, levate il capo e gioite perché è vicina la vostra salvezza” (Lc 21,28). Il “gioite” non è nel testo, ma lo si deve aggiungere se si vuole rendere bene il pensiero. Quando si ama qualcuno si gioisce se ci avvisano che sta per venire. Ebbene, tale è la gioia di chi aspetta il ritorno del Signore. Egli sa che viene per accoglierci e immergerci nell’amore del Padre per sempre. Solo allora la gioia sarà perfettamente piena. Sarà una felicità senza fine, perché ci sentiremo perfettamente realizzati.
Preghiamo
Signore Gesù, sto scrivendo questi pensieri, contemplando un mondo in guerra e parlo con te che hai detto: “Chi colpisce di spada di spada morirà”. Tu hai rifiutato l’uso della spada, hai lasciato che camminassero sul tuo sangue, tu non hai voluto camminare sul sangue degli altri; ci hai insegnato, con il tuo esempio la vera via della pace. Essa esiste solo quando siamo in comunione con te. Ora la guerra semina morte, lutto, tristezza; sprofonda il mondo in una notte oscura, scava abissi immensi fra i popoli e le culture. Signore, a noi che crediamo in te, dona in questi terribili momenti della storia la tua gioia, quella che nasce dall’amore di tutti, anche dei nemici e fa’ che possiamo riempire il mondo della tua gioia. Mentre nel mondo l’odio dilaga, dona a noi, tuoi discepoli, di credere contro ogni speranza e fa’ che possiamo costruire un mondo nuovo. Donaci la tua gioia e fa’ che la nostra serenità sia contagiosa affinché in tutti nasca la speranza di una vera riconciliazione e tutti si aprano alla tua pace. Amen!

Mario Galizzi SDB

 

Publié dans:MEDITAZIONI |on 4 septembre, 2017 |Pas de commentaires »
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