Archive pour juin, 2017

OMELIA SS. TRINITÀ

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IL NOSTRO DIO È IMMENO NELL’AMORE ED INFINITO NELLA MISERICORDIA

padre Antonio Rungi

Santissima Trinità (Anno A) (11/06/2017)

Il mistero della Santissima Trinità che celebriamo oggi con un’apposita liturgia della parola e dell’Eucaristia, ci sostiene nella profonda convinzione della nostra fede, nel Dio Uno e Trino, che il nostro Dio è grande nell’amore ed immenso nella sua misericordia.
Padre, Figlio e Spirito Santo è la grande rivelazione che Gesù Cristo, nostro Salvatore, fa all’uomo nella sua venuta sulla terra, quale redentore, inviato dal Padre, la cui missione, una volta completata con la sua ascensione al cielo, viene continuata dall’azione dello Spirito Santo che « procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti » (Credo). Questo Dio Uno e Trino, è vicino a noi e vive dentro di noi. Questo Dio che è Uno nella natura, Trino nelle persone, forte ed immenso nell’amore, generoso nel concedere il perdono.
Nella preghiera della colletta di questa festività, noi, infatti, ci rivolgiamo con queste bellissime espressioni di fede: « O Dio Padre, che hai mandato nel mondo il tuo Figlio, Parola di verità, e lo Spirito santificatore per rivelare agli uomini il mistero della tua vita, fa’ che nella professione della vera fede riconosciamo la gloria della Trinità e adoriamo l’unico Dio in tre persone.
Dal brano della prima lettura di questa festa, ci vengono indicati alcuni attribuiti essenziali di Dio, così come sono descritti nel testo dell’Esodo, che narra la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto, del passaggio del Mar Rosso e della comunicazione di Dio della sua fondamentale volontà, scritta e fissata nei Dieci Comandamenti, dati a Mosè sul Monte Sinai, dove Egli stipula con l’uomo una prima fondamentale alleanza, quella appunto sinaitica. Infatti leggiamo che « in quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Dio si autorivela, si dichiara per quello che Egli è sostanzialmente: un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà ».
Come si vede, è un Dio che prende l’iniziativa per farsi conoscere e per dire all’uomo, che non è solo, ma oltre di Lui che un Essere superiore che lo sostiene nel cammino della vita e della storia e che cammina al suo fianco non con le armi e le frecce in mano, né con la potenza del governo di ogni genere umano e terreno, ma con l’amore, la tenerezza e la bontà di un Padre, che guarda davvero nel cuore di ogni suo figlio, comprendendolo e rassicurandolo nelle sue fragilità.
Lo stesso salmo responsoriale, tratto da libro di Daniele è un inno di lode e di riconoscenza al nostro Dio, il cui nome è glorioso e santo. Egli che penetra con lo sguardo gli abissi siede sui cherubini.
Nel brano della seconda lettura di questa festa, Paolo Apostolo, scrivendo ai Corinzi, ci raccomanda di essere gioiosi, di tendere alla perfezione, di farci coraggio a vicenda nella prova, di avere gli stessi sentimenti e di vivere in pace con se stessi, con gli altri e soprattutto con Dio.
Nel testo di questo brano viene riportato il noto saluto iniziale della celebrazione eucaristica o di apertura di varie liturgia, che ben conosciamo e che ci riporta nel mistero della Santissima Trinità: « La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi ».
Ebbene, davvero facciamo sì che la santissima Trinità inabiti in noi e ci dia tutta quella forza che ci serve per camminare nella vita di tutti i giorni, verso il traguardo finale dell’eternità, dove vedremo Dio faccia a faccia, così come Egli è, e sapremo la verità di tutto quello che abbiamo creduto, amato e sperato nel tempo, non senza dubbi e problemi. In questa fede nella santissima Trinità, siamo cresciuti e siamo stati allattati con il latte spirituale dei nostri genitori e di quanti ci hanno educati ad alzarci al mattino e farci il segno della Croce, per iniziare il nuovo giorno sotto la protezione di Dio e così, man mano per tutta la giornata, nelle varie attività e celebrazione, nei vari spostamenti, passando davanti ad una chiesa o un cimitero o fermandosi in sosta davanti ad una icona della Vergine Santissima, la Madre di Dio e Madre di nostro Signore Gesù Cristo. Quel Dio che, come ci ricorda San Giovanni nel brano del Vangelo di questa festa che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio». Il mistero della santissima Trinità è un mistero d’amore infinito e di misericordia senza limiti. Egli da cielo sa e conosce ogni nostra esigenze e bisogno e con autorevolezza di Padre ci sostiene nel cammino del pellegrinaggio terreno, indicando nel suo Figlio, morto e risorto, la strada maestra per andare in cielo e lasciandoci guidare dallo Spirito Santo, consolatore perfetto e dolce ospite della nostra vita di credenti.
Sia questa la nostra preghiera in onore della Santissima Trinità: « Padre della vita, che con infinito amore guardi e custodisci coloro che hai creato, ti ringraziamo per tutti i tuoi doni. Ascoltaci quando ti invochiamo, sostienici quando vacilliamo, perdona ogni nostro peccato. Signore Gesù, Salvatore del mondo, che hai preso su di te i pesi e i dolori dell’umanità, ti affidiamo ogni nostra sofferenza. Quando non siamo compresi, consolaci, nell’inquietudine donaci la pace, se siamo considerati ultimi, tu rendici primi. Spirito Santo, consolatore degli afflitti e forza di coloro che sono nella debolezza, ti imploriamo: scendi su di noi. Con il tuo conforto, il pellegrinaggio della nostra vita sia un cammino di speranza verso l’eternità beata del tuo Regno. Amen » (Card Dionigi Tettamanzi).

Pentecoste, Romania, anonimo

Painting from roumania  anonymous

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BENEDETTO XVI (la preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo)

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BENEDETTO XVI (la preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 14 marzo 2012

Cari fratelli e sorelle,

con la Catechesi di oggi vorrei iniziare a parlare della preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. San Luca ci ha consegnato, come sappiamo, uno dei quattro Vangeli, dedicato alla vita terrena di Gesù, ma ci ha lasciato anche quello che è stato definito il primo libro sulla storia della Chiesa, cioè gli Atti degli Apostoli. In entrambi questi libri, uno degli elementi ricorrenti è proprio la preghiera, da quella di Gesù a quella di Maria, dei discepoli, delle donne e della comunità cristiana. Il cammino iniziale della Chiesa è ritmato anzitutto dall’azione dello Spirito Santo, che trasforma gli Apostoli in testimoni del Risorto sino all’effusione del sangue, e dalla rapida diffusione della Parola di Dio verso Oriente e Occidente. Tuttavia, prima che l’annuncio del Vangelo si diffonda, Luca riporta l’episodio dell’Ascensione del Risorto (cfr At 1,6-9). Ai discepoli il Signore consegna il programma della loro esistenza votata all’evangelizzazione e dice: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). A Gerusalemme gli Apostoli, rimasti in Undici per il tradimento di Giuda Iscariota, sono riuniti in casa per pregare, ed è proprio nella preghiera che aspettano il dono promesso da Cristo Risorto, lo Spirito Santo.
In questo contesto di attesa, tra l’Ascensione e la Pentecoste, san Luca menziona per l’ultima volta Maria, la Madre di Gesù, e i suoi familiari (v. 14). A Maria ha dedicato gli inizi del suo Vangelo, dall’annuncio dell’Angelo alla nascita e all’infanzia del Figlio di Dio fattosi uomo. Con Maria inizia la vita terrena di Gesù e con Maria iniziano anche i primi passi della Chiesa; in entrambi i momenti il clima è quello dell’ascolto di Dio, del raccoglimento. Oggi, pertanto, vorrei soffermarmi su questa presenza orante della Vergine nel gruppo dei discepoli che saranno la prima Chiesa nascente. Maria ha seguito con discrezione tutto il cammino di suo Figlio durante la vita pubblica fino ai piedi della croce, e ora continua a seguire, con una preghiera silenziosa, il cammino della Chiesa. Nell’Annunciazione, nella casa di Nazaret, Maria riceve l’Angelo di Dio, è attenta alle sue parole, le accoglie e risponde al progetto divino, manifestando la sua piena disponibilità: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua volontà» (cfr Lc 1,38). Maria, proprio per l’atteggiamento interiore di ascolto, è capace di leggere la propria storia, riconoscendo con umiltà che è il Signore ad agire. In visita alla parente Elisabetta, Ella prorompe in una preghiera di lode e di gioia, di celebrazione della grazia divina, che ha colmato il suo cuore e la sua vita, rendendola Madre del Signore (cfr Lc 1,46-55). Lode, ringraziamento, gioia: nel cantico del Magnificat, Maria non guarda solo a ciò che Dio ha operato in Lei, ma anche a ciò che ha compiuto e compie continuamente nella storia. Sant’Ambrogio, in un celebre commento al Magnificat, invita ad avere lo stesso spirito nella preghiera e scrive: «Sia in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore; sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio» (Expositio Evangelii secundum Lucam 2, 26: PL 15, 1561).
Anche nel Cenacolo, a Gerusalemme, nella «stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi» i discepoli di Gesù (cfr At 1,13), in un clima di ascolto e di preghiera, Ella è presente, prima che si spalanchino le porte ed essi inizino ad annunciare Cristo Signore a tutti i popoli, insegnando ad osservare tutto ciò che Egli aveva comandato (cfr Mt 28,19-20). Le tappe del cammino di Maria, dalla casa di Nazaret a quella di Gerusalemme, attraverso la Croce dove il Figlio le affida l’apostolo Giovanni, sono segnate dalla capacità di mantenere un perseverante clima di raccoglimento, per meditare ogni avvenimento nel silenzio del suo cuore, davanti a Dio (cfr Lc 2,19-51) e nella meditazione davanti a Dio anche comprenderne la volontà di Dio e divenire capaci di accettarla interiormente. La presenza della Madre di Dio con gli Undici, dopo l’Ascensione, non è allora una semplice annotazione storica di una cosa del passato, ma assume un significato di grande valore, perché con loro Ella condivide ciò che vi è di più prezioso: la memoria viva di Gesù, nella preghiera; condivide questa missione di Gesù: conservare la memoria di Gesù e così conservare la sua presenza.
L’ultimo accenno a Maria nei due scritti di san Luca è collocato nel giorno di sabato: il giorno del riposo di Dio dopo la Creazione, il giorno del silenzio dopo la Morte di Gesù e dell’attesa della sua Risurrezione. Ed è su questo episodio che si radica la tradizione di Santa Maria in Sabato. Tra l’Ascensione del Risorto e la prima Pentecoste cristiana, gli Apostoli e la Chiesa si radunano con Maria per attendere con Lei il dono dello Spirito Santo, senza il quale non si può diventare testimoni. Lei che l’ha già ricevuto per generare il Verbo incarnato, condivide con tutta la Chiesa l’attesa dello stesso dono, perché nel cuore di ogni credente «sia formato Cristo» (cfr Gal 4,19). Se non c’è Chiesa senza Pentecoste, non c’è neanche Pentecoste senza la Madre di Gesù, perché Lei ha vissuto in modo unico ciò che la Chiesa sperimenta ogni giorno sotto l’azione dello Spirito Santo. San Cromazio di Aquileia commenta così l’annotazione degli Atti degli Apostoli: «Si radunò dunque la Chiesa nella stanza al piano superiore insieme a Maria, la Madre di Gesù, e insieme ai suoi fratelli. Non si può dunque parlare di Chiesa se non è presente Maria, Madre del Signore… La Chiesa di Cristo è là dove viene predicata l’Incarnazione di Cristo dalla Vergine, e, dove predicano gli apostoli, che sono fratelli del Signore, là si ascolta il Vangelo » (Sermo 30,1: SC 164, 135).
Il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare in modo particolare questo legame che si manifesta visibilmente nel pregare insieme di Maria e degli Apostoli, nello stesso luogo, in attesa dello Spirito Santo. La Costituzione dogmatica Lumen gentium afferma: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste “perseveranti d’un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli” (At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che all’Annunciazione l’aveva presa sotto la sua ombra» (n. 59). Il posto privilegiato di Maria è la Chiesa, dove è «riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro…, figura ed eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità» (ibid., n. 53).
Venerare la Madre di Gesù nella Chiesa significa allora imparare da Lei ad essere comunità che prega: è questa una delle note essenziali della prima descrizione della comunità cristiana delineata negli Atti degli Apostoli (cfr 2,42). Spesso la preghiera è dettata da situazioni di difficoltà, da problemi personali che portano a rivolgersi al Signore per avere luce, conforto e aiuto. Maria invita ad aprire le dimensioni della preghiera, a rivolgersi a Dio non solamente nel bisogno e non solo per se stessi, ma in modo unanime, perseverante, fedele, con un «cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32).
Cari amici, la vita umana attraversa diverse fasi di passaggio, spesso difficili e impegnative, che richiedono scelte inderogabili, rinunce e sacrifici. La Madre di Gesù è stata posta dal Signore in momenti decisivi della storia della salvezza e ha saputo rispondere sempre con piena disponibilità, frutto di un legame profondo con Dio maturato nella preghiera assidua e intensa. Tra il venerdì della Passione e la domenica della Risurrezione, a Lei è stato affidato il discepolo prediletto e con lui tutta la comunità dei discepoli (cfr Gv 19,26). Tra l’Ascensione e la Pentecoste, Ella si trova con e nella Chiesa in preghiera (cfr At 1,14). Madre di Dio e Madre della Chiesa, Maria esercita questa sua maternità sino alla fine della storia. Affidiamo a Lei ogni fase di passaggio della nostra esistenza personale ed ecclesiale, non ultima quella del nostro transito finale. Maria ci insegna la necessità della preghiera e ci indica come solo con un legame costante, intimo, pieno di amore con suo Figlio possiamo uscire dalla «nostra casa», da noi stessi, con coraggio, per raggiungere i confini del mondo e annunciare ovunque il Signore Gesù, Salvatore del mondo. Grazie.

 

Angelo musicante

en e paolo Melozzo_da_forlì,_angeli_musicanti - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 7 juin, 2017 |Pas de commentaires »

L’ARMATURA DEL CRISTIANO, INTRODUZIONE – EFESINI 6:10-13

https://www.mpe-locarno.ch/2015/05/17/l-armatura-del-cristiano-introduzione-efesini-6-10-13/

L’ARMATURA DEL CRISTIANO, INTRODUZIONE – EFESINI 6:10-13

(Chiesa evangelica)

17/05/2015

Oggi iniziamo una serie di prediche sull’armatura del cristiano. Questa mattina farò un’introduzione al tema, cercheremo di capire cos’è quest’armatura e perché ne abbiamo bisogno, mentre nelle prossime domeniche ci addentreremo nei singoli elementi che compongono l’armatura vedendo più concretamente e praticamente a cosa servono e come possiamo usarli. L’idea di questo tema è quello di riuscire concretamente a mettere in pratica l’uso di quest’armatura ed a questo scopo dalla prossima volta vi offriremo degli spunti molto concreti che potrete coltivare durante la settimana. Detto questo, possiamo cominciare.
«Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. 11 Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo; 12 il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. 13 Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio, e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere.» — Efesini 6:10-13. —
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1. È tempo di guerra!
Cosa vi viene in mente se dico “armatura”? Nessuno pensa all’armatura per fare giardinaggio o per andare a nuotare. Se taglio le rose del giardino uso dei guanti e magari una maglia a maniche lunghe, se invece vado in piscina indosso un costume. Andare in piscina con un’armatura significa “restarci” nella piscina. Nella vita facciamo diverse attività e per ognuna di questa indossiamo degli abiti diversi. Se andiamo al lavoro ci vestiamo in un certo modo, se pratichiamo dello sport in un altro, se andiamo ad un matrimonio in una altro ancora. È perciò chiaro che quando Paolo dice «rivestitevi della completa armatura di Dio» (v. 11) si sta immaginando una guerra, una battaglia uno scontro violento. Con molta probabilità Paolo, mentre scriveva queste parole, era incatenato ad un soldato romano e nel guardarlo vede la sua corazza, lo scudo, l’elmo, la spada,… ed immagina un collegamento diretta fra un soldato ed un cristiano. Come un soldato romano aveva bisogno di un’armatura per difendersi nelle diverse battaglie che si trovava ad affrontare, allo stesso modo il cristiano nella sua vita affronta quotidianamente delle battaglie per le quali ha bisogno di un’armatura. Non sto dicendo nulla di complicato o straordinario, eppure molte volte noi credenti ci comportiamo come un soldato romano che va in battaglia senza armatura. Questo soldato potrebbe anche essere più forte, più agile, più veloce dei suoi nemici ma potete stare certi che senza armatura verrebbe ucciso in pochissimo tempo. Non è forse così che ci comportiamo anche noi? Come credenti siamo consapevoli che c’è una guerra intorno e contro di noi? Oppure sottovalutiamo la cosa comportandoci camminando nel mezzo della battaglia senza armatura? ?Grazie a Dio nella mia vita non mi sono mai trovato a dover affrontare una guerra, come è successo ad alcuni dei nostri nonni. Quel poco che so sulla guerra l’ho imparato dai film, o da qualche libro. Però posso immaginare che un soldato viva nella costante aspettativa che da un momento all’altro potrebbe accadere qualcosa di tremendo. Anche quando dorme in realtà è vigilante ed al minimo rumore è pronto con l’arma in mano. Questo è il giusto atteggiamento di chi si trova nel mezzo di una guerra, di chi è consapevole che distrarsi anche solo per un momento potrebbe costargli un braccio, una gamba, o la vita stessa.
?Paolo ci sta dicendo che come cristiani siamo nel mezzo di una battaglia (v. 12) ma ne siamo effettivamente consapevoli? Viviamo la nostra vita cristiana come soldati sempre pronti, vigili, attenti? Chi ci osserva vede un soldato che si tiene in costante allenamento, oppure vede qualcuno che sonnecchia un po, incurante che il nemico potrebbe attaccarlo da un momento all’altro?
Alle 7:50 del 7 dicembre 1941, i Giapponesi attaccarono le installazioni militari americane a Perl Harbor, nelle isole Hawaii. Un attacco a sorpresa, tremendo, che colse gli americani totalmente impreparati. In una base americana gli aerei erano addirittura allineati allo scoperto sulle piste da volo, senza alcuna protezione. Nei giorni precedenti all’attacco un colonnello aveva fatto notare al generale il pericolo di una simile disposizione ma il generale, non volendo allarmare la popolazione con disposizioni da tempo di guerra, decise di lasciare gli aerei in quel modo. Fu un errore gravissimo ma è un errore che commettiamo anche noi quando non viviamo la fede cristiana nella prospettiva della guerra. Nella nostra mente affiorano pensieri come «Massì, me ne occuperò quando mi si presenterà il problema» oppure «Tanto sono in grado di resistere, ormai mi conosco» o ancora «Perché allarmare gli altri? Tanto so gestirla da solo», smetto quando voglio…, non è così grave…, cosa vuoi che sia…. tutte espressioni con le quali diciamo a noi stessi che non c’è nessuna guerra di cui preoccuparsi, possiamo tranquillamente sonnecchiare.?Spero di avervi convinto riguardo la necessità di rendersi conto che come cristiani siamo in guerra, ma di che guerra stiamo parlando? Dove si svolge questa guerra? Di che tipo di guerra si tratta? E sopratutto, contro chi stiamo combattendo?
2. Gli inganni del nemico
Il testo che stiamo trattando si trova alla fine della lettera agli Efesini, proprio prima dei saluti finali. Nella prima parte della lettera Paolo mette tutto il suo impegno per trasmettere verità fondamentali come: il nostro stato di peccatori, la nostra impossibilità di salvarci da soli, l’intervento divino per la nostra salvezza, il Sigillo dello Spirito santo come certezza della salvezza, l’unità dei salvati come un unico corpo. Nella seconda parte passa a descrivere come queste verità si devono applicare nella vita quotidiana e solo alla fine ci parla dell’armatura ed il combattimento. Come Paolo fa questa chiara distinzione, allo stesso modo dobbiamo farla noi, perché la battaglia di cui stiamo parlando, non è una battaglia per la nostra salvezza. Lo ripeto: la battaglia di cui stiamo parlando, non è una battaglia per la nostra salvezza. Quella battaglia è già descritta nei primi capitoli, ed è una battaglia ormai ampiamente vinta da Dio per noi. Anzi, è proprio perché Lui ha vinto che noi possiamo indossare ora la sua armatura! Ma a cosa ci serve quest’armatura se Lui ha già vinto? Perché dobbiamo ancora combattere se il nemico è stato sconfitto??
Voglio provare a spiegarlo con un esempio molto concreto: immagina che siamo nella seconda guerra mondiale e dei soldati della resistenza, che combattono contro il regime nazista, sono riusciti a conquistare un piccolo paesino dove si sono appostati. Un giorno giunge loro la notizia che Berlino è sotto attacco, la guerra è ormai vinta! Questa notizia fa gioire i soldati della resistenza che ormai da mesi dalla loro postazione respingevano gli attacchi nazisti. Ora però, anche se attraverso la radio hanno sentito che probabilmente la guerra è vinta, non possono semplicemente togliersi la divisa, buttare le armi ed incamminarsi verso casa in tutta tranquillità. Perché esiste ancora la possibilità che dei soldati nemici siano lì intorno pronti a sferrare un attacco mortale pur sapendo che la loro guerra è persa. La battaglia che come credenti combattiamo è uguale, sappiamo che la guerra è vinta, il nostro alleato Gesù Cristo ha sconfitto il nemico per noi ma fino a quando il Suo regno non sarà instaurato ovunque, e satana eliminato per sempre, sappiamo che il nemico è in agguato pronto a ferirci e ad ucciderci, pur sapendo di aver perso. Satana prova un odio contro Dio e contro i suoi figli, che noi non possiamo nemmeno immaginare. Anche se sa di aver perso la guerra farà di tutto per farci del male, e per raggiungere questo scopo usa due strategie ben precise:
La prima consiste nel farci credere che non siamo più in tempo di guerra. Gesù ha vinto, ora possiamo fare quello che vogliamo, possiamo pure starcene tranquilli.
La seconda consiste nel confonderci le idee sul tipo di guerra che stiamo combattendo. Ritorniamo per un momento alla seconda guerra mondiale, i soldati hanno ricevuto la notizia che la guerra è vinta, Berlino è stata invasa. Per un momento un soldato della resistenza che era di guardia si rilassa e non si accorge della presenza di un Nazista che appostato dietro un muro gli spara e lo ferisce ad un braccio. Il soldato cade a terra sanguinante e sofferente, magari per salvargli la vita bisognerà amputargli il braccio, o magari morirà ma indipendentemente da quale sarà il suo destino la guerra è stata vinta! Se come credenti perdiamo delle battaglie spirituali, questo non annulla il fatto che Gesù ha vinto la guerra per la nostra anima. Ogni volta che sbagliamo, ogni volta che pecchiamo, che cadiamo negli stessi errori, negli stessi sbagli, negli stessi pensieri, il nemico vuole farci credere che abbiamo perso l’intera guerra ma non è così! Sta solo mischiando le carte in tavola per distogliere il nostro sguardo da Dio e mettere in dubbio la nostra fede in Lui.
Dobbiamo perciò fissare chiaramente nella nostra mente che Paolo non sta qui descrivendo la battaglia per la salvezza della nostra anima, quella è stata già ampiamente vinta da Gesù sulla croce e confermata con la sua risurrezione.
Perciò per cosa dobbiamo combattere? Paolo dice al versetto 11 «Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo» e lo ribadisce nel 13 «Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio, e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere» l’apostolo non sta qui immaginando una battaglia attiva alla conquista di qualcosa, non ci sta invitando ad indossare l’armatura ed attaccare il nemico. No! Ci sta dicendo che l’armatura ci serve per stare saldi là dove siamo e nelle cose che abbiamo ricevuto. Dobbiamo difendere quello che abbiamo! E cos’è che abbiamo ricevuto? Quando arrivate a casa provate a leggere i primi capitoli di questa lettera agli Efesini. Sono immensi i doni che i credenti hanno ricevuto, a partire dalla gioia della salvezza al dono dello Spirito Santo, dalla comunione fraterna all’amore reciproco, tutto quello che abbiamo ricevuto come credenti è tantissimo e molto spesso non ce ne rendiamo conto. Se usassimo anche solo il 50% di ciò che abbiamo in Cristo la nostra vita sarebbe un’esplosione di benedizioni capace di contagiare chi ci sta attorno, quello che lo stesso Paolo al capitolo 5 versetto 18 descrive come «essere ripieni di spirito santo». Ecco, questo è esattamente quello che il nemico non vuole! Lui non vuole dei credenti ripieni di Spirito Santo che fanno la differenza nel mondo, vuole renderci innocui, inoffensivi, addormentati!
La sua gioia più grande è vedere credenti che litigano per questioni sciocche, è vedere cristiani che non si assumono compiti in chiesa perché si sentono inadeguati, gioisce quando per qualche peccato riesce ad isolare un credente e fargli credere che forse Dio non lo ama, oppure quando insinua nel credente un senso di superiorità che gli impedisce di collaborare con gli altri credenti, perché li reputa inadeguati, troppo poco spirituali, dubita che loro vogliono veramente servire Dio. C. S. Lewis, famosissimo scrittore e filosofo evangelico, ha scritto un libro di fantasia che si chiama “Le lettere di Berlicche”, dove è raccontato come un funzionario di satana di grande esperienza istruisce un giovane diavolo apprendista, suo nipote. Il giovane diavolo deve occuparsi di un ragazzo che si è da poco convertito al cristianesimo, così il libro è composto da una serie di lettere in cui lo zio illustra quelli che sono i metodi migliori per far desistere il nuovo credente. È un libro che ho apprezzato molto, spesso mi ha fatto ridere di me stesso perché mi identificavo nel credente e negli errori che l’apprendista diavolo lo spingeva a compiere. Una cosa che condivido del libro, è che questi diavoli non si inventano nulla di nuovo ma semplicemente sfruttano le situazioni che il credente sta vivendo. Ad esempio vedono che il credente sta diventando umile, allora lo zio dice all’apprendista diavolo, fagli notare che è sempre più umile, così che diventi orgoglioso per questo. Oppure vedono come il credente goda dei piaceri della vita, allora lo zio insegna al giovane che questi piaceri vengono da Dio e quello che deve fare è incoraggiare il credente ad usare i piaceri nel modo e nella misura sbagliata. Quello che voglio dire è che è vero che al versetto 12 Paolo dice che il nostro combattimento è contro «i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti» questo è vero ma loro possono agire solo nella misura in cui noi lo permettiamo. Nella misura del nostro peccato, delle nostre debolezze. Loro fanno leva su tutto ciò che c’è di sbagliato in noi, il nostro orgoglio, il nostro attaccamento al denaro, il desiderio di apparire di essere al centro, l’egoismo, la mancanza di misericordia, tutte cose che già vivono in noi anche senza l’intervento esterno di nessuno. Sono queste le cose contro le quali dobbiamo combattere, quello che il nemico fa è semplicemente portarle alla luce, alimentarle. La nostra battaglia non consiste perciò nel cercare ovunque in ogni cosa la mano del Diavolo ma combattere noi stessi, la nostra guerra non è contro altre religioni, filosofie, o altre persone ma contro noi stessi. È contro ogni impulso che ci spinge ad essere violenti con gli altri. Io devo combattere contro Simone Monaco, contro ogni pensiero che mi spinge a fare pace e compromesso con il peccato, contro la mia pigrizia, contro la mia arroganza, contro la mia propensione a parlare male degli altri.
Un predicatore racconta che una volta lo invitarono a predicare in una chiesa carismatica, arrivato il tempo delle testimonianze molti cominciarono a raccontare come satana durante la settimana gli aveva creato problemi, di come li aveva messi in difficoltà, di come li aveva tentati. Ad un certo punto questo predicatore prende la parola e dice che entrando in quella chiesa, fuori dalla porta aveva visto satana che piangeva. Le persone guardano il predicatore con occhi sgranati. Il predicatore continua dicendo di aver chiesto a satana il motivo del suo pianto, satana risponde che era dovuto al fatto che in quella chiesa lo incolpavano di un mucchio di cose di cui lui non c’entrava niente. Non dobbiamo avviare battaglie apparentemente spirituali contro qualsiasi cosa si muove perché dietro ci vediamo satana. Paolo non ci insegna questo e nemmeno gli altri scrittori della Bibbia ce lo insegnano. Quello che ci insegnano è ha rivestirci dell’armatura di Cristo e stare fermi là dove siamo e quando arriverà un attacco lo respingeremo grazie all’armatura fino a quando non arriverà il prossimo.
3. La forza per vincere.
Rimane un ultimo aspetto da trattare senza il quale tutto quello che ho detto sarebbe inutile. Infatti dobbiamo considerare che il nostro nemico, satana, è infinitamente più forte di noi, ha migliaia di anni d’esperienza, sa esattamente quali sono i nostri punti deboli. Potremmo anche avere una buona armatura ma a furia di colpirci ci sfiancherà! Non a caso però l’intero discorso di Paolo sull’armatura comincia con una frase che è il fondamento su cui costruire «…fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza» (v. 10). “Fortificatevi”, o meglio tradotto “siate resi forti”, il termine usato nel greco indica un’azione costante che si ripete nel tempo. Continuamente e quotidianamente abbiamo la necessità di essere resi forti nel Signore. Il testo non dice “dal Signore” ma “nel Signore” perché questo indica una vita vissuta in unione con Lui. Gesù lo disse in Giovanni 15:5 «Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete fare nulla.» tutti i bellissimi discorsi sull’armatura hanno come presupposto il fatto che noi ci fortifichiamo nel Signore, o per dirla diversamente, che viviamo una vita in unione con Lui. Altrimenti la nostra armatura sarà come un’armatura di cartone, magari all’apparenza funziona ma quando arrivano le prove vere è del tutto inefficace.
Immaginate di combattere un carro armato con una spada, oppure chi vincerebbe in uno scontro fra un pugile ed una mitragliatrice? Si tratta di livelli completamente diversi, sarebbe uno scontro impari, un pugile deve combattere contro un altro pugile per avere qualche possibilità. Così anche noi non possiamo pensare di combattere questa battaglia con delle armi inadeguate. Troppo spesso pensiamo di riuscire a farcela con le nostre forze, di essere in grado di resistere alle difficoltà da soli. Non stiamo combattendo una battaglia fisica che avviene nel mondo materiale, Paolo dice «contro le potenze spirituali della malvagità» (v. 12), per questo abbiamo bisogno innanzitutto di una forza sovrannaturale che non viene da noi deriva da noi stessi e poi della armi capaci di entrare in quel mondo spirituale, abbiamo bisogno di un armatura capace di respingere gli attacchi in modo adeguato e questa è l’armatura di Dio. Dio vince la guerra, Dio ci dona l’armatura e in Dio riceviamo le forze per combattere.
Per chiudere vi propongo delle considerazioni, delle domande, degli spunti sui quali riflettere:
La Bibbia offre una visone della vita cristiana come quella di un corridore, un atleta, un guerriero, figure consapevoli di quanto sia importante l’autodisciplina e l’allenamento. Vivi in questa prospettiva, o senti piuttosto la fede come una vacanza?
Quando sei vittorioso nelle battaglie della fede sei felice? E quando invece ne esci sconfitto? La tua gioia dipende dalla tua capacità di vincere le difficoltà della vita o da ciò che Cristo ha fatto per te?
Non siamo abbastanza forti per respingere gli attacchi del diavolo ma il nostro Padre celeste sì! Impariamo a vivere una vita uniti a Lui.
Nella chiesa tutti vivono questa battaglia, aiutiamoci a vicenda, non avendo paura di ammettere le nostre debolezze ed i nostri limiti.
Come chiesa dobbiamo camminare uniti e compatti, occupandoci di chi è stanco, ferito e debole.
Quando come credente cadi e fallisci cerchi prima la colpa intorno a te o dentro di te? Ricorda che il compito del nemico è solo quello di tirare fuori il peggio che già risiede in noi.
Il primo inganno del Diavolo nella Genesi, fu quello di fare credere all’uomo di essere indipendente e di poter fare a meno di Dio. Come una foglia che pensa di poter continuare a vivere separata dall’albero che la porta. Non lasciamoci ingannare ancora, non potremo mai avere una vita piena, abbondante e vittoriosa, se non viviamo uniti al Signore. Amen.

Simone Monaco
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Missione Popolare Evangelica

 

Publié dans:Lettera agli Efesini |on 7 juin, 2017 |Pas de commentaires »

San Paolo Apostolo

en  poalo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 5 juin, 2017 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO – GALATI 3,26-29

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BRANO BIBLICO SCELTO – GALATI 3,26-29

Fratelli, 26 tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, 27 poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo.
28 Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.
29 E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.

COMMENTO
Galati 3,26-29
L’unità dei credenti in Cristo
La seconda sezione della lettera ai Galati (3,1 – 4,31) si divide in due parti che trattano rispettivamente il tema biblico di Abramo (3,6-29) e quello della libertà e dell’adozione filiale (4,1-31). Il brano liturgico è la conclusione della prima parte di questa sezione. In essa Paolo vuole dimostrare che eredi di Abramo e delle promesse a lui conferite non si diventa mediante la legge, come i galati erano portati a pensare. La legge ha una funzione subordinata rispetto alla discendenza, in quanto custodisce l’uomo con precetti e norme fino alla venuta del Cristo (cfr. 3,19.24); è lui che ci libera dallo stato di minorità e ci rende partecipi della figliolanza divina ed eredi della promessa (3,14.18.22.24). Inoltre la legge non ha la funzione di dare la vita (cfr. 3,21) né di educare l’uomo a raggiungerla, ma di tenerlo rinchiuso sotto il peccato in attesa della giustificazione (3,22).
Paolo descrive il ruolo della legge paragonandola a un «pedagogo». Nell’antichità il «pedagogo» non era un educatore, ma uno schiavo che custodiva momentaneamente il bambino, imponendogli precetti e facendoglieli osservare con castighi e punizioni: la sua funzione era quindi ausiliaria nei confronti dei genitori, limitata nel tempo (finché il bambino era minorenne), senza un ruolo propriamente educativo, che competeva invece al maestro. Egli dunque, pur attribuendo alla legge un ruolo negativo, riconosce che essa se non altro ha fatto sentire all’uomo peccatore il bisogno di quella giustificazione che viene attuata da Dio non mediante la legge, ma in virtù della fede.
Paolo conclude la sua esposizione con queste parole: «Venuta poi la fede, non siamo più sotto il pedagogo» (v. 25). Con la venuta del Cristo la nostra dipendenza dalla legge-pedagogo è finita per sempre. Da questa premessa egli trae una conclusione che si articola in tre momenti: il battesimo ci trasforma in figli di Dio (vv. 26-27); ciò comporta la caduta delle barriere (v. 28); essi sono diventati discendenza di Abramo (v. 29).

Figli di Dio in forza del battesimo (vv. 26-27)
Per esprimere la liberazione dalla legge Paolo si rifà a un rito del battesimo: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (vv. 26-27). La dignità più alta conferita a chi crede in Cristo, Figlio di Dio, consiste nel diventare «figli di Dio». Per esprimere questo concetto, Paolo passa dalla prima persona plurale (v. 25: «non siamo più sotto un pedagogo»), alla seconda persona (v. 26: «Tutti siete figli di Dio … »): la venuta di Cristo ha portato dunque un cambiamento che riguarda non solo coloro che per nascita sono discendenti di Abramo, ma potenzialmente tutti gli esseri umani. Ciò avviene mediante il battesimo che rappresenta l’espressione pubblica dell’adesione di fede a Cristo. La fede cristiana infatti non è un’adesione soltanto mentale al mistero di Cristo, ma coinvolge anche il corpo del credente, facendolo diventare membro del corpo di Cristo e unendolo al mistero della sua morte e risurrezione (cfr. Rm 6,3-14). Diversamente dalla circoncisione, il battesimo non è un semplice rito, ma il segno di un rapporto esistenziale che si instaura tra due persone, quella del credente e quella di Cristo.
Per parlare del battesimo, Paolo non usa l’espressione «battezzare in Cristo», ma dice letteralmente «battezzare a Cristo ». Cristo, cioè, non è presentato come l’elemento in cui il credente viene immerso, ma come la persona alla quale il battesimo fa aderire. L’immersione si fa «nell’acqua» (Mt 3,11; cfr. 1 Cor 10,2) o «nello Spirito» (Mt 3,11; 1 Cor 12,13) in vista dell’unione «a Cristo». Il battesimo però non opera soltanto un cambiamento di relazione, ma anche un cambiamento nell’essere, che Paolo esprime con il verbo «rivestire». L’espressione «vi siete rivestiti di Cristo » non è troppo felice, perché suggerisce un cambiamento soltanto esterno, superficiale. Ma qui come in altri testi del Primo Testamento (ad esempio Is 61,10; Sal 132,16), la metafora del vestito è usata per esprimere l’idea di un cambiamento interiore. Il rivestirsi di Cristo implica dunque una trasformazione profonda che si riflette nell’identità stessa della persona (cfr. 1Cor 6,11).

La caduta delle barriere (v. 28)
Il rivestirsi di Cristo comporta conseguenze di ordine comunitario che Paolo esprime con una frase programmatica: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (v. 28). Con queste parole egli proclama l’abolizione, in Cristo, di tre barriere che dividono gli esseri umani, sul piano religioso, tra giudeo e greco, sul piano civile, tra schiavo e uomo libero, sul piano sessuale, tra maschio e femmina.
Sul piano religioso non c’è più «giudeo né greco». È questa la prima e la più importante delle barriere abbattute dal battesimo. Essa non riguarda il piano culturale, per il quale la coppia sarebbe, come in Rm 1,14, greco e barbaro (con la preminenza al greco), ma quello religioso, nel quale il giudeo riteneva di avere il primo posto. In quanto membro del popolo eletto, il giudeo si considerava privilegiato (cfr. Rm 2,17-20) e guardava con disprezzo il gentile (il non giudeo, chiamato «greco» perché si prendeva in considerazione solo il mondo ellenistico), considerato per definizione idolatra e peccatore (cfr. Gal 2,15; Ef 2,11-12). Per un giudeo come Paolo, dichiarare che questa distinzione religiosa fondamentale non esiste più rappresentava il colmo della sovversione in materia di religione. È facile perciò capire come Paolo abbia provocato l’ostilità accanita dei giudei e dei giudaizzanti. In Cristo, la distinzione è superata, perché chi è unito nella fede a Gesù risorto appartiene a una terza categoria, che è una «nuova creazione» (Gal 6,15), ugualmente accessibile al greco e al giudeo, dato che la sola condizione per entrarvi è la fede in Cristo morto e risorto.
La seconda barriera riguarda non tanto il piano civile, ma piuttosto quello sociale: «non c’è schiavo né libero». La distinzione tra schiavi e cittadini liberi era fondamentale per tutta l’organizzazione della società nel mondo greco-romano. Gli uomini liberi godevano di tutti i diritti politici e civili; gli schiavi erano privi di diritti e di dignità. Negare questa distinzione costituiva quindi ugualmente una presa di posizione sovversiva. In questo caso, Paolo menziona al primo posto lo schiavo, perché vuole mettere in risalto il superamento di questa condizione di oppressione, indegna di una persona umana. In Cristo risorto, ogni credente gode della piena dignità dell’uomo, perché in lui, uomo perfetto, si attua la sua vera vocazione che consiste nel dominio del mondo (cfr. Gn 1,26).
Si noti però che Paolo non nega soltanto la schiavitù, ma nega anche la condizione libera. Non dice: «Non c’è più schiavo, tutti sono liberi!», come ci si aspetterebbe; ma dice: «Non c’è schiavo né libero ». Il suo punto di vista non è quindi quello di una riforma della società, di una correzione delle ingiustizie. È un punto di vista più profondo; Paolo vuole definire la condizione dell’uomo in Cristo e precisamente a questo livello afferma che la condizione civile dell’individuo non ha alcun riflesso, non esiste. Altrove dice: «Lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un liberto affrancato del Signore; similmente chi è stato chiamato da libero, è schiavo di Cristo» (1Cor 7,22-23). Quindi in Cristo il credente è allo stesso tempo libero e schiavo oppure né schiavo né libero. C’è una relativizzazione radicale di queste categorie. Siccome questa relativizzazione non si attua sul piano terreno, non è possibile trarne conseguenze immediate per le strutture politiche e sociali. Importante è invece il cambiamento di mentalità e di comportamento, come indica chiaramente la Lettera a Filemone. Certo il cambiamento di mentalità produce necessariamente un cambiamento progressivo delle strutture, ma come conseguenza, non come punto di partenza.
La terza e ultima barriera è la più audace di tutte, perché riguarda la differenza sessuale e va direttamente contro il testo della Genesi sulla creazione. L’espressione è qui un po’ diversa dalle precedenti: fra i due termini, anziché mettere la negazione «né», Paolo ha messo la congiunzione coordinativa «e». Il motivo sta probabilmente nel riferimento spontaneo, da parte dell’Apostolo, all’espressione di Gn 1,27 e 5,2: «Maschio e femmina li creò ». Nel testo di Paolo come nei Settanta i due nomi sono al neutro: letteralmente, «non c’è maschile e femminile». Dio ha creato l’uomo «maschio e femmina»; Paolo, invece, ha l’audacia di proclamare: «Non c’è maschio e femmina». L’affermazione di Paolo è in armonia con le parole di Gesù, riferite dai sinottici, circa il modo di esistenza degli uomini dopo la risurrezione (Mt 22,30 «Alla risurrezione non si prende moglie né marito ma si è come angeli nel cielo»). La differenza è che Gesù parla della situazione dopo la risurrezione, Paolo invece parla della situazione dei credenti adesso. Egli ritiene che i credenti abbiano già parte alla vita di Cristo risorto e si trovano quindi già adesso al di là della morte. Orbene, al di là della morte l’unione sessuale non esiste più. Quindi al livello più profondo dell’essere cristiano, non c’è «maschio e femmina».
È evidente che questa negazione non vale al livello biologico. Paolo sa bene che il battesimo non sopprime i sessi né l’istinto sessuale, e che i credenti continuano ad avere rapporti sessuali nel matrimonio (cfr. 1Cor 7,3-5). Egli infatti dice: «Tuttavia nel Signore né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna» (1Cor 11,11). Quindi anche «nel Signore» c’è un livello dove la distinzione uomo-donna va riconosciuta e costituisce la base di una relazione necessaria, nel senso di una interdipendenza reciproca. Senza la donna, l’uomo non può vivere in Cristo e neppure la donna senza l’uomo. L’uomo e la donna hanno bisogno l’uno dell’ altra per ricevere pienamente la grazia di Cristo. Il fatto che l’unità di fondo non escluda ruoli diversi fa sì che questo testo non possa essere usato per affermare la possibilità anche per le donne di accedere al sacerdozio. Paolo chiaramente non ha in mente questo problema. Tuttavia è lecito pensare che, se si fosse posto il problema, egli non lo avrebbe risolto nel senso di una esclusione.
L’eliminazione di queste barriere ha luogo, secondo Paolo, «in Cristo Gesù». È nel Cristo risorto, cioè nella comunità, che è corpo di Cristo, che le distinzioni accennate non trovano più posto.

L’unità in Cristo (v. 29)
Alla negazione delle distinzioni corrisponde, in positivo, l’unità di tutti in Cristo: «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (v. 29). Nei vv. 26 e 27 Paolo ha insistito sulla pluralità dei figli. Ma c’è un solo Cristo. Se tutti vengono rivestiti di Cristo, siccome Cristo non è diviso, tutti diventano un solo uomo in Cristo: quindi la pluralità si risolve in unità. La filiazione divina dei credenti non è possibile se non nel Figlio unico e per questa ragione va di pari passo con l’unità. I galati erano preoccupati di assicurarsi l’unione con Abramo al fine c garantirsi il beneficio delle promesse fatte ad Abramo e di ottenere l’eredità promessa. I giudaizzanti pretendevano che per conseguirla fosse indispensabile accettare la circoncisione richiesta in Gn 17,9-14. Paolo invece dimostra che la fede in Cristo e il battesimo stabiliscono stretti legami tra i credenti e Abramo, legami più forti di quelli che derivano dalla circoncisione. Grazie alla fede e al battesimo, i credenti sono di Cristo, e siccome Cristo è l’unica discendenza per la quale valga la promessa, i credenti sono in Cristo «discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa». La dimostrazione è complete È stata piuttosto movimentata, non manca però di solidità.
Per esprimere l’unità di tutti i credenti in Cristo, Paolo non usa il neutro come Giovanni che parla di «una cosa sola» (Gv 17,11.21.22), ma il maschile, «uno solo». Questo maschile è difficile da interpretare. Il testo più illuminante in proposito è quello di Ef 2,15 dove si parla di «un solo nuovo uomo in Cristo» e si dichiara che Cristo ha annullato la legge, la quale costituiva una separazione tra giudei e gentili, «per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo … e per riconciliare tutti e due a Dio in un solo corpo». Per dire «uomo» la parola greca usata qui è anthropos, che designa l’essere umano in genere e vale per i due sessi come Mensch in tedesco. Tutti i battezzati dunque formano un solo anthropos, il quale non è separabile da Cristo ma non si confonde nemmeno con la persona di Cristo. Si tratta di un mistero che non si può comprendere concettualmente. In 1Cor 12,27 Paolo lo esprimere con l’espressione «corpo di Cristo»: «Voi siete corpo di Cristo e sue membra ciascuno per la sua parte». Più tardi, le Lettere agli Efesini e ai Colossesi parleranno di Cristo come capo del corpo, che è la Chiesa.

Linee interpretative
Paolo considera l’esperienza fatta dal popolo giudaico sotto la legge come una lunga parentesi tra la promessa conferita ad Abramo e la sua realizzazione in Cristo. In tal modo egli afferma che la legge rientra anch’essa nel piano di Dio, ma le riconosce un ruolo secondario e negativo, quello cioè di far sì che, concretizzandosi in trasgressioni specifiche, il peccato appaia come tale, per quello che è. L’esistenza sotto la legge viene così a coincidere con l’esistenza sotto il peccato: in nessun modo la legge può dare la vita, in quanto questa deriva solo dalla realizzazione della promessa che ha avuto luogo in Cristo.
Quando dunque presenta la legge come «il nostro pedagogo verso Cristo», l’apostolo intende sottolineare ancora una volta questo ruolo negativo della legge: Cristo è il vero maestro che dà la vita, la legge è solo uno schiavo che tiene sotto di sé un altro schiavo, l’uomo peccatore. La legge non ha dunque il compito di preparare l’uomo alla venuta di Cristo, portandolo progressivamente all’incontro con lui ma piuttosto rappresenta un cammino alternativo all’esperienza della fede, che deve essere abbandonato quanto prima se si vogliono ottenere i frutti della sua redenzione: «Venuta la fede, non siamo più sotto il pedagogo». In questa prospettiva ha un’importanza determinante il battesimo che, diversamente dalla circoncisione, stabilisce un rapporto personale del credente con Cristo e in tal modo lo trasforma nell’intimo, facendo sì che ne assimili la mentalità e i comportamenti.
L’esclusione della legge come strumento di giustificazione non può non avere profondi riflessi di carattere morale e pastorale. Il più importante è la caduta delle barriere che dividono l’umanità in comportamenti stagno. Nel battesimo la fede rivela dunque la sua capacità non solo di assimilare l’uomo a Cristo, ma anche di incorporarlo alla comunità dei credenti, nella quale si prefigura e si anticipa la riconciliazione finale di tutta l’umanità. Nella vita sociale, è vero, permangono ancora le barriere create dal peccato, e il cristiano deve tenerne conto, senza però lasciarsi condizionare da esse (cfr. 1Cor 7,17-24): ma egli vive e opera nella convinzione che quanto egli sperimenta nella comunità dei credenti anticipa già nell’oggi quello che sarà il destino futuro di tutta l’umanità (cfr. Rm 8,24-25). Paolo dunque non ha un progetto di trasformazione sociale, ma ne pone le premesse in modo tale che il rinnovamento dei rapporti umani non sia solo esterno, ma parta dal profondo del cuore.

Publié dans:Lettera ai Galati |on 5 juin, 2017 |Pas de commentaires »
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