Matteo 18, 21-35

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L’igiene del cuore
dom Luigi Gioia
XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (17/09/2017)
Rancore e ira sono cose orribili e il peccatore le porta dentro. Chi di noi non è mai stato preda del rancore o del risentimento? Sono sentimenti che ognuno di noi conosce purtroppo bene. La mia percezione dell’altra persona cambia totalmente, vedo solo il male che mi ha fatto o che credo mi abbia fatto, non riesco più a guardarla con un occhio positivo. Non riesco più neanche a capire come ho potuto in passato intrattenere una relazione cordiale con questa persona. Un velo ricopre i miei occhi. Voglio solo evitarla, non vederla e, se potessi, la cancellerei totalmente dalla mia esistenza.
Rancore e risentimento sono un veleno: una sola goccia basta a rendere amara tutta l’acqua che beviamo. Questa amarezza invade progressivamente tutto il nostro organismo ed i suoi effetti sono anche somatici: il volto diventa duro e si chiude; al pensiero dell’altro ho un peso sullo stomaco, un senso di oppressione nel petto. Quante delle nostre malattie non sono le conseguenze di amarezze rimasteci dentro ad avvelenarci. Questo sottolinea il passaggio del libro del Siracide citato in apertura: Rancore e ira sono cose orribili e il peccatore le porta dentro. Le portiamo dentro e lì ci corrodono e ci ossessionano.
Come possiamo diventare preda di tali sentimenti, come riescono ad invaderci in questo modo? La Parola di Dio ci offre una chiave per decifrare questo meccanismo nella storia di Caino e Abele.
Caino presenta i frutti del suolo come offerta al Signore mentre Abele offre i primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore, inspiegabilmente, gradisce l’offerta di Abele ma non quella di Caino. Quest’ultimo ne è molto irritato e il suo volto – dice il libro della Genesi – era abbattuto, rancore e ira invadono il suo cuore. Non capisce bene cosa gli stia succedendo, né come possa arrivare a provare astio per il proprio fratello. Lasciato a se stesso è prigioniero di questi sentimenti. Ecco però che il Signore interviene, lo interpella Perché sei irritato? Perché è abbattuto il tuo volto? Perché è pesante il tuo cuore? Perché questo velo sopra i tuoi occhi?. Il nostro cuore è ferito. L’amore umano porta in sé una tragica contraddizione: più ci si ama, più è grande il rischio di ferirsi reciprocamente. Senza volerlo, spesso causiamo più dolore proprio alle persone che più amiamo: genitori, figli, fratelli, sorelle, marito, moglie, partner, amici.
Pensavamo di fare del bene e invece, senza volerlo, spesso senza accorgercene, abbiamo suscitato nell’altro una reazione di paura, di difesa, di fuga che sfocia nel rancore, nel risentimento e nell’amarezza, questi istinti di protezione che abbiamo in comune con gli animali. Nascono spesso come una maniera di proteggerci, ma vanno gestiti. Questi istinti, come dice il Signore a Caino, vanno dominati. L’esperienza ci mostra purtroppo quanto questo sia difficile, a volte impossibile. Più cerchiamo di combatterli, più continuano ad assalirci.
Antoine de Saint-Exupéry, ne Il piccolo principe, racconta di questo bambino che visita una serie di piccolissimi pianeti, su ognuno dei quali vive una persona con cui egli intesse un dialogo e da ognuna delle quali riceve una lezione di vita. Su uno di questi pianeti vi erano nel suolo dei semi di baobab, questi giganteschi alberi africani. Se questi semi di baobab avessero preso radici, ad un certo punto avrebbero penetrato il suolo così profondamente che sarebbe stato impossibile sradicarli. Crescendo allora a dismisura avrebbero finito per disintegrare il piccolo pianeta. La lezione che ne trae il bambino è che tutte le mattine occorre fare pulizia sul proprio piccolo pianeta per estirpare subito i semi di baobab che hanno cominciato a germogliare. Tale insegnamento può sembrare moralizzatore, semplicista, ma riguardo al nostro tema contiene una verità preziosa. Rancore, risentimento, gelosia vanno combattuti sul nascere. Se li trascuriamo o peggio se li alimentiamo, prendono radice nel nostro cuore e ad un certo punto diventano come queste radici secolari alle quali niente resiste e che possono dissestare le fondamenta di un edificio.
La parola di Dio ci offre delle istruzioni preziose per questa operazione di pulizia quotidiana. I germogli di collera, di ira, di risentimento, gli istinti di morte che costantemente nascono nel nostro cuore, vanno estirpati grazie prima di tutto alla preghiera. Nel cuore della Padre nostro vi è la domanda rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questa preghiera provvede all’igiene del cuore. Ci obbliga quotidianamente a pensare alle persone che ci hanno fatto del male o dalle quali ci sentiamo minacciati e a chiedere al Signore la grazia di aiutarci a perdonarle, cercando di ripetere con Gesù: Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno.
A volte nelle relazioni personali è opportuno prendere una certa distanza, per evitare che il conflitto peggiori o per dare al cuore il tempo di cui ha bisogno per trovare la giusta distanza e per riappacificarsi. Ma abbiamo il dovere di non rassegnarci mai a questi sentimenti, di continuare a bussare quotidianamente nella preghiera, di presentare al Signore la nostra incapacità di perdonare, e chiedere a lui la grazia di far sbocciare il perdono autentico nel nostro cuore. Chiedere a lui la grazia di creare le occasioni perché le incomprensioni che ci dividono dal prossimo possano dissolversi e la pace possa tornare a regnare tra di noi.
http://www.ansdt.it/Testi/Icone/Clement/
PICCOLA INTRODUZIONE ALLA TEOLOGIA DELL’ ICONA
OLIVIER CLÉMENT
Nella tradizione « ortodossa », l’icona fa parte integrante della celebrazione. Si tratta di un’arte liturgica che non può essere isolata dal suo contesto ecclesiale: la Scrittura e il suo ampio com- mentario innografico, ricco di dottrina e di spiritualità.
Le immagini (icona, eikôn in greco, significa immagine) sono apparse molto presto nel mondo cristiano: si conosce l’arte delle catacombe, arte funeraria piena della gioia della risurrezione. Ma quest’arte riprende la sua tecnica dall’arte romana o ellenistica del suo tempo e si limita a cristianiz- zarla tramite il gioco dei segni e dei simboli. A partite dal IV e dal V secolo appare l’icona che inclu- de i simboli nei volti, mentre la teologia trinitaria include l’essere nella comunione.
Tuttavia una corrente ostile alle immagini persiste nel cristianesimo, attinge argomenti di inter- dizione nell’Antico Testamento e nella paura (talvolta giustificata) dell’idolatria, spingendosi fino a uno spiritualismo dematerializzante: Altro argomento contro le immagini è il carattere pan-umano di Cristo, da cui l’impossibilità di rappresentarlo.
La crisi esplode intorno al 726 e va avanti fino all’843. Alcuni imperatori energici, strappando lo Stato dal caos che si era creato. ingaggiano una lotta contro il monachesimo il quale, di fatto, limi- ta il loro potere e sembra compromettere la vita sociale. Profezia del Regno di Dio, testimonianza di un Signore crocifisso, l’ideale monastico si inscrive nell’icona. Un’ampia politica di secolarizzazio- ne appoggiata dall’esercito e dai teologi spiritualisti diventa allora iconoclasmo.
La crisi ha permesso di fondare e di purificare la venerazione delle sacre immagini. Contro una concezione puramente speculativa della trascendenza, la Chiesa sottolinea che il Dio vivente tra- scende la sua stessa trascendenza per rivelarsi in un volto d’uomo. L’icona per eccellenza, quella di Cristo, si giustifica con l’Incarnazione, anche perché il Figlio non è solo la Parola, ma anche l’Immagine (consustanziale) del Padre, « fonte della divinità ». « Nei tempi antichi – scrive san Gio- vanni Damasceno – Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto » (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano le sacre immagini, I, 16, tr. it. di V. Fazzo, Roma 1983, p. 45). Perché, così come il Verbo si è fatto carne, la carne si è fatta Verbo. Il Damasceno respinge l’obiezione di chi considera la materia indegna e sottolinea che la grazia, in Cristo, ha penetrato la materia e ha liberato la sua potenziale sacramentalità. « Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia… Venero la materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina » (Ibid. pp. 45-46).
Così, « quando colui che è immenso e sussistente nella forma di Dio si è invece ristretto alla misura e alla grandezza, dopo aver preso la forma di schiavo… riproduci la sua forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di essere visto. Di lui riproduci l’inesprimibile condiscendenza… » (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. I, 8, ibid., p. 37).
Questo è l’argomento fondamentale da Dionigi l’Areopagita a Teodoro Studita: in Cristo l’invi- sibile si fa vedere perché il Segreto è anche Amore. Antinomia che doveva sistematizzare nel XIV secolo san Gregorio Palamas, per il quale Dio è totalmente inaccessibile – essenza o sovraessenza – eppure si rende totalmente partecipabile nelle sue « energie ».
Da qui l’importanza nella teologia dell’icona del tema della trasfigurazione e dell’immagine « non fatta da mano d’uomo ».
«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte » (la tradizione ha precisato che si trattava del Tabor). « E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce ». Una variante dice: « come la neve » (Mt 17,1-2). Luca precisa: « candida e sfolgorante » (9,29).
Quando un cristiano, monaco o laico non importa, accede al ministero di iconografo, il sacer- dote recita su di lui l’essenziale dell’ufficio della Trasfigurazione. I teologi dell’icona non hanno cessato di commentare i testi evangelici consacrati a questo episodio. Dice Atanasio il Sinaita: « Cosa c’è di più sconvolgente di vedere Dio nella forma di un uomo, il volto risplendente, radian- te più del sole? » (Omelia sulla Trasfigurazione, PG 84, 1376).
In Cristo, d’altra parte, il tempo è ricapitolato e l’icona implica memoria e anticipazione, una sorta di visione che guida la mano dell’artista. « Cristo stesso ha trasmesso la sua immagine alla Chiesa », scriveva all’inizio della crisi iconoclasta Giorgio di Cipro (Nouthesia, ed. Mélioniransky, p. XXIII). La memoria di questo volto – il Santo Volto – è evocata da due racconti significativi: in occidente, quella del velo con cui Veronica (da vera in latino e eikôn, « immagine », in greco) avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la Via Crucis; in oriente, quella del Mandylion, un velo anch’esso, sul quale Gesù avrebbe volontariamente impresso la sua immagine rispondendo al desiderio del re Abgar di Edessa, ammalato. Effettivamente qualche cosa è stata scoperta ad Edessa nel VI secolo e trionfalmente portata a Costantinopoli nel 944, qualcosa che ha precisato fin nei particolari la rappresentazione di Cristo. Un sudario forse, di cui non si può dire esattamen- te che legame avesse con la Sindone di Torino, tanto studiata oggi. Più ampiamente il Volto di Cristo è detto acheropita, « non fatto da mano d’uomo », così come Maria concepisce in modo verginale, perché la mano dell’artista, se questi si è preparato con la preghiera e il digiuno, è gui- data miracolosamente dallo Spirito (cfr Giorgio di Pisidia, Poemi, in « Studia Patristica et Byzan- tina », 1960, p, 91).
La proibizione di rappresentare Dio (nell’Esodo e nel Deuteronomio) non vale più non solo per Cristo. Non vale neanche per sua Madre, per i suoi amici, le membra dei suo Corpo sacramentale. L’uomo creato « ad immagine » di Dio è predestinato a diventare « conforme all’immagine del Figlio suo » (Rm 8,29), « trasformato in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore » (2 Cor 3,18). Egli si deve rinnovare sempre « all’immagine del suo Crea- tore » (Col 3,10). Fondata nell’incarnazione del Figlio eterno, l’icona si moltiplica tramite la santi- ficazione degli uomini nello Spirito: le icone della Madre di Dio e del santi anticipano la trasfigura- zione finale: « quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria » (Col 3,4).
È quanto riassunte meravigliosamente il ritornello liturgico (kontakion) della Domenica del- l’Ortodossia, prima domenica di Quaresima in cui la Chiesa celebra solennemente il ristabilimento definitivo del culto delle sacre immagini nel 843: «L’incircoscrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato circoscritto, e, riportata all’antica forma l’immagine deturpata (cioè l’uomo), l’ha fusa con la divina bellezza» (tr. it. Anthologhion II. Roma 2000, p. 596).
I teologi dell’icona hanno chiaramente distinto l’icona dall’idolo, sottolineando che l’icona non pretende affatto di afferrare colui (o colei) che rappresenta: « immagine artificiale », l’icona non è in niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene all’ordine magico del possesso, ma all’ordine propriamente cristiano della comunione. Non rientra nella categoria del sacramento in cui la maceria riceve una forza santificante, ma rimanda alla categoria della relazione, di un incon- tro interpersonale. Il prototipo, che è divino-umano (Cristo) oppure l’umano deificato (il santo) sfugge ad ogni opacità, separazione. Al contrario si rende presente e accogliente nell’immagine che rappresenta la sua « somiglianza ». La presenza iconica è dunque una trasparenza personale, « secondo la somiglianza dell’ipostasi » (Teodoro Studita, Antirrheticus II, 3,1), cioè della persona allo stesso tempo unica e in comunione. L’icona permette l’incontro degli sguardi (da cui l’impor- tanza della pupilla dell’occhio, [Strana coincidenza: Guillaume Apollinaire nella poesia "Zone" all'inizio della Raccolta Alcools scrive: « Pupilla, Cristo dell'occhio »] proprio come punto della trascendenza) in cui, più che guardare, sono io ad essere guardato. Sono guardato da uno sguar- do di santità, uno sguardo al di là della morte che mi trascina verso questo aldilà. Uno sguardo da risorto che sveglia in me la mia resurrezione e l’immagine di Dio come una chiamata alla libertà e all’amore.
L’iscrizione del Nome sull’icona (épigraphé) sottolinea questa relazione con la persona rappre- sentata. Così san Teodoro Studita può affermare che l’icona di Cristo è Cristo, senza la minima confusione magica: « l’immagine di Cristo secondo la relazione» (Antirrheticus I, 11).
L’icona esige dunque un elemento ritrattistico, alcuni « caratteri » concreti che distinguono tale individuo « dagli altri individui della stessa specie » (Antirrheticus III,1,34). La circoscrizione, cioè la possibilità stessa di rappresentare, è « composta di alcune proprietà » (Antirrheticus III 1, 17). Il paradosso tipico della fede cristiana è che Cristo da una parte « ricapitola », racchiude in sé tutta l’umanità; eppure la sua umanità d’altra parte sussiste, si lascia vedere « in un individuo preciso » (atomos) (Antirrheticus II, 18). Ecco per ché, nelle icone, da una parte il bambino Gesù è rappre- sentato con una fronte alta, segno della Sapienza, e dall’altra l’ipostasi del Verbo è circoscritta nei tratti individuali di un volto d’uomo. L’arte dell’icona unisce realismo e astrazione per suggerire, con san Giovanni, l’identità dell’umiliazione e dell’elevazione, la morte in croce come vittoria sulla morte. Né dolorismo dunque, né trionfalismo secondo una concezione umana della gloria.
Nell’essenziale, questa teologia dell’icona ha trovato la sua sintesi nella definizione (l’horos) del Settimo Concilio Ecumenico, o Concilio di Nicea II (787). Il « modello rappresentato » deve accordarsi con il Vangelo e l’icona per eccellenza, quella di Cristo, « serve a confermate l’Incarna- zione, reale e non illusoria, del Verbo di Dio ». Così Scrittura e icona « rimandano l’una all’altra ». Le immagini rinviano significativamente al mistero della Croce – sempre, contro l’idolo, questa identità della gloria e della Croce – e di tutto l’insieme del culto di cui l’icona, come abbiamo detto, fa parte integrante. I gesti e i segni che avvolgono l’icona – il bacio, l’inchino, la candela e l’incenso – non significano affatto adorazione, che « si deve solo alla divinità », ma sono i segni della stessa venerazione accordata alla Croce e al Vangelo. Per due volte l’horos, riprendendo una formula di san Basilio, ricorda che « coloro che guardano le icone sono guidati al ricordo e al desiderio dei prototipi » e che « l’onore reso all’icona riguarda il prototipo », di modo che « chi si inchina davanti all’icona lo fa davanti all’ipostasi (la persona) di colui che vi è rappresentato ».
Attraverso la crisi iconoclasta, l’arte dell’icona si è dunque precisata e purificata per suggerire, nell’uomo e nel cosmo, la luce trasfigurante del Regno, quel Regno che è in noi e in mezzo a noi, dice Gesù. La santità anticipa questo regno di cui aspettiamo e prepariamo la piena manifestazione nella Gerusalemme nuova, la città cubica dalle mura di pietre preziose che uniscono la più alta densità e la luminosità più grande.
Questa luce è l’essenza della bellezza e la bellezza è un Nome divino, un’ « energia » tramite la quale Dio si « estasia » nella sua creazione; offuscata dalla nostra cecità, è pienamente ritrovata, diffusa da Cristo, non solo sul Tabor, ma nella notte del Getsemani e del Golgota. Si conosce la leggenda della « scelta della fede » da parte di Vladimir, gran principe di Kyiev, alla fine del X secolo. Si convinse di aderire al cristianesimo di Bisanzio a causa di ciò che raccontarono i suoi inviati: avevano visto una liturgia nella chiesa di Santa Sofia, e davanti a tale bellezza non sapevano più – dicevano – se erano in cielo o sulla terra. Dunque la bellezza è criterio e prova della verità. Anche nel XX secolo, un grande scienziato e teologo russo, Pavel Florenskij, scriveva che la Trinità di Rubliev è prova dell’esistenza di Dio. Tale bellezza non è una categoria estetica ma ontologica, perché nella teologia orientale l’essere ha la sua fonte nella comunione, L’iconografo è tenuto quindi ad una grande responsabilità ed una grande sobrietà. Deve superare ogni soggetti- vismo, ritirarsi nella preghiera, nel digiuno, unire l’intelligenza e il cuore, favorire nel silenzio l’in- contro con colui o colei che sta per rappresentare sull’icona. Regole precise determinano la com- posizione delle scene e permettono di riconoscere i volti. Il genio creatore, liberato dai fantasmi individuali, non perde niente: basta pensare alle opere straordinarie di un Teofane il Greco, o a quelle completamente differenti di un Mahmoud Zibawi, stili iconografici così diversi secondo la loro epoca e il loro luogo.
Tutto nell’atteggiamento e nell’espressione del personaggio rappresentato deve indicare la sua intima partecipazione alla « luce taborica ». Il corpo, esageratamente lungo, non è che uno slancio verso il volto segreto, il volto interiore, aperto simultaneamente a Dio e al prossimo. E il volto stesso diventa « tutto sguardo » (Pseudo-Macario, Prima Omelia, 2). Il più delle volte la rappre- sentazione frontale, in segno di presenza e di accoglienza. Le rocce, come tanti piani, suggerisco- no il deserto di questo mondo, ma per la grazia della santità questo deserto fiorisce in vegetazioni fantastiche. Gli animali sono stilizzati secondo la loro essenza paradisiaca come nell’arte celtica o in quella degli sciti. Le architetture, sempre in secondo piano, diventano un gioco surrealista, sfida evangelica alla pesantezza e alla potenza di questo mondo.
Certo, la rappresentazione della gloria non può che essere simbolica. Ma è l’originalità di quest’arte che il simbolo si incorpori al volto e che l’eternità si inserisca all’infinito nella comunione delle persone senza spersonalizzare. Il Concilio Quinisesto (692) riunitosi in oriente, ha proposto che i simboli della prima arte cristiana (l’Agnello ad esempio), venissero sostituiti da ciò che essi prefiguravano, ossia il volto umano di Cristo […].
La Gerusalemme nuova, sulla quale si apre l’icona, « non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (Ap 21,23). Nell’icona, dunque, la luce non proviene da un punto preciso: è diffusa dappertutto senza creare ombre, come se tutto fosse interiormente illuminato dal sole. Spesso la prospettiva è rovesciata: le linee non convergono verso un punto di fuga, lì dove si chiude lo spazio decaduto che separa e imprigiona, ma si dilatano verso la luce, « di gloria in gloria ».
Quando l’icona descrive una scena, contrae in una simultaneità liturgica vari momenti spesso lontani nel tempo. Nell’icona della Natività, ad esempio, si vede come in un’armonia gioiosa l’an- nuncio degli angeli ai pastori, la cavalcata dei re Magi, il Bambino nella grotta (anticipazione della discesa agli inferi del Sabato santo) e in braccio alle donne che lo lavano in un modo quasi battesimale.
L’icona non ha soltanto un valore pedagogico, ma anche « misterico », dischiude una benedi- zione della Chiesa. Si apre così alla teologia un altra prospettiva oltre a quella del concetto.
L’arte dell’icona non è affatto estranea alla tradizione occidentale, almeno fino al Trecento. Dopo, l’occidente che scopre esplora e libera l’umano, preferisce a quest’arte della trasfigurazione ciò che chiamerei un’arte dell’esodo in cui si esprimono le ricerche, le angosce, la sensualità, anche le intuizioni dell’umanità, intuizioni che a volte ritrovano spontaneamente lo spirito dell’icona, da Fra’ Angelico a Rembrandt e Rouault. Oggi il fallimento a una certa arte « religiosa », sentimentalista e pietista, apre all’icona le chiese cattoliche e anche alcuni templi protestanti. L’icona allo stesso tempo corrisponde alla cultura dell’immagine e la esorcizza (« guardare un icona è un digiuno degli occhi »). Apre alla teologia delle vie nuove, sostituendo il concetto che vuole possedere, con il volto che chiama alla comunione.
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SAN PAOLO RAPITO IN ESTASI
Riflessione di Simone Oren, esperto nelle Sacre Scritture
San Paolo era pieno di fede, aveva ricevuto lo Spirito Santo, ma anche aveva visioni mistiche.
Chi non vede non crede, ma chi vede deve credere per forza,ora San Paolo vedeva, aveva queste visioni mistiche
e quindi credeva ancora di più. San Paolo stesso ci racconta la sua storia nelle sue lettere,
ci parla della sua lotta contro i seguaci di Gesù, poi la sua conversione e la sua missione.
Ecco un bellissimo brano che si trova negli Atti degli Apostoli, dove vediamo San Paolo che si rivolge al suo popolo,
a Gerusalemme, durante il suo arresto.
Atti degli Apostoli; 22: 1-21
22 1″Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa davanti a voi ». 2Quando sentirono che parlava loro in lingua ebraica, fecero silenzio ancora di più. 3Ed egli continuò: « Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamalièle nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. 4Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, 5come può darmi testimonianza il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti.
6Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; 7caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 8Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. 9Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. 10Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. 11E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco.
12Un certo Ananìa, un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti, 13venne da me, mi si accostò e disse: Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell’istante io guardai verso di lui e riebbi la vista. 14Egli soggiunse: Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, 15perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. 16E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando il suo nome.
17Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi 18e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. 19E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nella sinagoga quelli che credevano in te; 20quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. 21Allora mi disse: Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani ».
San Paolo ci parla ancora di questo rapimento mistico nel tempio, e ci fa capire che per lui è stato un esperienza straordinaria,
questo racconto lo troviamo nella Seconda Lettera ai Corinzi.
Seconda Lettera ai Corinzi; 12: 1-5
121Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. 5Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze.
San Paolo ha queste visioni e crede davvero, grande e la sua fede, egli è certo di morire e andare presso il Signore Gesù.
Ecco come dice nella Lettera ai Filippesi.
Lettera ai Filippesi; 1: 19-26
119So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20secondo la mia ardente attesa speranza che in nulla rimarrò confuso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.
21Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. 23Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. 25Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, 26perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mia nuova venuta tra voi.
San Paolo, Apostolo delle genti ci insegna che esiste il mondo celete e spirituale dove regna il Signore Altissimo con il suo Unigenito Figlio Gesù il Cristo,
mondo celeste dove vanno a stabilirsi le anime dei Santi e dei Giusti dopo la loro morte terrena.