MARIA E L’ASCESA DI CRISTO AL GOLGOTA TRA LETTERATURA E TRADIZIONE – RAVASI

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MARIA E L’ASCESA DI CRISTO AL GOLGOTA TRA LETTERATURA E TRADIZIONE

Volti di donne in un vociante corteo

di Gianfranco Ravasi

« Anche noi, povere donne senza più lacrime, lasciammo il Calvario con Giovanni, che da quel momento mi prese con sé. E nei giorni del pianto, per confortarmi mi raccontò molte cose di lui. Anch’io gli raccontai quelle cose che, dalla sua prima infanzia, mi erano accadute per causa di lui, e che io conservavo diligentemente nel cuore. E il contarcele e il ricontarcele era un modo di continuare a vivere con lui, a vivere di lui ». Sono le parole finali di una delicata autobiografia immaginaria di Maria stesa poco prima della sua morte dallo scrittore e sacerdote pavese Cesare Angelini e pubblicata nel 1976 con il titolo La vita di Gesù narrata da sua Madre.
Anche noi abbiamo pensato – sia pure in modo non « letterario », ma esegetico – di raccogliere il filo dei ricordi che partono da quel tardo pomeriggio di un venerdì primaverile di una data imprecisata degli anni 30 dell’era cristiana, quando Maria e il discepolo amato scesero da un piccolo sperone roccioso della periferia di Gerusalemme, chiamato « Golgota », in aramaico « cranio », ribattezzato dai romani « Calvario ». Di quelle ore tragiche, iniziate in un giardino della valle del Cedron, il torrente orientale di Gerusalemme, nella notte del giovedì, abbiamo un ricco resoconto offerto da tutti gli evangelisti, un resoconto che è anche meditazione e teologia, contrassegnato dalla memoria storica e dalla fede degli scrittori sacri. Ebbene, noi sfoglieremo quelle quattro narrazioni con una finalità ben precisa e circoscritta, ossia la ricerca del volto della Madre del condannato Gesù di Nazaret. Ma ecco, subito, una sorpresa.
Da secoli la pratica popolare della Via Crucis, sorta probabilmente all’epoca delle crociate tra il XII e il XIV secolo ci ha abituati a incrociare Maria lungo quella strada di Gerusalemme che porta ancor oggi il nome di Via dolorosa. Il corteo vociante avanza sotto la guida e la responsabilità del cosiddetto exactor mortis, il centurione romano incaricato dell’esecuzione della condanna per crocifissione. Il condannato è scortato da quattro soldati armati di lance, dietro e ai lati si ammassa la folla dei curiosi. Dalle case e dai negozi si affacciano i cittadini di Gerusalemme, un po’ come avviene ancor oggi quando per questa stessa strada si muove la processione dei pellegrini che è diretta al Santo Sepolcro pregando e cantando. Soste per cadute del condannato o per piccoli incidenti di percorso sono scontate e alcune sono registrate dagli stessi vangeli: pensiamo, per esempio, a Simone di Cirene, un ebreo della diaspora residente a Gerusalemme, che, rientrando dalla campagna, è costretto a portare per un tratto la croce del Cristo.
La Via Crucis, però, ci ha abituati a una sosta tutta particolare: è la quarta stazione, quella in cui gli occhi di Gesù velati dalla sofferenza si incontrano con quelli, velati di lacrime, di sua madre. Tuttavia Marco, Matteo, persino Luca e Giovanni, più attenti a segnalare la presenza di Maria accanto a Gesù, tacciono. Forse si potrebbe ipotizzare che il volto di Maria si nasconda, quasi anonimamente, tra quelle donne che Luca ritaglia tra la folla dei curiosi. Erano « donne che si battevano il petto e facevano lamenti su Gesù. Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli! Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato! (…) Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco? » (Luca, 23, 27-31).
Le parole di Gesù sono piuttosto aspre: il legno secco a cui si appicca il fuoco è il simbolo del peccato che verrà incenerito dal giudizio di Dio, mentre il legno verde è segno dell’uomo giusto, Cristo stesso, che si tenta ora di eliminare col giudizio umano. Ma è difficile pensare che tra quelle donne ci sia Maria. Esse, infatti, altro non sono che le caratteristiche lamentatrici professionali « che si battevano il petto e facevano lamenti » in occasione dei riti funebri. Forse erano alcune pie donne assistenti dei condannati a morte, una specie di « confraternita della buona morte ». Cristo non ha bisogno di compianto e di pie consolazioni e, pur non rifiutando quel gesto di solidarietà, lancia a loro un messaggio di penitenza invitandole piuttosto a pensare alla loro imminente tragedia. Quella tragedia che, dopo pochi decenni, nel 70, spazzerà via la città santa e ne annienterà gli abitanti sotto l’incombere delle armate romane di Vespasiano e Tito.
Certo è che alla fine ritroveremo Maria sulla cima del Golgota. È per questo, allora, che i vangeli apocrifi non hanno esitato a colmare liberamente e un po’ fantasticamente quel vuoto alla narrazione evangelica canonica offrendo in tal modo la fonte per quella stazione della Via Crucis. Così, nel Vangelo di Gamaliele, giunto a noi in una versione etiopica del v-vi secolo, ma di origine più antica, Maria è ripetutamente in scena durante la passione. È lei che consola l’apostolo Giovanni scoraggiato per il tradimento di Pietro. Ed è lei che con altre donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea si incammina dietro a quel lugubre corteo. Anzi, secondo questo testo popolare, scoppia anche un piccolo alterco con alcune spettatrici della scena, cioè con le madri degli innocenti trucidati da Erode al tempo della nascita di Gesù. « C’erano là delle donne: Giovanna, moglie di Cusa, Maria Maddalena e Salome. Esse abbracciarono la Vergine nostra signora e la sostennero. Un lamento interiore serpeggiava nella cerchia di tutte queste sante donne che piangevano pronunziando commoventi parole. Ma altre donne ebree, udendo il pianto, ingiuriavano Maria dicendo: È giunta per noi oggi la vendetta contro di te e contro tuo figlio. Per colpa tua il nostro grembo rimase senza figlio, due anni dopo che tu generasti il tuo! ».
Il corteo della crocifissione esce finalmente dalle mura della città e sale sul Calvario. Qui finalmente il silenzio dei vangeli riguardo a Maria si rompe. A tutti è noto che l’evangelista Giovanni racconta un episodio molto essenziale, ma segnato da intense allusioni spirituali. Gesù ormai è stato innalzato da terra ed è alle soglie dell’agonia in croce. È a questo punto che Giovanni aggiunge: « Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala. Gesù, allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo; Ecco tua madre! E da quel momento il discepolo la accolse con sé » (19, 25-27). Qual è il valore di questo atto estremo di Cristo? È solo una raccomandazione, piena di amore filiale, indirizzata al discepolo più caro perché si incarichi del sostentamento e della protezione di Maria? Oppure nei dati realistici del racconto si nascondono ulteriori significati simbolici spirituali?
Le parole di Gesù sono solo un « testamento domestico », come scriveva sant’Ambrogio, o sono la rivelazione di una nuova maternità spirituale di Maria, come ha dichiarato lo stesso vescovo di Milano e come hanno ripetuto Pio xii nell’enciclica Mystici Corporis e Giovanni Paolo ii nella Redemptoris Mater? L’affidamento di Maria a Giovanni è ricordato solo per ribadire la verginità di Maria, priva di altri figli a cui essere affidata, come volevano i primi vescovi e scrittori della Chiesa, da Atanasio a Ilario, da Girolamo ad Ambrogio? Oppure, secondo quanto scriveva un altro di questi padri della Chiesa, Efrem siro (iv secolo), come Mosè incaricò Giosuè di prendersi cura del popolo ebraico in sua vece, così Gesù incaricò Giovanni di prendersi cura di Maria, cioè della Chiesa, popolo di Dio?
Ai piedi della croce sono presenti quattro donne: di tre conosciamo i nomi, Maria madre di Gesù, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala, della quarta è riferita solo la parentela, è la sorella di Maria e quindi la zia di Gesù, il cui nome forse non era stato conservato sino al momento della tarda stesura del quarto vangelo. Gli altri evangelisti, però, introducono anche altre donne: Maria, madre di Giacomo, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, Giovanna. Spesso si permetteva ai parenti, agli amici e ai nemici di una persona crocifissa di seguire le ultime ore di quell’atroce agonia. Sappiamo, per esempio, che un infame re ebreo della dinastia degli Asmonei, Alessandro Janneo, discendente dei grandi Maccabei, che regnò dal 102 al 76 prima dell’era cristiana, aveva fatto crocifiggere i capi farisei di una rivolta contro il suo regime. Egli aveva voluto che attorno alle croci fossero raccolte le famiglie dei singoli condannati perché assistessero al supplizio e i crocifissi vedessero il pianto disperato delle loro mogli e dei bambini, mentre il re, sotto un lussuoso padiglione, banchettava con le sue concubine.
L’obiettivo di Giovanni si fissa, però, solo su due visi. Il primo, naturalmente, è quello di Maria, il secondo è quello del « discepolo che Gesù amava ». Si è discusso a lungo sull’identità di questo discepolo che è citato soltanto sei volte nel quarto vangelo e solo a partire dalla passione (vedi Giovanni 13, 23-26). Alcuni hanno pensato persino a Lazzaro a cui Gesù « voleva molto bene », anzi, era « colui che egli amava » (Giovanni, 11, 3-5). Altri sono ricorsi a Giovanni Marco, il cristiano discepolo di Paolo e di Pietro, che aveva una casa a Gerusalemme (Atti, 12, 12) e che la tradizione identifica con l’evangelista Marco. Più semplice è il riferimento tradizionale all’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo. Tuttavia l’espressione usata dall’evangelista sembra avere una risonanza ulteriore: in Giovanni di Zebedeo si vuole quasi certamente rappresentare anche il ritratto del perfetto discepolo, il titolo acquista anche un valore simbolico. Il teologo Max Thurian nel suo libro Maria, Madre del Signore e figura della Chiesa definiva questa figura come « la personificazione del discepolo perfetto, del vero fedele del Cristo, del credente che ha ricevuto lo Spirito ». Il quarto evangelista, allora, in questa scena ai piedi della croce vuole ricamare un’immagine ulteriore che supera i semplici connotati storici.
Decisiva in questa linea è la doppia dichiarazione di Gesù. Non si tratta di una formula d’adozione, come è stato ipotizzato da qualche studioso, perché non ne ricalca lo schema giuridico: « Tu sei mio figlio… » (Salmi, 2, 7). È, invece, una formula di rivelazione, simile a quella celebre del Battista: « Ecco l’agnello di Dio! ». Non siamo, quindi, di fronte a un semplice atto sociale che sfocia in un incarico del tipo: « Io ti lascio mia madre perché te ne prenda cura ». Siamo, invece, davanti a una duplice parola solenne che svela il mistero e il significato ultimo di una persona. La prima « rivelazione » è indirizzata a Maria interpellata con un inatteso vocativo: « Donna! ». Questo termine, usato normalmente nel mondo ebraico e greco e anche da Gesù nei confronti delle donne – la cananea della zona di Tiro e Sidone a cui guarisce la figlia, la samaritana, la donna curva guarita in giorno di sabato, l’adultera, Maria di Magdala – è piuttosto strano se usato nei confronti della propria madre. Eppure Gesù si era già rivolto a sua madre con questo appellativo agli inizi della sua missione, proprio come ora lo fa alla fine. A Cana, durante il pranzo nuziale, riferendosi idealmente al momento che si sta adesso compiendo – quello che Giovanni chiama « l’ora » per eccellenza -, aveva detto a Maria: « Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora » (Giovanni, 2, 4).
Il titolo solenne « Donna » vuole alludere, secondo il gioco dei rimandi simbolici caro al quarto vangelo, alla « donna » che sta alla radice della storia umana e a quel celebre passo della Genesi: « Io porrò inimicizia tra il serpente e la donna, tra il suo seme e quello della donna (…) L’uomo chiamò la donna Eva perché essa fu la madre di tutti i viventi » (3, 15.20). La prima donna era stata l’inizio e la madre dell’umanità intera; ora Maria diventa l’inizio e la madre di tutti i credenti nel Figlio suo. Maria appare ora nella sua funzione materna, quella di essere la madre di tutti i fedeli, segno della Chiesa che genera nuovi figli a Dio e li protegge dal drago del male, come si dirà anche in un famoso passo dell’Apocalisse: « Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bimbo appena nato. Essa partorì un figlio maschio » (12, 4-5).
La « donna » Maria, nuova Eva, sta quindi vivendo l’ »ora » del suo Figlio come sua « ora »: come il Cristo, soffrendo e morendo, genera la salvezza, così Maria, soffrendo e perdendo tutto, diventa madre della Chiesa. Infatti, la seconda dichiarazione di Gesù presenta al discepolo amato, simbolo dei credenti, la sua madre spirituale: « Ecco tua madre! ». È curioso notare che nella trentina di parole che compongono l’originale greco del brano per ben cinque volte si ripete il vocabolo mèter, « madre ». Già sant’Ambrogio vedeva in Maria ai piedi della croce il mistero della Chiesa e nel discepolo amato il cristiano figlio della Chiesa. A questo punto Maria e il discepolo lasciano il Calvario; il cadavere di Gesù sta per essere deposto nel sepolcro nuovo di un uomo benestante di Arimatea, Giuseppe. Ma Giovanni ci lascia un’ultima, piccola indicazione: il discepolo accoglie con sé Maria.
Questa annotazione è stata spesso interpretata come una semplice notizia di cronaca: il termine greco usato per descrivere questo avere « con sé » Maria è ìdia e può significare anche « casa, proprietà, patria ». E possibile certamente intendere, come fa qualche versione della Bibbia, che il discepolo amato « prese nella sua casa » Maria. È nata da qui la tradizione popolare secondo cui Maria avrebbe seguito Giovanni in Asia Minore (Turchia) e sarebbe morta a Efeso. Ancor oggi a otto chilometri dalle celebri rovine di Efeso su un monte in un paesaggio verdeggiante, si leva una chiesetta collegata idealmente alla residenza efesina di Maria e Giovanni. Tuttavia, se noi continuiamo a seguire il filo dei rimandi a cui il quarto vangelo ci ha abituati, ci accorgiamo che quella parola greca è carica di altri significati. Nel prologo del vangelo, per esempio, il termine greco ìdia/ìdioi indica « i suoi », la sua gente, cioè il popolo a cui Gesù apparteneva: « Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto » (1, 11). E alle soglie della morte di Gesù, Giovanni scriverà questa bellissima frase: « Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi (ìdioi) che erano nel mondo, Gesù li amò sino alla fine » (13, 1). La frase che chiude la scena del Calvario è, allora, carica di una risonanza ulteriore: Maria e il discepolo non solo avranno la stessa residenza ma saranno in comunione di fede e di amore proprio come il cristiano che accoglie e vive in comunione profonda con la Chiesa, sua madre.
Questa scena del Calvario che abbiamo ora rammentato è ormai nella mente, nel cuore e nella fantasia di tutti, anche perché a partire dal vii secolo la raffigurazione della crocifissione è entrata trionfalmente nell’arte cristiana – prima si preferiva rappresentare solo il Cristo risorto, glorioso coi segni della passione. Anche la scena successiva della deposizione dalla croce ha avuto infinite presentazioni artistiche: chi non conosce la Pietà di Michelangelo della basilica di San Pietro e chi non si commuove di fronte all’altra, meno nota, ma altrettanto straordinaria, Pietà di Michelangelo, quella cosiddetta « Rondanini » del Castello Sforzesco di Milano, in cui il Cristo morto sembra quasi ritornare nel grembo di Maria? Ma è col Settecento che inizia ad avere grande successo la figura della Mater dolorosa, sulla scia della festa della Madonna Addolorata, che si celebra il 15 settembre. Maria è raffigurata col cuore trafitto da sette spade, simbolo del dolore supremo, per evocare quella misteriosa profezia che le aveva indirizzato il vecchio Simeone durante la presentazione di Gesù bambino al Tempio: « Anche a te una spada trafiggerà l’anima » (Luca, 2, 35). È come se simbolicamente la lancia che aveva trafitto il costato del Figlio morto trapassasse ora anche la Madre.
Ed è davanti a questa figura di donna e madre « addolorata », segno e sintesi di tutte le donne e le madri addolorate, che si scioglieranno i canti più noti della pietà cristiana e mariana. Tra queste voci, la più celebre è certamente lo Stabat Mater, il bellissimo lamento attribuito a Jacopone da Todi (xiii secolo) ed entrato anche nella liturgia. Lo si potrebbe ascoltare con tutte le sue appassionate sfumature umane e spirituali in una delle numerosissime rese musicali: da quella del Palestrina (1525-1594), che ne stese due rispettivamente a 8 e a 12 voci, a quella di Alessandro Scarlatti (1660-1725) che scrisse anche due oratori dedicati ai Dolori di Maria sempre Vergine (1703) e alla Vergine addolorata (1717); dallo Stabat Mater che Pergolesi (1710-1736) compose per una confraternita napoletana nel convento cappuccino di Pozzuoli, ove si era ritirato per curarsi la tisi e ove morirà giovanissimo, « un divino poema di dolore », come lo definirà Bellini, a quello sontuoso e laborioso di Rossini che lo iniziò, lo interruppe e lo completò solo anni dopo, nel 1841; da quello mirabile di Verdi (1897) fino a quello, molto suggestivo, del musicista ceco Antonín Dvorák che lo compose a Praga nel 1877, lo propose nel 1880 per dirigerlo di persona con un vero trionfo nel 1884 a Londra.
Ma prima di concludere il nostro viaggio con Maria lungo la Via dolorosa sorge spontanea una domanda: Maria incontra suo Figlio risorto? Negli scritti canonici il Cristo risorto appare a Maria di Magdala, alle donne che accorrono al sepolcro la mattina di Pasqua, agli apostoli, ai due discepoli di Emmaus. Ma su Maria non c’è una sola parola dopo la grande scena del Calvario. La tradizione popolare si è, invece, affidata ancora una volta al terreno piuttosto insicuro degli apocrifi, col citato Vangelo di Gamaliele. Secondo questo testo Maria, prostrata dalla prova, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce della sepoltura del Cristo. Maria, però, non si rassegna a restare lontana dalla tomba di suo figlio e dice tra le lacrime a Giovanni: « Anche se la tomba di mio figlio fosse l’arca di Noè, io non ne riceverei nessun conforto se non la vedo e vi possa versare sopra le mie lacrime. Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba stanno quattro soldati dell’esercito del governatore! (…) La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro. Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro. Allora esclamò: questo miracolo è avvenuto a favore di mio figlio! Si sporse in avanti, ma non vide all’interno del sepolcro il corpo del figlio. Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era abbattuto e triste, si sentì penetrare nella tomba dall’esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell’albero della vita. La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste ».
Maria, però, non riconosce in questa figura gloriosa suo figlio e allora inizia un dialogo con l’essere misterioso simile a quello che il vangelo di Giovanni (20, 11-18) riferisce tra Maria Maddalena e il Cristo, scambiato per il custode del cimitero. Alla fine, però, ecco lo scioglimento dell’enigma: « Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo figlio! Io sono il Gesù che consola la tua tristezza, io sono il Gesù per la cui morte hai pianto, io sono il Gesù per il cui amore hai versato lacrime. Ma ora sono vivo e ti consolo con la mia risurrezione prima di tutti gli altri. Nessuno ha portato via il mio cadavere, ma sono risorto per volere del Padre, o madre mia! Udite queste parole, il cuore della Vergine si colmò di consolazione, cessò di piangere e di essere smarrita ed esclamò: Sei dunque risorto, mio Signore e mio figlio! Felice risurrezione! E si inginocchiò a baciarlo ». Ma non è questa l’unica testimonianza tradizionale dell’incontro del Cristo risorto con sua madre. Ne vogliamo citare un’altra, molto fastosa e solenne, tratta dalla pietà popolare della comunità cristiana d’Egitto, i Copti. Si tratta appunto di un frammento copto del v-vii secolo, traduzione di testi più antichi.
« Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, gridò: Maricha, marima, Thiath! – che significa: « Mariam, madre del Figlio di Dio! ». Mariam ne capiva il senso, perciò si volse e rispose: Rabboní, Kathiath, Thamioth! – che significa: « Figlio di Dio onnipotente, mio Signore e mio figlio! ». Il Salvatore le disse: Salve a te che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo nel mondo! Salve, mia brocca piena d’acqua santa! (…) Tutto il paradiso gioisce per merito tuo. Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita. Poi il Salvatore aggiunse: Va’ dai miei fratelli e di’ loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (…) Maria disse a suo figlio: Gesù, mio Signore e mio figlio unico, prima di andare nei cieli da tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se vuoi che io non ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno. Il Figlio di Dio si innalzò, allora, sul suo carro di Cherubini mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine ». A noi che preferiamo stare solo sulla solida base della tradizione neotestamentaria basterà suggellare il nostro itinerario nelle ore della Passione in compagnia di Maria ricorrendo alla nota del capitolo di apertura degli Atti degli Apostoli, quando tutta la comunità cristiana attende il dono dello Spirito, unita attorno a Maria: « Erano tutti assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù, e coi fratelli di lui » (1, 14).

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