Archive pour septembre, 2017

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (24/09/2017)

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La velocità della luce

don Luciano Cantini

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (24/09/2017)

Un padrone di casa
Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa: l’immagine regalata dalla parabola che ci aiuta a capire il senso del “regno dei celi” è quella del padrone di casa, le sue azioni e le sue parole sono chiave per entrare nel mistero del Regno. L’immagine del padrone non è molto dissimile da quella del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt. 5,45), perché non fa distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano (Rm 10,12).
Uscendo all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno: il denaro pattuito rappresenta il sostentamento di una famiglia per un giorno, con coloro che invia successivamente afferma soltanto quello che è giusto ve lo darò, agli ultimi non promette alcunché, ma poco avevano da sperare.
Incominciando dagli ultimi
Se la giornata scorre simile a tutte le altre, intrisa del medesimo sudore, alla sera inizia il “paradosso” del Regno che ci rivela il cuore di Dio: incominciando dagli ultimi. Questo iniziare è fondamentale se desideriamo capire e entrare nel cuore di Dio; da sempre il cuore di Dio è stato così: Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli (Deut 7,7), scoprirlo, capirlo e abbracciare questo modo di considerare le persone, i popoli, le storie è essenziale se vogliamo rispondere all’invito della Scrittura: Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo (Lv 19, 2).
Dio non sembra essere tanto interessato davanti all’impegno di chi ha sopportato il peso della giornata e il caldo, preferisce iniziare da coloro che nessuno ha preso a giornata, da coloro che sono stati scartati dagli altri.
Per Dio le graduatorie sono alla rovescia, si incomincia a pescare dall’ultimo della fila, da colui che non è stato capace di farsi avanti, che non saputo cogliere l’opportunità. Papa Francesco parlerebbe degli scartati della società: Posso dire, possiamo dire tutti, che la causa principale della povertà è un sistema economico che ha tolto la persona dal centro e vi ha posto il Dio denaro; un sistema economico che esclude, esclude sempre: esclude i bambini, gli anziani, i giovani, senza lavoro… – e che crea la cultura dello scarto che viviamo. Ci siamo abituati a vedere persone scartate (21 gennaio 2015).
Iniziare dagli ultimi, partire dal basso significa anche avere una prospettiva diversa della vita, anche il panorama cambia davanti agli occhi se invece di entrare in chiesa ci accovacciamo accanto a chi sta alla porta a chiedere l’elemosina e porge verso l’alto il suo bicchiere vuoto. Gesù stesso si è lasciato scartare dall’umanità che lo circondava, abbracciando la condanna a morte sulla croce ha guardato il mondo e la storia dal punto di vista di chi è scartato.
Ricevettero ciascuno un denaro
Arrivati al momento della ricompensa per il lavoro svolto, si manifesta l’altro “paradosso” della parabola: ricevettero ciascuno un denaro. Quella somma non ripaga il lavoro svolto, la quantità di energia impiegata o il sudore versato, non entra nella dinamica della meritocrazia tanto desiderata oggi, molto più semplicemente è attenta al bisogno dell’uomo e della sua famiglia per vivere. Un po’ come la velocità della luce che è il massimo raggiungibile, di più è impossibile. Di cosa l’uomo ha veramente bisogno per vivere? Della terra su cui poggiare i piedi e coltivare, dell’acqua che è sorgente di vita, dell’aria da respirare, ha bisogno dell’altro per collaborare, ha bisogno di Dio. Tutto questo è il massimo, è il denaro della parabola, per tutti il medesimo. Questo, Dio dà all’uomo: la terra, l’acqua, l’aria, la vita, se stesso. Ma l’uomo non si accontenta e vuole di più, si sente più meritevole degli altri così dividendo la terra la sottrae agli altri tenendo per sé lo “ius soli”, la stessa cosa per tutto il resto: ci sono pochi che sentono il diritto di possedere la maggior parte delle risorse della terra, anche Dio è compreso tra i diritti di proprietà: l’uomo lo ritiene appannaggio di se stesso compiendo in suo nome ogni nefandezza. Ripensare all’unico denaro per tutti uguale ci dà l’occasione di ridimensionare tanti pretesi diritti; quello che è giusto è rimettersi in prospettiva del Regno dei cieli, mettere da parte l’invidia e contemplare la bontà di Dio.

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Caravaggio, La vocazione di San Matteo

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Publié dans:immagini sacre |on 21 septembre, 2017 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SAN MATTEO – 21 SETTEMBRE

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BENEDETTO XVI – SAN MATTEO – 21 SETTEMBRE

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 agosto 2006

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.
Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.
Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano … non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo – “poiché non c’è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all’istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.
Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

 

Crocifisso attribuito a Michelangelo

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BENEDETTO XVI – LA SANTITÀ (2011)

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BENEDETTO XVI – LA SANTITÀ

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 13 aprile 2011

Cari fratelli e sorelle,

nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio” (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50). Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.
Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: “In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: “E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza” (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: “Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: “Viva sarà la mia vita tutta piena di Te” (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: “Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria” (n. 41).
Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta” (ibid., 40). La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. “Per mezzo del battesimo – scrive – siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.
Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. “«Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l’aiuto della grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all’esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po’ troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell’Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l’esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo” (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell’essere santi.
Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL 35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”.
Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.
Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.
Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,7.11-13). Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore. Grazie.

Mount Sinai

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Publié dans:immagini sacre |on 18 septembre, 2017 |Pas de commentaires »

PER NON DIMENTICARE ANTIOCHIA – (Pietro Stefani)

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PER NON DIMENTICARE ANTIOCHIA

Pubblicato il 21 febbraio 2009

L’anno paolino continua a proporre a proposito (e a volte a sproposito) occasioni per ripensare all’Apostolo delle genti (Rm 11,13). Queste circostanze non mancano, a volte, di rendere evidente ai nostri occhi l’abissale distanza che ci separa dal modo in cui si viveva la fede all’origine della predicazione dell’evangelo.
Ogni 25 gennaio la Chiesa cattolica celebre una festa chiamata «Conversione di S. Paolo»; ogni 29 giugno si festeggiano, all’insegna di Roma, congiuntamente Pietro e Paolo. Sono entrambe ricorrenze consolidate, ma esse risulterebbero alquanto sconcertanti se, liberati da forti precomprensioni armonizzanti, leggessimo in presa diretta le lettere autentiche di Paolo
L’inno delle Lodi mattutine del 25 gennaio propone per Paolo il testo comune a tutti gli apostoli. Vi è scritto: «O apostoli di Cristo, / colonna e fondamento / della città di Dio! /Dall’umile villaggio / di Galilea salite / alla gloria immortale…». Nonostante il fatto che nel Nuovo Testamento l’impiego della parola «apostolo» sia molto articolato, resta preponderante l’idea che esso si riferisca soltanto a uno dei Dodici. Ciò induce a evocare un villaggio della Galilea anche nel caso di colui che è nato nella città di Tarso nell’attuale Turchia. Sembra di dover concludere che se il diasporico Paolo è un apostolo, egli deve essere in qualche modo associato a coloro che sono stati scelti da Gesù e investititi di un potere da loro trasmesso ai propri successori, i vescovi, giù giù fino a oggi. Ma nulla di tutto ciò si può ricavare da quanto Paolo dice di se stesso: egli si qualifica «apostolo per chiamata, messo da parte per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1).
Qui non c’è posto per alcuna conversione: tutto va riferito all’azione di Dio che opera «senza mediatori». Il modello richiamato da Paolo è quello profetico. In effetti quando l’Apostolo delle genti allude alla sua chiamata si paragona in modo scoperto a Geremia. Basta ciò per dichiarare inadeguata la parola conversione: quando mai l’abbiamo udita impiegare nel caso della chiamata di Simone, di Andrea, di Giacomo, di Giovanni e così via? Ormai non c’è più alcuno studioso in grado di affermare che Paolo, sulla via di Damasco, si è convertito perché da ebreo è diventato cristiano. Tuttavia al riguardo non basta neppure sostenere che egli, in virtù di una rivelazione inattesa, è diventato un ebreo credente in Gesù Cristo. Quanto avvenne fu che Dio lo investì di un compito e che nessuno si è interposto o ha certificato la validità di quella chiamata. Paolo non è Agostino; egli non vive in sé un processo di delusione e di conversione che a poco a poco lo porta alla fede. L’unico paragone possibile è quello da lui stesso proposto con Geremia (o al più con altre improvvise chiamate profetiche come quelle di Amos): «quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre (Ger 1,5) e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi tra le genti, subito, senza consultare carne e sangue [vale a dire quanto è umano], senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia…» (Gal 1,15-17). La chiamata di Paolo è celebrazione della assoluta libertà di Dio ed essa si riflette nell’autonomia affermata, da colui che è chiamato, nei confronti di ogni vincolo umano.
Si dirà che, sia pure quattordici anni dopo, Paolo va a Gerusalemme esponendo alle persone più autorevoli il proprio vangelo per timore di aver corso invano. Sia pure in ritardo sembra perciò sottoporsi a un controllo. Si tratta di un’impressione errata. Prima di tutto, egli afferma di esserci andato a seguito di una rivelazione. Lungi dall’essere convocato, è perciò Dio stesso a mandarlo (allora nessuno poteva immaginare che sarebbe nato il Sant’Uffizio, ora Congregazione per la dottrina della fede). In secondo luogo, Paolo paventa di aver corso invano non perché covasse dei dubbi su quanto da lui annunciato. Il discorso va capovolto: Paolo avrebbe operato a vuoto se quelli di Gerusalemme non avessero condiviso il suo vangelo. La prova vivente di tutto ciò è che gli ebrei Paolo e Barnaba salgono a Gerusalemme portando con loro il gentile Tito a cui nessuno impose di essere circonciso (Gal 2,3); se, di contro, fosse stato obbligato a farlo, l’Apostolo delle genti avrebbe vista frustata tutta la propria azione. Dunque a Gerusalemme il gentile credente viene accolto dalle autorità per quello che è. Sono le colonne della Chiesa (Gal 2,9) a doversi conformare a chi viene da fuori e non viceversa.
La scena di Gerusalemme trova il proprio corrispettivo complementare ad Antiochia. Il vangelo viene infatti vagliato più qui che nella città santa. Quel che è affermato a Gerusalemme va confermato ad Antiochia. Alcuni della parte di Giacomo vengono in quest’ultima comunità per imporre ai gentili usi giudaizzanti. La loro azione è a tal punto efficace da trarre dalla loro parte Pietro e, in seguito, persino Barnaba. Paolo allora non esita a proclamare che tutti costoro vanno contro il vangelo (Gal 2,14). La libertà della fede nata dalla chiamata di Dio, ora si manifesta nella franchezza di contrapporsi all’autorità venuta da Gerusalemme: «Ma quando Cefa [Pietro] venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto» (Gal 2,11).
Nella storia della Chiesa si afferma che Pietro ha avuto centinaia di successori; sull’altro fronte tutto lascia intendere che Paolo ne ha avuti invece assai pochi, nessuno dei quali è giunto fino ai nostri giorni.
Piero

Publié dans:Piero Stefani, TERRA SANTA (LA) |on 18 septembre, 2017 |Pas de commentaires »
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