Archive pour juillet, 2017

Il seminatore

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Publié dans:immagini sacre |on 14 juillet, 2017 |Pas de commentaires »

OMELIA – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (16/07/2017)

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L’inesauribile sorgente di senso

dom Luigi Gioia

OMELIA – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (16/07/2017)

La Parola di Dio, per bocca di Paolo, ci invita audacemente ad entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. La nostra identità cristiana rappresenta uno straordinario titolo di nobiltà: ciascuno di noi è figlio di Dio, Dio stesso ci è promesso in eredità, non per donarci soltanto qualcosa, ma se stesso. Nella casa di Dio, ci dice Gesù, noi non siamo servi, ma amici. Il Padre ci accoglie, ci riveste di una tunica, ci mette un anello al dito, dei sandali ai piedi, tutti simboli di una relazione di familiarità con lui. Quindi – come dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi – tutto è nostro. Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è nostro! Noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio.
La qualità principale dei figli di Dio è soprattutto questa libertà, il cui garante principale è la Parola di Dio. Tutto ci è dato nella Parola di Dio, tutto è nostro attraverso di essa. Essa è come la pioggia e la neve che scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra. È inviata dal Signore per irrigare il nostro cuore, dare fecondità alla nostra vita, essere nutrimento, dissetare la nostra sete di senso, darci freschezza nei momenti di pesantezza della nostra vita, aiutarci a ritrovare la speranza, farci sentire che non siamo soli.
Questa Parola è sorgente di immensa consolazione. Basta una frase del salmo: Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, mi guida e mi conduce. Oppure: Ho gridato, ho gridato al Signore ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido. Oppure la frase di Gesù nel Vangelo di domenica scorsa: Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi darò riposo. Una tale sorgente di acqua sempre fresca, di consolazione sempre nuova, di gioia e soprattutto di pace, è sempre a nostra disposizione. In ogni momento possiamo aprire la Bibbia e ritrovarvi conforto.
Bisogna riconoscere però che, il più delle volte, la nostra relazione con la parola somiglia piuttosto a quanto dice Gesù nel Vangelo: Udrete, ma non comprenderete. Guarderete, ma non vedrete. Il cuore di questo popolo è diventato insensibile. Il nostro cuore è diventato insensibile perché i nostri orecchi e i nostri occhi si sono chiusi alla Parola. Perdere la libertà dei figli di Dio consiste proprio in questo: precluderci per negligenza l’accesso al tesoro, all’eredità che il Signore ha messo a nostra disposizione e che noi lasciamo al chiuso in uno scrigno, senza neanche avere la curiosità di aprirlo per scoprire quali ricchezze contenga.
La libertà cristiana cresce solo se la Parola è accolta, amata, meditata e compresa. Chi vive della Parola di Dio è libero perché può attingere ad una sorgente inesauribile di senso, come Gesù stesso afferma: In verità vi dico, cielo e terra passeranno, tutte le cose che ci sembrano importanti in questa vita, sia quelle positive che quelle negative, passeranno, ma la mia parola non passerà mai. E altrove: Chi ascolta queste parole vivrà in me e io in lui. E ancora: Le parole che io vi dico sono vita eterna.
Nella nostra relazione con la Parola di Dio risiede dunque la sfida fondamentale della vita di fede, la possibilità di preservare la nostra libertà di figli di Dio. Ecco perché il Vangelo ci esorta così vivamente a stare attenti a non lasciare questo seme della Parola cadere lungo la strada: gli uccelli del cielo potrebbero venire a rubarlo. Gesù spiega che questo succede ogni volta che uno ascolta la parola di Dio e non la comprende. Comprendere vuol dire ‘prendere-con’, avvolgere la parola che riceviamo con l’intelligenza e con il cuore. È come quando ci è dato un tesoro prezioso: lo circondiamo con le nostre braccia e lo mettiamo al riparo vicino al nostro cuore. Il seme della parola di Dio deposto nel nostro cuore va avvolto, serbato, meditato. Siamo invitati a ripensarci e a cercare di aderirvi con il cuore, altrimenti è inevitabile che la prima distrazione la porti via come farebbe un uccello con un seme lasciato incustodito.
Siamo poi invitati a non essere come un terreno sassoso, nel quale c’è giusto terra abbastanza perché il seme germogli, ma non la profondità che gli permette di affondare in noi le proprie radici. Questo è il simbolo dell’incostanza, della mancanza di perseveranza: ci entusiasmiamo quando qualcosa ci parla, ma poi ci lasciamo assorbire dalle altre occupazioni della vita e perdiamo il contatto vivente, quotidiano con la Parola.
Infine ci sono i rovi. La parola di Dio, anche nel cuore di coloro che desiderano accoglierla e che cercano di coltivarla, è soffocata dalle preoccupazioni, dalla spirale di attività che, buone in sé stesse, possono però anche diventare un alibi per fuggire i momenti di silenzio e di raccoglimento necessari perché questa Parola non sia soffocata, perché la fiamma che il Signore accende nel nostro cuore non si smorzi.
Nella qualità del nostro ascolto della Parola è dunque in gioco la nostra libertà cristiana. State saldi -dice Paolo- state attenti a non lasciarvi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Per questo, accogliamo la Parola con un cuore fedele, desideroso, assiduo, che sappia avvolgerla, conservarla e le permetta di dispiegare tutta la sua fecondità.

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San Benedetto da Norcia

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Publié dans:immagini sacre |on 10 juillet, 2017 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – SUBIACO 1980 (PER LA FESTA DI SAN BENEDETTO DA NORCIA)

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GIOVANNI PAOLO II – SUBIACO 1980 (PER LA FESTA DI SAN BENEDETTO DA NORCIA)

VISITA PASTORALE A SUBIACO

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II DURANTE LA VISITA AL SACRO SPECO

28 settembre 1980

Venerabili e carissimi fratelli.

1. Oggi il grande giubileo di san Benedetto ci ha fatto venire a Subiaco. Vi ha già dato l’occasione di presiedere, nelle vostre patrie, nelle vostre diocesi, a importanti celebrazioni, non solo per i monaci e le monache, ma per tutto il Popolo di Dio affidato alle vostre cure, come ho fatto io stesso a Norcia e a Montecassino. Ma oggi, la scelta del luogo santificato da san Benedetto – il Sacro Speco – e la composizione della vostra assemblea dà un rilievo eccezionale a questa celebrazione.
Un millennio e mezzo è trascorso dalla nascita di questo grande uomo, che ha meritato nel passato il titolo di “patriarca dell’occidente”, e che e stato chiamato ai nostri giorni, da Papa Paolo VI, il “patrono dell’Europa”. Già questi titoli testimoniano che la luce della sua persona e della sua opera ha superato le frontiere del suo paese e non si è limitata solamente alla sua famiglia benedettina: questa ha del resto conosciuto una magnifica espansione ed è provenendo da numerosi paesi e continenti, che i suoi figli e le sue figlie si sono riuniti, una settimana fa, a Montecassino, per venerare la memoria del loro padre comune e fondatore del monachesimo occidentale.
Oggi, a Subiaco, ci sono i rappresentanti degli episcopati d’Europa che si ritrovano per testimoniare, in presenza dei Vescovi del mondo intero riuniti in Sinodo, a quale punto san Benedetto da Norcia sia inserito profondamente e organicamente nella storia d’Europa, e in particolare quanto gli sono debitori le società e le Chiese, del nostro continente, e come, nella nostra epoca critica, esse volgono i loro sguardi verso colui che è stato designato dalla Chiesa come loro patrono comune.
Consacrando l’abbazia di Montecassino risorta dalle rovine della guerra, il 2 ottobre 1964, Paolo VI segnalava le due ragioni che fanno sempre desiderare l’austera e dolce presenza di san Benedetto tra noi: “La fede cristiana che lui e il suo ordine hanno predicato, specialmente nella famiglia d’Europa…, e l’unità attraverso la quale il grande monaco solitario e sociale ci ha insegnato ad essere fratelli e attraverso la quale l’Europa divenne cristiana”. “È perché questo ideale spirituale dell’Europa fosse ormai sacro e intangibile” che il mio venerato predecessore proclamava quel giorno san Benedetto “patrono e protettore dell’Europa”. E il breve e solenne “pacis nuntius” che consacrava questa decisione, ricordando i meriti del grande abate, “messaggero di pace, artigiano dell’unità, maestro di civilizzazione, araldo della religione di Cristo e fondatore della vita monastica in occidente”, riaffermava che lui e i suoi figli, “con la croce, il libro e l’aratro”, portarono “il progresso cristiano alle popolazioni che si stendevano dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure di Polonia”.
2. San Benedetto fu prima di tutto un uomo di Dio. Egli lo è diventato seguendo, in modo costante, la via delle virtù indicate nel Vangelo. Fu un vero pellegrino del regno di Dio. Un vero “homo viator”. E questo pellegrinaggio è stato accompagnato da una lotta che è durata tutta la sua vita: una battaglia innanzitutto contro se stesso, per combattere “l’uomo vecchio” e fare sempre più posto in sé all’“uomo nuovo”. Il Signore ha permesso che, grazie al santo Spirito, questa trasformazione non rimanesse un avvenimento per lui solo, ma che divenisse una sorgente di luce, penetrando la storia degli uomini, penetrando soprattutto la storia d’Europa.
Subiaco fu e rimane una tappa importante di questo percorso. Da un parte, fu luogo di ritiro per san Benedetto da Norcia, egli vi si ritirò dall’età di quindici anni per essere più vicino a Dio. E nello stesso tempo un luogo che ben manifesta ciò che egli è. Tutta la sua storia resterà segnata da questa esperienza di Subiaco: la solitudine con Dio, l’austerità di vita, e la separazione di questa vita molto semplice con qualche discepolo, perché e là che è cominciata una prima organizzazione della vita cenobitica.
E per questo che vengo anch’io in questo alto luogo del Sacro Speco e del primo monastero.
3. Uomo di Dio, Benedetto lo fu realizzando continuamente il Vangelo, non solamente allo scopo di conoscerlo, ma anche di tradurlo interamente in tutta la sua vita. Si potrebbe dire che l’ha riletto in profondità – con la profondità della sua anima -, e che l’ha riletto nella sua ampiezza, secondo la dimensione dell’orizzonte che aveva sotto gli occhi. Questo orizzonte fu quello del mondo antico che era sul punto di morire e quello del mondo nuovo che era sul punto di nascere. Tanto nella profondità della sua anima che nell’orizzonte di questo mondo, egli ha affermato tutto il Vangelo: l’insieme di ciò che costituisce il Vangelo e nello stesso tempo ciascuna delle sue parti, ciascuno dei passi che la Chiesa rilegge nella sua liturgia, e anche ciascuna frase.
Sì, l’uomo di Dio – “benedictus”, il benedetto, Benedetto – si compenetra in tutta la semplicità della verità che vi è contenuta. Ed egli vive questo Vangelo. E vivendolo, egli evangelizza.
Paolo VI ci ha lasciato in eredità san Benedetto da Norcia come patrono d’Europa. Cosa voleva dirci con questo? Prima di tutto può essere che noi dobbiamo innalzarci senza posa alla traduzione del Vangelo, che deve essere tradotto interamente e in tutta la nostra vita. Che noi dobbiamo rileggerlo con tutta la profondità della nostra anima e in tutta la sua ampiezza, secondo la dimensione dell’orizzonte del mondo che noi abbiamo davanti al mondo. Il Concilio Vaticano II ha posto fermamente la realtà della Chiesa e della sua missione sull’orizzonte del mondo che giorno dopo giorno le diviene contemporaneo.
L’Europa costituisce una parte essenziale di questo orizzonte. In quanto continente nel quale si trovano le nostre patrie, essa è per noi un dono della provvidenza, che ce l’ha affidata allo stesso tempo come un’opera da realizzare. Noi, in quanto Chiesa, e in quanto pastori della Chiesa, dobbiamo rileggere il Vangelo e annunciarlo nella misura dei compiti che sono inerenti alla nostra epoca. Noi dobbiamo rileggerlo e predicarlo nella misura delle attese che non smettono di manifestarsi nella vita degli uomini e delle società, e nello stesso tempo nella misura delle contestazioni che noi incontriamo nella loro vita. Cristo non smette mai di essere “l’attesa dei popoli” e nello stesso tempo egli non smette di essere il “segno di contraddizione”.
Sì, sulle tracce di san Benedetto, il compito dei Vescovi d’Europa è d’intraprendere l’opera di evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Così facendo, essi si rifanno a ciò che è stato elaborato e costruito quindici secoli fa, allo spirito che l’ha ispirato, al dinamismo spirituale e alla speranza che ha segnato questa iniziativa; ma è un’opera da intraprendere in modo rinnovato, a prezzo di nuovi sforzi, in funzione dell’attuale contesto.
4. È in questa cornice dell’evangelizzazione che assume tutto il suo senso la dichiarazione dei Vescovi d’Europa che abbiamo appena letto: “Responsabilità dei cristiani di fronte all’Europa d’oggi e di domani”. Questo documento, elaborato in comune, è un apprezzabile frutto della responsabilità collegiale dei Vescovi di tutto il continente europeo. È senza dubbio la prima volta che l’iniziativa assume una tale ampiezza. Si tratta di un documento, in qualche modo, della Chiesa cattolica in Europa, che è rappresentata, in modo particolare, dai Vescovi come pastori e maestri di fede. Saluto con gioia questo incoraggiante segno di una responsabilità collegiale che progredisce in Europa, di una unità meglio consolidata tra gli episcopati. Questi episcopati si trovano infatti in paesi dalle situazioni molto diverse, che si tratti dei loro sistemi sociali o economici, dell’ideologia dei loro stati o della posizione della Chiesa cattolica, che forma a volte una maggioranza indiscutibile, altre volte una piccola minoranza al fianco di altre Chiese, o in rapporto a una società molto secolarizzata. Confidando nel carattere benefico, stimolante, degli scambi e della cooperazione, come ho già molte volte detto, io incoraggio con tutto il cuore il proseguimento di una tale collaborazione, che ben si iscrive nella linea del Concilio Vaticano II. Essa non è d’altra parte estranea alla pratica benedettina e cistercense di una interdipendenza e di una cooperazione tra i differenti monasteri dispersi attraverso l’Europa.
Nella dichiarazione resa pubblica oggi e in questo alto luogo, vi esprimo a giusto titolo la preoccupazione di una unità ecclesiale estesa. L’Europa è infatti il continente in cui le separazioni ecclesiali hanno avuto la loro origine e si sono manifestate con forza. Vale a dire che le Chiese in Europa – quelle sorte dalla Riforma, l’ortodossa e la Chiesa cattolica, che rimangono legate in modo speciale all’Europa – hanno una responsabilità particolare sul cammino dell’unità, sul piano della comprensione reciproca, dei lavori teologici e della preghiera.
Ugualmente, di fronte alle comunità cattoliche degli altri continenti, qui rappresentate, la Chiesa d’Europa deve caratterizzarsi per l’accoglienza, il servizio e lo scambio reciproco, per aiutare queste Chiese sorelle a trovare la loro propria identità, nell’unità della fede, dei sacramenti e della gerarchia.
Insomma è una testimonianza comune della vostra cura pastorale che voi date oggi, cari fratelli, che noi diamo oggi, in funzione dei bisogni e delle attese. Io non ho ripreso qui ciò che è stato abbondantemente esposto in questo documento comune. Si tratta di tracciare un cammino di evangelizzazione per l’Europa, e di seguirlo, con i nostri fedeli. È un’opera da continuare e da riprendere senza posa. Il prossimo “symposium” dei Vescovi d’Europa non ha per tema “l’autoevangelizzazione dell’Europa?” E questo ci riporta al grande progetto, all’iniziativa senza pari di san Benedetto, di cui certe caratteristiche specifiche hanno enormi conseguenze umane, sociali e spirituali.
5. San Benedetto da Norcia è divenuto patrono spirituale dell’Europa perché, come il profeta, egli ha fatto del Vangelo il suo nutrimento, e ne ha gustato in una volta la dolcezza e l’amarezza. Il Vangelo costituisce infatti la totalità della verità sull’uomo: è insieme la gioiosa novella e nello stesso tempo la parola della croce. Attraverso esso vediamo rivivere, in maniere diverse, il problema del ricco e del povero Lazzaro – con il quale la liturgia di questo giorno ci ha resi familiari – in quanto dramma della storia, in quanto problema umano e sociale. L’Europa ha inscritto questo problema nella sua storia; essa l’ha portato ben al di là delle frontiere del suo continente. Con esso ha seminato l’inquietudine nel mondo intero. Dalla metà del nostro secolo, questo problema è ritornato, in un certo senso, in Europa; esso si pone anche nella vita delle sue società. Non manca di essere l’origine delle tensioni. Non smette di essere l’origine delle minacce.
Di queste minacce, io ho già parlato il primo giorno dell’anno, facendo allusione a questo grande anniversario di san Benedetto; ricordavo, di fronte ai pericoli della guerra nucleare che minacciano l’esistenza stessa del mondo, che “lo spirito benedettino è uno spirito di salvataggio e di promozione, nato dalla coscienza del piano divino della salvezza ed educato nell’unione quotidiana della preghiera e del lavoro”. Esso “è agli antipodi di ogni programma di distruzione”.
Il pellegrinaggio che noi compiamo oggi è dunque ancora un grande grido e una nuova supplica per la pace in Europa e nel mondo intero. Noi preghiamo affinché le minacce di autodistruzione che le ultime generazioni hanno fatto sorgere all’orizzonte della loro vita si allontanino da tutti i popoli del nostro continente e di tutti gli altri continenti. Noi preghiamo affinché si allontanino le minacce d’oppressione degli uni da parte degli altri: la minaccia della distruzione degli uomini e dei popoli che, nel corso delle loro lotte storiche e a prezzo di tante vittime, hanno acquisito il diritto morale di essere se stessi e di decidere da se stessi.
6. Che si trattasse del mondo che ai tempi di san Benedetto si limitava all’antica Europa, o del mondo che, nello stesso tempo, stava per sorgere, il loro orizzonte passava attraverso la parabola del ricco e del povero Lazzaro. Al momento in cui il Vangelo, la buona novella del Cristo, entrava nell’antichità, sopportava i pesi dell’istituzione della schiavitù. Benedetto da Norcia trovò nell’orizzonte del suo tempo le tradizioni della schiavitù, e nello stesso tempo rileggeva nel Vangelo una verità sconcertante sulla riconciliazione definitiva della sorte del ricco e del povero Lazzaro.
Leggeva anche la gioiosa verità sulla fraternità di tutti gli uomini. Dagli inizi il Vangelo costituirà dunque un richiamo a superare la schiavitù nel nome dell’eguaglianza degli uomini agli occhi del Creatore e Padre. Nel nome della croce e della redenzione.
Questa verità, questa buona novella dell’eguaglianza e della fraternità, non è stato san Benedetto che l’ha tradotta in regola di vita? Egli l’ha tradotta non solamente in regola di vita per le sue comunità monastiche, ma più ancora, in sistema di vita per gli uomini e per i popoli. “Ora et labora”. Il lavoro, nell’antichità, era la sorte degli schiavi, il segno dell’avvilimento. Essere libero significava non lavorare, e dunque vivere del lavoro degli altri. La rivoluzione benedettina mette il lavoro al cuore stesso della dignità dell’uomo. L’uguaglianza degli uomini intorno al lavoro diviene, attraverso il lavoro stesso, come un fondamento della libertà dei figli di Dio, della libertà grazie al clima di preghiera in cui si vive il lavoro. Ecco qui una regola e un programma. Un programma che comporta degli elementi. La dignità del lavoro non può infatti essere tratta unicamente da criteri materiali, economici. Essa deve maturare nel cuore dell’uomo. E essa non può maturare nel profondo che mediante la preghiera. Perché è la preghiera che dice in definitiva all’umanità ciò che è l’uomo del lavoro, colui che lavora con il sudore della sua fronte e anche con la fatica del suo spirito e delle sue mani. Essa ci dice che egli non può essere schiavo, ma che egli è libero. Come afferma san Paolo: “lo schiavo che è stato chiamato dal Signore, è un libero affrancato dal Signore” (1Cor 7,22). E Paolo, che non ha creduto indegno di un apostolo di “affaticarsi lavorando con le proprie mani” (1Cor 4,12) non ha paura di mostrare agli anziani di Efeso le sue proprie mani che hanno provveduto ai propri bisogni e a quelli dei suoi compagni (cf. At 20,34). È nella fede di Cristo e nella preghiera che il lavoratore scopre la sua dignità. È ancora san Paolo che precisa: “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio che grida: “Abbà, Padre!”. Dunque non sei più schiavo, ma figlio” (Gal 4,6-7).
Non abbiamo visto recentemente uomini che, di fronte a tutta l’Europa e al mondo intero, univano la proclamazione della dignità del loro lavoro alla preghiera?
7. Benedetto da Norcia, che per la sua azione profetica ha cercato di far uscire l’Europa dalle tristi tradizioni della schiavitù, sembra dunque parlare, dopo quindici secoli, a numerosi uomini e a molteplici società che bisogna liberare dalle diverse forme contemporanee di oppressione dell’uomo. La schiavitù pesa su colui che è oppresso, ma anche sull’oppressore. Non abbiamo conosciuto, nel corso della storia, delle potenze, degli imperi che hanno oppresso nazioni e popoli in nome della schiavitù ancora più forte della società degli oppressori? La parola d’ordine “ora et labora” è un messaggio di libertà.
Di più, questo messaggio benedettino non è oggi all’orizzonte del nostro mondo, un richiamo a liberarsi dalla schiavitù del consumismo d’un modo di pensare e di giudicare, di stabilire i nostri programmi e di condurre il nostro stile di vita unicamente in funzione dell’economia?
In questi programmi scompaiono i valori umani fondamentali. La dignità della vita è sistematicamente minacciata. La famiglia è minacciata, vale a dire questo legame essenziale reciproco fondato sulla confidenza delle generazioni, che trova la sua origine nel mistero della vita e della pienezza di tutta l’opera dell’educazione. È anche tutto il patrimonio spirituale delle nazioni e delle patrie che è minacciato.
Siamo in grado noi di frenare tutto questo? Di ricostruire? Siamo in grado di allontanare dagli oppressi il peso della costrizione? Siamo capaci di convincere il mondo che l’abuso della libertà è un’altra forma di costrizione?
8. San Benedetto ci è stato donato come patrono dell’Europa dei nostri tempi, del nostro secolo, per testimoniare che siamo capaci di fare tutto questo.
Noi dobbiamo solamente assimilare di nuovo il Vangelo nel più profondo della nostra anima, nella cornice della nostra attuale epoca. Dobbiamo accettarlo come un nutrimento. Si riscoprirà allora un po’ alla volta il cammino della salvezza e della pace come in quei tempi lontani in cui il Signore dei signori ha posto Benedetto da Norcia, quale lampada sul candelabro, quale faro sulla strada della storia.
È lui infatti che è il Signore di tutta la storia del mondo, Gesù Cristo, che, da ricco che era, si è fatto povero per noi, al fine di arricchirci con la sua povertà (cf. 2Cor 8,9).
A lui onore e gloria per i secoli!

Gesù e i bambini

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Publié dans:immagini sacre |on 7 juillet, 2017 |Pas de commentaires »

OMELIA XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (09/07/2017)

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L’illusione della perfezione

dom Luigi Gioia

OMELIA XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (09/07/2017)

Paolo afferma: Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Nel linguaggio paolino, ‘carne’ non indica prima di tutto la sessualità, ma invidie, gelosie, tristezze, risentimenti, cioè tutta la negatività che prolifera in noi quando ci ritroviamo in balia di forze interiori che non controlliamo e vittime di circostanze esteriori che ci soffocano e ci stritolano. Per Paolo, i cristiani, pur subendola, non sono sotto il dominio di questa negatività interiore ed esteriore, ma sotto l’influenza dello Spirito – e i frutti dello Spirito, i segni della presenza dello Spirito, sono l’amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza, il dominio di sé – come si legge nella lettera ai Galati.
Perché allora, invece di questi sentimenti positivi, perdurano in noi quelli negativi, prevale il dominio della ‘carne’? Perché continuiamo a fare la dolorosa esperienza della nostra vulnerabilità nei confronti della negatività che è in noi e di quella che ci condiziona dall’esterno? Vuol forse dire che non siamo dei buoni cristiani, che non corrispondiamo veramente alla grazia, alla vita dello Spirito in noi?
Il dramma della condizione umana non è tanto né prima di tutto quello di fare cose sbagliate, di peccare, ma la divisione interiore, la presenza in noi di una parte di tenebra che sfuggirà sempre al nostro controllo, fino alla fine, e contro la quale non possiamo nulla. Nella stessa lettera ai Romani Paolo parla della drammatica esperienza di questa divisione interiore quando afferma: Non riesco a capire ciò che faccio, infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto…. In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
Dobbiamo lasciarci ricordare queste cose da Paolo non per autogiustificarci, non per compiacerci nel peccato, ma perché si tratta di una verità di cui non cessiamo di fare l’esperienza. Chi di noi non desidera diventare migliore? Chi di noi non ha cercato di lottare contro aspetti della propria negatività interiore per superarla, sperimentando però la propria impotenza? Questo non vuol dire che la santità sia impossibile, ma che è necessario farsene una idea giusta. Santità infatti non vuol dire perfezione, cioè totale eliminazione della parte di ombra che c’è in noi. Questa non solo non sarebbe santità, ma potrebbe diventare una forma di orgoglio che invece di migliorarci ci renderebbe più ipocriti, alimenterebbe in noi l’illusione di essere autosufficienti, superiori agli altri, di non avere più bisogno di nessuno, nemmeno del Signore. Sarebbe insomma una caricatura della santità che ci farebbe rientrare nella categoria dei sapienti e dei dotti di cui parla Gesù nel vangelo di oggi: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti. I ‘sapienti’ e i ‘dotti’ rappresentano coloro i quali, per la loro scienza o la loro presunta perfezione morale, si considerano superiori agli altri e autosufficienti. Riguardo a costoro Gesù dice che le cose del regno dei cieli sono loro nascoste, cioè che la loro perfezione li fa resi impermeabili alla possibilità di conversione.
Invece a chi è promessa questa rivelazione? Chi Gesù chiama a sé? Chi vuole consolare? A chi vuole dare ristoro? Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. È ai ‘piccoli’, a coloro che sono affaticati e oppressi, a coloro che, nella quotidiana esperienza della loro povertà, della loro miseria, della loro incapacità, della loro tristezza, gridano con Paolo: me infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte.
Il segreto della vita cristiana è che questa divisione interiore, questa parte di tenebra che è in noi, questa quotidiana esperienza della nostra debolezza non solo non ci allontanano dal Signore, non solo non sono un ostacolo per la vita dello Spirito in noi, ma anzi sono la condizione per una vita spirituale sana, per accedere ad una santità autentica.
Per questo Paolo può affermare io mi compiaccio nelle mie debolezze, infatti è quando sono debole che sono forte. Solo se siamo deboli, o piuttosto, solo se siamo coscienti della nostra debolezza, della nostra povertà, della nostra miseria, possiamo lasciarci raggiungere dall’appello, dalla chiamata di Gesù che risuona nel vangelo di oggi: Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro.
Chi non è stanco, chi non è oppresso, non percepisce questa chiamata di Gesù, non ha bisogno di lui, va per la propria strada. Gesù non ci promette la perfezione in questa vita, né che non ci saranno più sofferenze interiori ed esteriori, non ci libera neanche dalla dolorosa esperienza di non riuscire a corrispondere al suo amore per noi, ma ci chiama a sé: Venite a me! Nella nostra quotidiana esperienza di fatica e oppressione ci offre la condivisione, prende il nostro peso su di sé, non per dispensarci dal portarlo noi, ma per portarlo con noi.
Il nostro vero peccato, infatti, non è in questa miseria che ci portiamo dentro, anche quando ci conduce a fare dei gesti di cui poi ci pentiamo. Il vero peccato è nell’orgoglio, nel credere di non aver bisogno del Signore. Per questo, allora, ben venga l’esperienza della nostra debolezza e della nostra miseria, se con essa viene anche la possibilità di sentire il Signore che ci chiama e se con questa chiamata viene il ristoro che Gesù vuole offrirci con la sua misericordia, con il suo amore e con il suo perdono.
L’illusione della perfezione dom Luigi Gioia XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (09/07/2017) Vangelo: Zc 9,9-10; Sal 145; Rm 8,9,11-13; Mt 11,25-30 Visualizza Mt 11,25-30 Paolo afferma: Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Nel linguaggio paolino, ‘carne’ non indica prima di tutto la sessualità, ma invidie, gelosie, tristezze, risentimenti, cioè tutta la negatività che prolifera in noi quando ci ritroviamo in balia di forze interiori che non controlliamo e vittime di circostanze esteriori che ci soffocano e ci stritolano. Per Paolo, i cristiani, pur subendola, non sono sotto il dominio di questa negatività interiore ed esteriore, ma sotto l’influenza dello Spirito – e i frutti dello Spirito, i segni della presenza dello Spirito, sono l’amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza, il dominio di sé – come si legge nella lettera ai Galati. Perché allora, invece di questi sentimenti positivi, perdurano in noi quelli negativi, prevale il dominio della ‘carne’? Perché continuiamo a fare la dolorosa esperienza della nostra vulnerabilità nei confronti della negatività che è in noi e di quella che ci condiziona dall’esterno? Vuol forse dire che non siamo dei buoni cristiani, che non corrispondiamo veramente alla grazia, alla vita dello Spirito in noi? Il dramma della condizione umana non è tanto né prima di tutto quello di fare cose sbagliate, di peccare, ma la divisione interiore, la presenza in noi di una parte di tenebra che sfuggirà sempre al nostro controllo, fino alla fine, e contro la quale non possiamo nulla. Nella stessa lettera ai Romani Paolo parla della drammatica esperienza di questa divisione interiore quando afferma: Non riesco a capire ciò che faccio, infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto…. In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Dobbiamo lasciarci ricordare queste cose da Paolo non per autogiustificarci, non per compiacerci nel peccato, ma perché si tratta di una verità di cui non cessiamo di fare l’esperienza. Chi di noi non desidera diventare migliore? Chi di noi non ha cercato di lottare contro aspetti della propria negatività interiore per superarla, sperimentando però la propria impotenza? Questo non vuol dire che la santità sia impossibile, ma che è necessario farsene una idea giusta. Santità infatti non vuol dire perfezione, cioè totale eliminazione della parte di ombra che c’è in noi. Questa non solo non sarebbe santità, ma potrebbe diventare una forma di orgoglio che invece di migliorarci ci renderebbe più ipocriti, alimenterebbe in noi l’illusione di essere autosufficienti, superiori agli altri, di non avere più bisogno di nessuno, nemmeno del Signore. Sarebbe insomma una caricatura della santità che ci farebbe rientrare nella categoria dei sapienti e dei dotti di cui parla Gesù nel vangelo di oggi: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti. I ‘sapienti’ e i ‘dotti’ rappresentano coloro i quali, per la loro scienza o la loro presunta perfezione morale, si considerano superiori agli altri e autosufficienti. Riguardo a costoro Gesù dice che le cose del regno dei cieli sono loro nascoste, cioè che la loro perfezione li fa resi impermeabili alla possibilità di conversione. Invece a chi è promessa questa rivelazione? Chi Gesù chiama a sé? Chi vuole consolare? A chi vuole dare ristoro? Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. È ai ‘piccoli’, a coloro che sono affaticati e oppressi, a coloro che, nella quotidiana esperienza della loro povertà, della loro miseria, della loro incapacità, della loro tristezza, gridano con Paolo: me infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte. Il segreto della vita cristiana è che questa divisione interiore, questa parte di tenebra che è in noi, questa quotidiana esperienza della nostra debolezza non solo non ci allontanano dal Signore, non solo non sono un ostacolo per la vita dello Spirito in noi, ma anzi sono la condizione per una vita spirituale sana, per accedere ad una santità autentica. Per questo Paolo può affermare io mi compiaccio nelle mie debolezze, infatti è quando sono debole che sono forte. Solo se siamo deboli, o piuttosto, solo se siamo coscienti della nostra debolezza, della nostra povertà, della nostra miseria, possiamo lasciarci raggiungere dall’appello, dalla chiamata di Gesù che risuona nel vangelo di oggi: Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro. Chi non è stanco, chi non è oppresso, non percepisce questa chiamata di Gesù, non ha bisogno di lui, va per la propria strada. Gesù non ci promette la perfezione in questa vita, né che non ci saranno più sofferenze interiori ed esteriori, non ci libera neanche dalla dolorosa esperienza di non riuscire a corrispondere al suo amore per noi, ma ci chiama a sé: Venite a me! Nella nostra quotidiana esperienza di fatica e oppressione ci offre la condivisione, prende il nostro peso su di sé, non per dispensarci dal portarlo noi, ma per portarlo con noi. Il nostro vero peccato, infatti, non è in questa miseria che ci portiamo dentro, anche quando ci conduce a fare dei gesti di cui poi ci pentiamo. Il vero peccato è nell’orgoglio, nel credere di non aver bisogno del Signore. Per questo, allora, ben venga l’esperienza della nostra debolezza e della nostra miseria, se con essa viene anche la possibilità di sentire il Signore che ci chiama e se con questa chiamata viene il ristoro che Gesù vuole offrirci con la sua misericordia, con il suo amore e con il suo perdono.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 7 juillet, 2017 |Pas de commentaires »

Angelo

en paolo byzantine angel - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 6 juillet, 2017 |Pas de commentaires »
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