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Gesù Re dell’Universo

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GIOVANNI PAOLO II – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

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GIOVANNI PAOLO II – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 maggio 2004

Cantico cfr Col 1,3.12-20
Cristo fu generato prima di ogni creatura,
è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti
Vespri del mercoledì della 1a settimana (Lettura: Col 1,3.12-15.17)
1. Abbiamo ascoltato il mirabile inno cristologico della Lettera ai Colossesi. La Liturgia dei Vespri lo propone in tutte le quattro settimane nelle quali essa si snoda e lo offre ai fedeli come Cantico, ripresentandolo nella veste che forse il testo aveva fin dalle sue origini. Infatti, molti studiosi ritengono che l’inno potrebbe essere la citazione di un canto delle Chiese dell’Asia minore, posto da Paolo nella Lettera indirizzata alla comunità cristiana di Colossi, una città allora fiorente e popolosa.
L’Apostolo, però, non si recò mai in questo centro della Frigia, una regione dell’attuale Turchia. La Chiesa locale era stata fondata da un suo discepolo, originario di quelle terre, Epafra. Costui fa capolino nel finale della Lettera insieme all’evangelista Luca, «il caro medico», come lo chiama san Paolo (4,14), e con un altro personaggio, Marco, «cugino di Barnaba» (4,10), forse l’omonimo compagno di Barnaba e Paolo (cfr At 12,25; 13,5.13), divenuto poi evangelista.
2. Poiché avremo occasione di tornare a più riprese in seguito su questo Cantico, ci accontentiamo ora di offrirne uno sguardo d’insieme e di evocare un commento spirituale, elaborato da un famoso Padre della Chiesa, san Giovanni Crisostomo (IV sec. d.C.), celebre oratore e Vescovo di Costantinopoli. Nell’inno emerge la grandiosa figura di Cristo, Signore del cosmo. Come la divina Sapienza creatrice esaltata dall’Antico Testamento (cfr ad esempio Pr 8,22-31), «egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui »; anzi, «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,16-17).
Si dispiega, dunque, nell’universo un disegno trascendente che Dio attua attraverso l’opera del Figlio. Lo proclama anche il Prologo del Vangelo di Giovanni quando afferma che «tutto è stato fatto per mezzo del Verbo e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3). Anche la materia con la sua energia, la vita e la luce portano l’impronta del Verbo di Dio, «suo Figlio diletto» (Col 1,13). La rivelazione del Nuovo Testamento getta una nuova luce sulle parole del sapiente dell’Antico Testamento, il quale dichiarava che «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5).
3. Il Cantico della Lettera ai Colossesi presenta un’altra funzione di Cristo: Egli è anche il Signore della storia della salvezza, che si manifesta nella Chiesa (cfr Col 1,18) e si compie nel «sangue della sua croce» (v. 20), sorgente di pace e di armonia per l’intera vicenda umana.
Non è, quindi, soltanto l’orizzonte esterno a noi ad essere segnato dalla presenza efficace di Cristo, ma anche la realtà più specifica della creatura umana, ossia la storia. Essa non è in balía di forze cieche e irrazionali ma, pur nel peccato e nel male, è sorretta e orientata – per opera di Cristo – verso la pienezza. È così che per mezzo della Croce di Cristo tutta la realtà è «riconciliata» col Padre (cfr v. 20).
L’inno traccia, in tal modo, uno stupendo affresco dell’universo e della storia, invitandoci alla fiducia. Non siamo un granello di polvere inutile, disperso in uno spazio e in un tempo senza senso, ma siamo parte di un sapiente progetto scaturito dall’amore del Padre.
4. Come abbiamo annunziato, passiamo ora la parola a san Giovanni Crisostomo, perché sia lui a coronare questa riflessione. Nel suo Commento alla Lettera ai Colossesi egli si sofferma ampiamente su questo Cantico. All’inizio egli sottolinea la gratuità del dono di Dio «che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (v. 12). «Perché la chiama « sorte »?», si domanda il Crisostomo, e risponde: «Per mostrare che nessuno può conseguire il Regno con le proprie opere. Anche qui, come il più delle volte, la « sorte » ha il senso di « fortuna ». Nessuno mostra un comportamento tale da meritare il Regno, ma tutto è dono del Signore. Per questo egli dice: « Quando avete fatto ogni cosa, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare »» (PG 62, 312).
Questa benevola e potente gratuità riemerge più avanti, quando leggiamo che per mezzo di Cristo sono state create tutte le cose (cfr Col 1,16). «Da lui dipende la sostanza di tutte le cose – spiega il Vescovo -. Non soltanto le fece passare dal non essere all’essere, ma è ancora lui che le sostiene, cosicché, se fossero sottratte alla sua provvidenza, perirebbero e si dissolverebbero… Dipendono da lui: infatti, anche solo l’inclinare verso di lui è sufficiente a sostenerle e a rafforzarle» (PG 62, 319).
E a maggior ragione è segno di amore gratuito quanto Cristo viene compiendo per la Chiesa, di cui è il Capo. In questo punto (cfr v. 18), spiega il Crisostomo, «dopo aver parlato della dignità di Cristo, l’Apostolo parla anche del suo amore per gli uomini: « Egli è il capo del suo corpo, che è la Chiesa », volendo mostrare la sua intima comunione con noi. Colui, infatti, che è così in alto e superiore a tutti, si unì a coloro che sono in basso» (PG 62, 320).

24.11.2004
CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA
1. È risuonato ora il grande inno cristologico con cui si apre la Lettera ai Colossesi. In esso campeggia appunto la figura gloriosa di Cristo, cuore della liturgia e centro di tutta la vita ecclesiale. L’orizzonte dell’inno, tuttavia, ben presto s’allarga alla creazione e alla redenzione coinvolgendo ogni essere creato e l’intera storia.
In questo canto è rintracciabile il respiro di fede e di preghiera dell’antica comunità cristiana e l’Apostolo ne raccoglie la voce e la testimonianza, pur imprimendo all’inno il suo sigillo.
2. Dopo una introduzione nella quale si rende grazie al Padre per la redenzione (cfr vv. 12-14), due sono le strofe in cui si articola questo Cantico, che la Liturgia dei Vespri ripropone ogni settimana. La prima celebra Cristo come «primogenito di ogni creatura», ossia generato prima di ogni essere, affermando così la sua eternità che trascende spazio e tempo (cfr vv. 15-18a). Egli è l’«immagine», l’«icona» visibile di quel Dio che rimane invisibile nel suo mistero. Era stata questa l’esperienza di Mosè che, nel suo ardente desiderio di gettare uno sguardo sulla realtà personale di Dio, si era sentito rispondere: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20; cfr anche Gv 14,8-9).
Invece, il volto del Padre Creatore dell’universo diventa accessibile in Cristo, artefice della realtà creata: «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui… e tutte sussistono in lui» (Col 1,16-17). Cristo dunque, da un lato, è superiore alle realtà create, ma dall’altro, è coinvolto nella loro creazione. Per questo può essere da noi visto come «immagine di Dio invisibile», reso a noi vicino attraverso l’atto creativo.
3. La lode in onore di Cristo procede, nella seconda strofa (cfr vv. 18b-20), verso un altro orizzonte: quello della salvezza, della redenzione, della rigenerazione dell’umanità da lui creata ma che, peccando, era piombata nella morte.
Ora, la «pienezza» di grazia e di Spirito Santo che il Padre ha posto nel Figlio fa sì che egli possa, morendo e risorgendo, comunicarci una nuova vita (cfr vv. 19-20).
4. Egli è pertanto celebrato come «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (1,18b). Con la sua «pienezza» divina, ma anche col suo sangue sparso sulla croce, Cristo «riconcilia» e «rappacifica» tutte le realtà, celesti e terrestri. Egli le riporta così alla loro situazione originaria, ricreando l’armonia primigenia, voluta da Dio secondo il suo progetto d’amore e di vita. Creazione e redenzione sono, quindi, connesse tra loro come tappe di una stessa vicenda di salvezza.
5. Secondo il nostro solito, facciamo ora spazio alla meditazione dei grandi maestri della fede, i Padri della Chiesa. Sarà uno di essi a guidarci nella riflessione sull’opera redentrice compiuta da Cristo nel suo sangue sacrificale.
Commentando il nostro inno, san Giovanni Damasceno, nel Commento alle Lettere di san Paolo a lui attribuito, scrive: «San Paolo parla di « redenzione mediante il suo sangue » (Ef 1,7). È dato infatti come riscatto il sangue del Signore, che conduce i prigionieri dalla morte alla vita. Non era proprio possibile, per quelli che erano soggetti al regno della morte, essere liberati in altro modo, se non mediante colui che è diventato partecipe con noi della morte… Dall’operazione svolta con la sua venuta abbiamo conosciuto la natura di Dio che era prima della sua venuta. È infatti opera di Dio aver estinta la morte, restituito la vita e ricondotto a Dio il mondo. Perciò dice: « Egli è l’immagine del Dio invisibile » (Col 1,15), per manifestare che è Dio, anche se egli non è il Padre, ma l’immagine del Padre, e ha l’identità con lui, benché egli non sia lui» (I libri della Bibbia interpretati dalla grande tradizione, Bologna 2000, pp. 18.23).
Giovanni Damasceno poi conclude con uno sguardo d’insieme all’opera salvifica di Cristo: «La morte di Cristo salvò e rinnovò l’uomo; e riportò gli angeli alla primitiva gioia, a motivo dei salvati, e congiunse le realtà inferiori con quelle superiori… Fece infatti la pace e tolse di mezzo l’inimicizia. Perciò gli angeli dicevano: « Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace sulla terra »» (ibid., p. 37).

BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 7 settembre 2005

Cantico cfr Col 1,3.12-20
Cristo fu generato prima di ogni creatura,
è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti
Vespri – Mercoledì 3a settimana
1. Già in precedenza ci siamo soffermati sul grandioso affresco del Cristo, Signore dell’universo e della storia, che domina l’inno posto all’inizio della Lettera di san Paolo ai Colossesi. Questo cantico, infatti, scandisce tutte le quattro settimane in cui si articola la Liturgia dei Vespri.
Il cuore dell’inno è costituito dai versetti 15-20, dove entra in scena in modo diretto e solenne Cristo, definito «immagine» del «Dio invisibile» (v. 15). Il termine greco eikon, «icona», è caro all’Apostolo: nelle sue Lettere lo usa nove volte applicandolo sia a Cristo, icona perfetta di Dio (cfr 2Cor 4,4), sia all’uomo, immagine e gloria di Dio (cfr 1Cor 11,7). Questi, tuttavia, col peccato «ha cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile» (Rm 1,23), scegliendo di adorare gli idoli e divenendo simile ad essi.
Dobbiamo, perciò, continuamente modellare la nostra immagine su quella del Figlio di Dio (cfr 2Cor 3,18), poiché siamo stati «liberati dal potere delle tenebre», «trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1,13).
2. Cristo è, poi, proclamato «primogenito (generato prima) di ogni creatura» (v. 15). Cristo precede tutta la creazione (cfr v. 17), essendo generato fin dall’eternità: per questo «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (v. 16). Anche nell’antica tradizione ebraica si affermava che «tutto il mondo è stato creato in vista del Messia» (Sanhedrin 98b).
Per l’Apostolo, Cristo è sia il principio di coesione («tutte le cose in lui sussistono»), sia il mediatore («per mezzo di lui»), sia la destinazione finale verso cui converge tutto il creato. Egli è «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), ossia è il Figlio per eccellenza nella grande famiglia dei figli di Dio, nella quale ci inserisce il Battesimo.
3. A questo punto lo sguardo passa dal mondo della creazione a quello della storia: Cristo è «il capo del corpo, cioè della Chiesa» (Col 1,18) e lo è già attraverso la sua Incarnazione. Egli, infatti, è entrato nella comunità umana, per reggerla e comporla in un «corpo», cioè in una unità armoniosa e feconda. La consistenza e la crescita dell’umanità hanno in Cristo la radice, il perno vitale, «il principio».
Appunto con questo primato Cristo può diventare il principio della risurrezione di tutti, il «primogenito tra i morti», perché «tutti riceveranno la vita in Cristo… Prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo» (1Cor 15,22-23).
4. L’inno si avvia alla conclusione celebrando la «pienezza», in greco pleroma, che Cristo ha in sé come dono d’amore del Padre. È la pienezza della divinità che si irradia sia nell’universo sia nell’umanità, divenendo sorgente di pace, di unità, di armonia perfetta (Col 1,19-20).
Questa «riconciliazione» e «rappacificazione» è operata attraverso «il sangue della croce», da cui siamo giustificati e santificati. Versando il suo sangue e donando se stesso, Cristo ha effuso la pace che, nel linguaggio biblico è sintesi dei beni messianici e pienezza salvifica estesa a tutta la realtà creata.
L’inno finisce, perciò, con un orizzonte luminoso di riconciliazione, unità, armonia e pace, sul quale si erge solenne la figura del suo artefice, Cristo, «Figlio diletto» del Padre.
5. Su questa densa pericope hanno riflettuto gli scrittori dell’antica tradizione cristiana. San Cirillo di Gerusalemme, in un suo dialogo, cita il cantico della Lettera ai Colossesi per rispondere a un anonimo interlocutore che gli aveva domandato: «Diciamo dunque che il Verbo generato da Dio Padre ha sofferto per noi nella sua carne?». La risposta, sulla scia del cantico, è affermativa. Infatti, afferma Cirillo, «l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura, visibile e invisibile, per il quale e nel quale tutto esiste, è stato dato – dice Paolo – per capo alla Chiesa: egli è inoltre il primo nato fra i morti», cioè il primo nella serie dei morti che risorgono. Egli, continua Cirillo, «ha fatto proprio tutto ciò che è della carne dell’uomo e “ha subito la croce, disprezzandone l’ignominia” (Eb 12,2). Noi diciamo che non un semplice uomo, colmo di onori, non so come, per la sua congiunzione a lui è stato sacrificato per noi, ma è lo stesso Signore della gloria colui che è stato crocifisso» (Perché Cristo è uno: Collana di Testi Patristici, XXXVII, Roma 1983, p. 101).
Davanti a questo Signore della gloria, segno dell’amore supremo del Padre, anche noi eleviamo il nostro canto di lode e ci prostriamo adorando e ringraziando.

 

OMELIA XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) – CRISTO RE (20/11/2016)

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Regalità di Gesù: un potere che si fa dono

mons. Antonio Riboldi

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) – CRISTO RE (20/11/2016)

L’anno liturgico, che segna la Storia di Dio con e per l’uomo, inizia con l’attesa del Messia, ossia con l’Avvento, che porta al Natale, e si chiude con la Solennità di oggi: Gesù Cristo, Re dell’universo.
E’ tempo che, per noi credenti, dovrebbe essere vissuto ‘per Cristo, con Cristo e in Cristo’.
Dovrebbe farci riflettere e soprattutto riempire il nostro cuore di gratitudine verso il Padre, come ci ricorda S. Paolo: « Fratelli, ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È Lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre, e ci ha trasferiti nel regno del Suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati.’, ricordandoci come Cristo deve diventare l’Unico, il Centro della nostra vita, poiché ‘Egli è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura: perché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose,… Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui. Egli è anche il Capo del Corpo che è la Chiesa, il principio, il Primogenito di coloro che resuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perciò piacque a Dio di fare abitare in Lui ogni pienezza e per mezzo di Lui riconciliare a Sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della Sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli ».(Col. 1, 12-20)
Parole di un Apostolo veramente innamorato di Gesù, che riassumeva il senso della sua vita e missione proclamando: ‘Per me vivere è Cristo’.
E per noi? Gesù è davvero il Re dei nostri cuori?
Se così fosse quanta più pace vivremmo, anche in mezzo alle difficoltà e drammi della vita, perché la potenza di Gesù, la Sua regalità, è l’Amore, che non è mai imposizione, ma solo dono, incredibile dono, che non ha paura di andare incontro ad ogni conseguenza per essere tale. L’Amore, quando è vero, non si ferma davanti alle difficoltà, ma va fino in fondo… pagando di persona.
Questo Amore che si dona, oggi viene raccontato dall’Evangelista Luca:
« In quel tempo, il popolo stava a vedere, i capi invece schernivano Gesù dicendo: ‘Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il Suo eletto’. Anche i soldati lo schernivano e Gli si accostavano per porgerGli l’aceto, e dicevano: ‘Se tu sei il re dei Giudei salva te stesso’.
C’era anche una scritta sopra il suo capo: ‘Questi è il re dei Giudei’.
A questo punto, proprio nel momento più drammatico, più difficile e incomprensibile per noi uomini, sollecitati dalla superbia ad affermarci sempre sugli altri, Gesù offre una meravigliosa prova della natura del Suo Amore, della Sua Regalità.
« Uno dei malfattori – continua il Vangelo – appeso alla croce, Lo insultava: ‘Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!’. Ma l’altro lo rimproverava: ‘Neanche tu hai timore di Dio, benché sia condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, Egli invece non ha fatto nulla di male’. E aggiunse: ‘Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno’. Gli rispose: ‘In verità in verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso’. (Lc. 23, 35-43)
La vicenda del ‘buon ladroné fa nascere un profondo stupore interiore.
Ecco un uomo che ammette i suoi errori, riconosce quello che ha fatto di male e, di fronte all’innocenza di Gesù, che dà la vita per salvare chi è perduto, comprendendone misteriosamente il senso e il valore, Gli rivolge quella stupenda preghiera: ‘Ricordati di me nel tuo Regno’: una preghiera che compendia una conversione e che subito riceve la risposta, che giunge a ciascuno di noi, quando imitiamo il buon ladrone: ‘Oggi sarai con me in Paradiso’.
Meraviglioso e fedele Amore di Dio che non si fa deviare, ridurre, bloccare, consumare – come il nostro povero amore umano – dalle nostre negligenze o peccati, ma diviene tenerezza e calore, quando Lo riconosciamo, accogliamo, e a Lui ci affidiamo.
Appartenere al Regno di Dio, e quindi accettare la Sua regalità, è quello che i martiri desideravano e per cui davanti alla morte gioivano, come se questa, subita per amore a Lui, fosse un premio e non una pena.
Lo comprendono tanti che, per rispondere all’Amore di Gesù che ‘chiama’, si lasciano affascinare e donano totalmente se stessi, consacrandosi a Lui.
Un giorno, una persona consacrata, a cui chiesi come considerava la sua vita da ‘esclusa da questo mondo’, mi rispose: ‘Sono felice perché non esisto più per me, ma per Gesù’.
Lo comprendono tanti laici cristiani, che pur essendo immersi nelle tante forme di vita attiva sulla terra, non mettono in un angolo l’amore a Dio, ma lo vivono e rendono la loro vita ‘normale’, ‘quotidiana’ un continuo: ‘Ti amo e mi dono’.
È davvero inconcepibile pensare di definirsi cristiani, vivendo come se Gesù non esistesse, solo concentrati sul nostro ego. Che senso ha?
Se davvero Lo si ama, sperimentando la gioia che si riceve da Lui che ci ama, si dà alla vita, già ora, la pace e fecondità di appartenere alla Sua regalità. E poiché la regalità di Gesù è amare, non si può non partecipare i doni che si ricevono, diventando dono di amore a Lui e ai fratelli.
È vero che noi a Gesù possiamo donare solo un ‘sì’, come è nello stile dell’amore, ma poi è un farsi portare sulle Sue braccia, anche se qualche volta ci invita a distenderle con le sue sulla croce.
Ma, se ci pensiamo bene, con Lui o senza di Lui, nella vita le croci sono inevitabili… meglio allora, con Lui! Non dobbiamo avere paura di amare e farci amare da Gesù. Dobbiamo temere di metterLo in un angolo, come non esistesse…perché è come mettere in un angolo il dono che Dio fa del Suo Amore, unica nostra forza, speranza e senso della vita.
Abbiamo bisogno, e tanto, di Lui, carissimi. Accogliamolo nella nostra vita e ogni giorno sperimenteremo la gioia di una ‘piccola resurrezioné per noi e per i fratelli che ci affida, preparandoci così in un’attesa serena di quella definitiva, ritornando nella Casa del Padre.
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Publié dans:immagini sacre |on 17 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – La virtù della purezza attua la vita secondo lo spirito (Lettere paoline)

https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1981/documents/hf_jp-ii_aud_19810211.html

GIOVANNI PAOLO II – La virtù della purezza attua la vita secondo lo spirito (Lettere paoline)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 11 febbraio 1981

1. Durante i nostri ultimi incontri del mercoledì abbiamo analizzato due passi tratti dalla prima Lettera ai Tessalonicesi (1Ts 4,3-5) e dalla prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12,18-25), al fine di mostrare ciò che sembra essere essenziale nella dottrina di san Paolo sulla purezza, intesa in senso morale, ossia come virtù. Se nel testo citato della prima Lettera ai Tessalonicesi si può costatare che la purezza consiste nella temperanza, tuttavia in questo testo, come pure nella prima Lettera ai Corinzi, è anche posto in rilievo il momento del « rispetto ». Mediante tale rispetto dovuto al corpo umano (e aggiungiamo che, secondo la prima Lettera ai Corinzi, il rispetto è appunto visto in relazione alla sua componente di pudore), la purezza, come virtù cristiana, si rivela nelle Lettere paoline una via efficace per distaccarsi da ciò che nel cuore umano è frutto della concupiscenza della carne. L’astensione « dalla impudicizia », che implica il mantenimento del corpo « con santità e rispetto », permette di dedurre che, secondo la dottrina dell’Apostolo, la purezza è una « capacità » incentrata sulla dignità del corpo, cioè sulla dignità della persona in relazione al proprio corpo, alla femminilità o mascolinità che in questo corpo si manifesta. La purezza, intesa come « capacità », è appunto espressione e frutto della vita « secondo lo Spirito » nel pieno significato dell’espressione, cioè come nuova capacità dell’essere umano, in cui porta frutto il dono dello Spirito Santo. Queste due dimensioni della purezza – la dimensione morale, ossia la virtù, e la dimensione carismatica, ossia il dono dello Spirito Santo – sono presenti e strettamente connesse nel messaggio di Paolo. Ciò viene posto in particolare rilievo dall’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi, in cui egli chiama il corpo « tempio (quindi: dimora e santuario) dello Spirito Santo ».
2. « O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e non appartenete a voi stessi? » – chiede Paolo ai Corinzi (1Cor 6,19), dopo averli prima istruiti con molta severità circa le esigenze morali della purezza. « Fuggite la prostituzione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta è fuori del suo corpo (1Cor 6,8) ma chi si dà all’impudicizia, pecca contro il proprio corpo ». La nota peculiare del peccato che l’Apostolo qui stigmatizza sta nel fatto che tale peccato, diversamente da tutti gli altri, è « contro il corpo » (mentre gli altri peccati sono « fuori del corpo »). Così, dunque, nella terminologia paolina troviamo la motivazione per le espressioni: « i peccati del corpo » o i « peccati carnali ». Peccati che sono in contrapposizione appunto con quella virtù, in forza della quale l’uomo mantiene « il proprio corpo con santità e rispetto » (cf. 1Ts 4,3-5).
3. Tali peccati portano con sé la « profanazione » del corpo: privano il corpo della donna o dell’uomo del rispetto ad esso dovuto a motivo della dignità della persona. Tuttavia, l’Apostolo va oltre: secondo lui il peccato contro il corpo è pure « profanazione del tempio ». Della dignità del corpo umano, agli occhi di Paolo, decide non soltanto lo spirito umano, grazie a cui l’uomo si costituisce come soggetto personale, ma ancor più la realtà soprannaturale che è la dimora e la continua presenza dello Spirito Santo nell’uomo – nella sua anima e nel suo corpo – come frutto della redenzione compiuta da Cristo. Ne consegue che il « corpo » dell’uomo ormai non è più soltanto « proprio ». E non soltanto per il motivo che è corpo della persona, esso merita quel rispetto, la cui manifestazione nella condotta reciproca degli uomini, maschi e femmine, costituisce la virtù della purezza. Quando l’Apostolo scrive: « Il vostro corpo è tempio dello Spirito che è in voi e che avete da Dio » (1Cor 6,19), intende indicare ancora un’altra fonte della dignità del corpo, appunto lo Spirito Santo, che è anche fonte del dovere morale derivante da tale dignità.
4. È la realtà della redenzione, che è pure « redenzione del corpo », a costituire questa fonte. Per Paolo, questo mistero della fede è una realtà viva, orientata direttamente ad ogni uomo. Per mezzo della redenzione, ogni uomo ha ricevuto da Dio quasi nuovamente se stesso e il proprio corpo. Cristo ha iscritto nel corpo umano – nel corpo di ogni uomo e di ogni donna – una nuova dignità, dato che in lui stesso il corpo umano è stato ammesso, insieme all’anima, all’unione con la Persona del Figlio-Verbo. Con questa nuova dignità, mediante la « redenzione del corpo » nacque al tempo stesso anche un nuovo obbligo, di cui scrive Paolo in modo conciso, ma quanto mai toccante: « Siete stati comprati a caro prezzo » (1Cor 6,20). Il frutto della redenzione è infatti lo Spirito Santo, che abita nell’uomo e nel suo corpo come in un tempio. In questo Dono, che santifica ogni uomo, il cristiano riceve nuovamente se stesso in dono da Dio. E questo nuovo, duplice dono obbliga. L’Apostolo fa riferimento a questa dimensione dell’obbligo quando scrive ai credenti, consapevoli del Dono, per convincerli che non si deve commettere l’ »impudicizia », non si deve « peccare contro il proprio corpo » (1Cor 6,18). Egli scrive: « Il corpo… non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo » (1Cor 6,13). È difficile esprimere in modo più conciso Ciò che porta con sé per ogni credente il mistero dell’Incarnazione. Il fatto che il corpo umano divenga in Gesù Cristo corpo di Dio-Uomo ottiene per tale motivo, in ciascun uomo, una nuova soprannaturale elevazione, di cui ogni cristiano deve tener conto nel suo comportamento nei riguardi del « proprio » corpo e, evidentemente, nei riguardi del corpo altrui: l’uomo verso la donna e la donna verso l’uomo. La redenzione del corpo comporta l’istituzione in Cristo e per Cristo di una nuova misura della santità del corpo. Proprio a questa « santità » fa richiamo Paolo nella prima Lettera ai Tessalonicesi (1Ts 4,3-5), quando scrive di « mantenere il proprio corpo con santità e rispetto ».
5. Nel capitolo 6 della prima Lettera ai Corinzi, Paolo precisa invece la verità sulla santità del corpo, stigmatizzando con parole perfino drastiche l’ »impudicizia », cioè il peccato contro la santità del corpo, il peccato dell’impurità: « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito » (1Cor 6,15-17). Se la purezza è, secondo l’insegnamento paolino, un aspetto della « vita secondo lo Spirito », ciò vuol dire che fruttifica in essa il mistero della redenzione del corpo come parte del mistero di Cristo, iniziato nell’Incarnazione e già attraverso di essa rivolto ad ogni uomo. Questo mistero fruttifica anche nella purezza, intesa come un particolare impegno fondato sull’etica. Il fatto che siamo « stati comprati a caro prezzo » (1Cor 6,20), cioè a prezzo della redenzione di Cristo, fa scaturire appunto un impegno speciale, ossia il dovere di « mantenere il proprio corpo con santità e rispetto ». La consapevolezza della redenzione del corpo opera nella volontà umana in favore dell’astensione dalla « impudicizia », anzi, agisce al fine di far acquisire un’appropriata abilità o capacità, detta virtù della purezza.
Ciò che risulta dalle parole della prima Lettera ai Corinzi ( 1Cor 6,15-17 ) circa l’insegnamento di Paolo sulla virtù cristiana della purezza come attuazione della vita « secondo lo Spirito », è di una particolare profondità e ha la forza del realismo soprannaturale della fede. È necessario che ritorniamo a riflettere su questo tema più di una volta.

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IL VIAGGIO A GERUSALEMME (biblica )

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IL VIAGGIO A GERUSALEMME

This entry was posted on 18 ottobre, 2015, in Sillabario.

di Michele Ranchetti (*)

Ranchetti

1. «Se il cristianesimo è la verità, allora tutta la filosofia al riguardo è falsa». Questa proposizione di Wittgenstein del 1949, contenuta fra i suoi pensieri diversi, ha costituito per me un nuovo inizio. E si connette con un’altra sua osservazione, di alcuni anni prima, nella stessa raccolta di pensieri, arbitraria ma utile: «Il cristianesimo non è una dottrina, ossia non è una teoria su quanto è accaduto o accadrà all’anima dell’uomo, quanto una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Per me, che ero andato «a dottrina», come si diceva allora per indicare l’istruzione religiosa al di fuori della scuola, in parrocchia, queste due asserzioni hanno favorito nella loro semplice formulazione, non autorevole, non iscritta in un contesto disciplinare appropriato, la ripresa, a distanza di anni, appunto, da quella «dottrina» ricevuta passivamente come forma per eccellenza della verità, di una diversa intelligenza della riflessione religiosa, in un certo senso libera, o almeno non protetta da una struttura di riferimento, da un’ortodossia di ricerca e di esperienza.
Scrive Wittgenstein: «tutta la filosofia al riguardo». Non scrive, come si potrebbe intendere a una lettura superficiale: «tutta la filosofia». Ossia traccia un limite, non libera il campo religioso dalla speculazione filosofica. Che sarebbe tanto promettente, quanto insensato, letteralmente.
Più rilevante, comunque, la seconda asserzione: la prima in ordine di tempo. «Non è una dottrina». Ma, come mi è subito apparso chiaro, era proprio come dottrina che il cristianesimo mi era stato fatto presente: la dottrina della fede, i sacramenti, il loro ordine, il loro numero limitato, come se questi elementi, articuli fidei non avessero, né potessero avere, per loro natura e carattere, alcun contesto, non facessero appunto parte della storia dell’uomo. Mentre io ne facevo parte.
Le due frasi di Wittgenstein non sono frasi ispirate, non hanno niente di esclamativo o di perentorio: sono «parti di un discorso», e di una sorta di diario che accompagna e si inserisce nel diario teoretico che costituisce il «tipo» della sua filosofia. Ed è proprio per questo loro carattere discorsivo (più evidente se le si ricolloca nel contesto da cui sono state estratte arbitrariamente) che hanno avuto e hanno su di me una così straordinaria rilevanza. Wittgenstein è un uomo che si interroga e che incontra (non importa per ora in quale fonte, ma probabilmente nel vangelo di Tolstoj, ritrovato per caso durante la guerra in un luogo improbabile) il fatto della vita di Cristo, il fatto della sua morte e della sua resurrezione. Appunto, «un evento reale nella vita dell’uomo».
Sono ripartito da qui. E ho iniziato un percorso non compiuto e certo non terminabile (come l’analisi di cui scrive Freud) per rintracciare l’origine di questa «dottrina» nella quale ero stato introdotto, direi quasi a mia insaputa, o meglio all’insaputa della mia coscienza vigile. Ho iniziato cioè un percorso a ritroso: dal dato di fatto della mia appartenenza storica alla chiesa cattolica apostolica romana (ossia dalla mia vita di uomo del mio tempo) per ripercorrere «storicamente» e per interrogare «storicamente» gli elementi costitutivi della mia formazione e le ragioni della mia appartenenza. La prospettiva in cui mi sono posto non mi consentiva alcuna «protezione» teoretica o «religiosa»; volevo pormi di fronte ai «dati di fatto».
Ho trovato, per così dire, alcuni oggetti: il catechismo, il Nuovo Testamento, l’Antico Testamento e ho provato a esaminarli come oggetti appunto, strumenti, utensili per il mio «vivere». Sapevo che, per obbedire alle asserzioni di Wittgenstein, dovevo partire da questi strumenti e non altri. Il resto apparteneva alla «letteratura sull’argomento», e io credevo a questa «differenza» o almeno mi sembrava naturale e originaria. Del resto, le asserzioni di Wittgenstein, per essere vere, dovevano essere «provate» su questi testi, e non altri. Ed essi così mi sono apparsi come tre scogli affioranti su un mare, residui visibili di una marea che si era accanita su tutto il resto, erodendolo sino a sommergerne i detriti.
2. Ma erano oggetti singoli, autonomi, indipendenti fra loro, oppure essi si trovavano in una relazione particolare, o in una dipendenza? Stavano l’uno senza l’altro, era cioè possibile esaminarli singolarmente, oppure vi era una connessione non eliminabile? E ancora. Erano oggetti «compiuti», delimitati, finiti? Immobili, o in movimento? Mi sono posto tutte queste domande e ancora continuo a pormele. Ma per farlo, ho dovuto disconoscere una grande massa di «informazioni» che si erano depositate in me e che mi impedivano, in certo modo, di guardare agli oggetti nella loro singolarità e che condizionavano, quasi fossero evidenze non eliminabili, il rapporto fra di essi. Ed erano i modi di intenderli e di valersi di essi, la storia e la leggenda del loro uso che, da giustificato e ricostruibile, era divenuto un abito mentale, se non una verità naturale. E mi sono accorto che stavo procedendo a demolire una sorta di «storia aggiunta», quasi di incrostazione che si era depositata su quegli oggetti semplici, per poter ripartire dalla loro storia.
La prima domanda che mi sono posto riguardava la loro forma. Io vedevo due oggetti limitati. In ordine cronologico: un insieme di scritti, denominati di solito Antico Testamento, un altro insieme di scritti, denominato di solito Nuovo Testamento, e un insieme di scritti detti catechismo. Inoltre, i primi due insiemi ricevevano, soprattutto in tempi recenti, il nome comune di Bibbia. Il terzo insieme non era un insieme fisso, a differenza dei primi due: presentava un’infinità di varianti, per cui, sino dalle mie prime nuove osservazioni, si caratterizzava come un insieme mobile e non omogeneo.
In realtà, ciascuna delle domande che mi ponevo, presupponeva o conduceva alla domanda seguente: non erano, in certo modo, domande singole, nel senso che non si poteva affrontare l’una senza affrontare o aver risolto l’altra. Ma era possibile definire, sia pure provvisoriamente, il carattere dei singoli insiemi? Ho provato a farlo. Il primo insieme, il cosiddetto Antico Testamento, riceve il suo nome (la sua designazione tradizionale) solo in relazione al secondo elemento. Dunque il nome, che lo designa, è anche il segno di una relazione. Al di fuori di questa relazione, l’insieme degli scritti che lo compongono non ha il carattere di premessa, ma piuttosto di descrizione narrativa di un’alleanza: l’alleanza fra Dio e il popolo da lui eletto.
Gli scritti, tuttavia, non hanno un ordinamento cronologico; neppure sono ordinati secondo la data di composizione, né appartengono a un unico genere letterario. I loro autori non si conoscono: e dunque l’autorevolezza dello scrittore non ha alcuna rilevanza. Detto semplicisticamente: essi sono esecutori, scribi. Il dettante è al di fuori (al di sopra) dello scritto. Quindi si pone con essi l’esempio di una scrittura che non si misura (non si intende) con l’autore, ma con il supposto dettante. Una scissione non ricomponibile. E tuttavia gli scritti che compongono il corpus che viene comunemente designato come Antico Testamento sono un corpus compiuto. Non tutti gli scritti composti durante i secoli sono confluiti in esso, ma solo alcuni cui viene attribuito il carattere di «autenticità» non rispetto all’autore ma al dettante. Il criterio di discriminazione è però vago, ed è vaga o almeno difficilmente ricostruibile e fissabile l’autorità, anzi il tipo di autorità, che ha presieduto alla scelta. E la ratio che l’ha ispirata. L’unica certezza relativa è una certezza «storica». Ossia, che vi è stato un momento in cui si è deciso o sì è accertato che «da allora in poi» non era più possibile riconoscere ad alcuno scritto quel carattere esecutivo, di trascrizione di una parola prima ascrivibile ad alcuni componimenti letterari di genere diverso. La trasmissione si era interrotta. Ora toccava al commento.
Non vi è una linea netta di demarcazione, né una cesura nettamente visibile, e fra testo e commento si instaura un singolare rapporto che si potrebbe definire di esegesi aggiuntiva. Tuttavia il segno di una differenza permane. Ma qual è il tempo del racconto, e qual è l’evento di cui i libri riferiscono? L’evento è uno solo: è la parola di Dio; il resto è la narrazione dell’ascolto di questa parola da parte di un popolo: la sua obbedienza, il suo rifiuto e il suo uso.
3. Del tutto diverso, direi radicalmente diverso, il carattere del secondo insieme di testi. Questi tutti derivano da un fatto: l’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù di Nazareth. Non altro. Sono, cioè, la narrazione dei fatti e delle parole di un singolo (Cristo), e la narrazione degli atti e delle parole dei suoi discepoli. In più, un testo diverso, di altro carattere e genere letterario, l’Apocalisse, attribuita a uno dei discepoli e forse soprattutto per questo inserita alla fine. Qui, a differenza che nell’insieme precedente, l’evento è un Patto storico, inserito nella storia. E il tempo è un tempo storico, nel quale l’evento si è verificato. Gli scribi sono dei testimoni, la trasmissione si rifà a una parola pronunciata da qualcuno che è stato visto da molti, che hanno assistito alla sua morte, e che l’hanno visto risorto. Negli scritti del Nuovo Testamento è riferita la parola di Gesù di Nazareth (la parola di un singolo) e in seguito le parole e gli atti di un gruppo: vi è cioè il principio e il carattere di un’assemblea che si costituisce e si riconosce in un’alleanza di uomini ordinata a un fine: la predicazione di una verità, dove la verità è un fatto che si è verificato sotto i loro occhi, nel tempo della loro esistenza terrena.
È un insieme compiuto secondo il principio della testimonianza. Ma l’ordinamento non è cronologico. Sappiamo che il primo scritto che vi figura, quanto a data di composizione non è il primo scritto che si riferisca all’evento, anzi, è già un documento di predicazione che presuppone relativamente diffusa la conoscenza dell’evento e ha già la struttura di una riflessione: per così dire di un secondo momento, di un’elaborazione dottrinale. La lettera paolina ai tessalonicesi (se non è un’altra lettera paolina a precederla, secondo esegeti recenti) è già relativa a un’attesa, a un futuro, a una fine. Ma nell’ordinamento dell’insieme figura dopo i Vangeli e gli Atti. I primi testi, poi, non compaiono secondo la data della loro stesura o almeno secondo la data dell’arrangiamento in cui li conosciamo. Per solito, poi, i Vangeli subiscono una distinzione fra sinottici, i primi tre, e un quarto, cui si attribuisce un diverso carattere di testimonianza. Ma forse non è così, se alcuni recenti esegeti anticipano la redazione del testo giovanneo sino a fissarla prima dei testi di Marco e di Matteo. Gradualmente, cioè, veniamo a riconoscere che l’insieme cui diamo il nome di Nuovo Testamento è il risultato di un processo di selezione e di ordinamento che si è compiuto nei primi secoli dell’era cristiana. Sappiamo che sono molti i testi esclusi, che le testimonianze sulla vita e i detti di Gesù erano molto numerose, così come numerosi sono i testi ascritti al genere apocalittico (un genere che non ha precise connotazioni). Ma si è operata una scelta, e si è imposto un ordinamento: si è fissato un canone. Ma secondo quali criteri? e da parte di chi? Sappiamo che l’autorità che ha presieduto alla scelta e all’ordinamento è la chiesa, e che è la chiesa che ha definito apocrifi alcuni vangeli e ha così istituito un criterio di «autenticità» e conseguentemente di esclusione rispetto alle testimonianze. Così come sarà la chiesa in tempi molto recenti a dichiarare solennemente conclusa la rivelazione, in riferimento a fonti paoline di discutibile pertinenza. Ma chi è la chiesa?
4. Abbiamo dovuto renderci conto, quindi, che i due primi insiemi, l’Antico e il Nuovo Testamento, non sono due grandi massi erratici depositati intatti sulla riva della nostra storia. Che essi sono due costruzioni, e che sul secondo di essi è intervenuta a forgiarlo un’autorità non astratta, ma concreta, storica, visibile.
Cercando di rispondere a un’altra delle mie domande, e ricordando che per solito il primo e il secondo insieme sono indicati con il nome comune di Bibbia (un significativo singolare majestatis) mi sono interrogato sul carattere e il senso di questa connessione. È certamente un’indicazione di tempo: gli scritti che compongono il canone veterotestamentario precedono quelli del secondo canone. Tra i primi e i secondi vi è un tempo acanonico, ma non vuoto di scritti, che infatti ora si raccolgono con il nome di scritti intertestamentari, a sottolineare ancora una volta la presenza direi quasi coercitiva dei due insiemi maggiori.
Ma non è solo una successione temporale: la designazione di un primo e di un secondo testamento pregiudica il carattere della connessione suggerendo un’idea di premessa e di conferma, in una sorta di sviluppo necessario e insieme naturale, come da un seme a un albero. In ogni caso così era la modalità di lettura nell’istruzione religiosa delle scuole cattoliche. L’Antico Testamento tendeva al nuovo come al suo unico fine: in esso si contenevano le profezie avverate nel Nuovo, da un tempo astorico, più ancora che preistorico, al tempo storico dell’era, appunto, storica, il nostro tempo cristiano. Soprattutto non era possibile, direi anzi insensato, proporre una lettura dei testi veterotestamentari senza «il senno di poi» degli altri testi. Ma questa, diversamente da altre «presupposizioni», non era affatto una forzatura. Il Nuovo Testamento è la storia della nascita, della morte e della resurrezione di Gesù, figlio di Dio. Non è una premessa, né una profezia, né la forma scritta, o la testimonianza di un’attesa messianica: è la narrazione di un evento e dei primi tempi storici della predicazione di esso da parte dei discepoli e della costruzione da parte di essi della forma «istituzionale» della chiesa visibile e invisibile.
In un certo senso, la connessione vale solo a partire dalla verità dell’evento narrato dal secondo insieme: per così dire, a ritroso. Non ha senso, o piuttosto non ha «verità», a partire dal primo insieme se esso non ha conferma nel secondo, se disconosce nel secondo la sua prosecuzione inverante. Non solo: in questo caso, fra il primo e il secondo testamento (ma la denominazione, come si sa, non è adottata dalla cultura ebraica) vi è un conflitto, una contrapposizione radicale. Per questo la lettura della Bibbia come unità mi è sempre sembrata qualcosa di improprio, in un certo senso una prevaricazione o una appropriazione non esplicita. Per questo ancora, le tesi di «eretici» come Marcione che intendevano separare se non contrapporre i due testamenti, mi sono sempre apparse degne di considerazione, in particolare nella loro interrogazione sulla natura dei due canoni.
5. Rimane da interrogare il terzo insieme: il catechismo. Non è un insieme omogeneo: i catechismi sono moltissimi, di diversa origine, struttura, lingua, ordinamento. Ma sono fra di loro connessi dal proposito comune che li ispira, così da consentire l’uso di un singolare, anche qui, majestatico. Il proposito è quello di raggruppare in un testo breve (Summa brevis) tutto ciò che all’uomo è necessario sapere per salvarsi. Ma non un riassunto, piuttosto solo gli elementi (pezzi, Stucke, articuli, talvolta articuli fidei) tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, e solo da essi.
Non esiste però un catechismo ebraico: l’idea della Summa brevis non è presente nell’ebraismo, credo. Ma è presente dai primi secoli del cristianesimo e si può ripercorrerne la storia (e la fortuna) sino all’apparire dei primi esempi verso la fine del ’400 già nella forma poi ripetuta sino a oggi.
Questi «elementi» che non mancano mai in tutti gli esempi di catechismo sono: il Credo, il Decalogo, il Pater noster, i sacramenti, alcune preghiere. Varia il loro ordinamento, non è mai presente «il contesto», ossia le fonti che, come si vede, sono tutte neotestamentarie, tranne il Decalogo. Quasi a suggerire che dell’Antico Testamento, degli scritti dell’alleanza e della profezia, delle narrazioni e degli esempi rimane solo la legge; anche se è vero che in molti catechismi la legge è il primo degli articoli, ha, cioè, un carattere inaugurale.
Ma anche il proposito stesso è neotestamentario: il nesso sapere-salvezza non corrisponde immediatamente all’invito all’ascolto della parola: introduce, mi sembra, nella forma stessa dei «momenti» isolati di verità, l’abbandono di una lettura non ordinata e soprattutto si oppone all’idea di verità nella storia. È frutto, a me pare, di quel graduale processo esegetico di intervento sul testo, di interpretazione secondo griglie conoscitive, criteri di comprensione comunque esterni al testo, per facilitarne la lettura. In alcuni casi, si avverte anche l’eco delle regole di Ticonio e di Agostino: appaiono il genere e la specie, le categorie aristoteliche, i topici che risulteranno, per così dire, vincenti nella ripresa della retorica nei Loci di Melantone.
Inoltre, risulta evidente che il catechismo implica una scelta, che richiama la scelta operata fra le diverse scritture per comporre i due canoni vetero e neotestamentario. Qui, la scelta è ancora più radicale: non singoli libri, ma pezzi di libro, elementi, nell’ipotesi che proprio questi elementi e non altri, e non i libri da cui erano tratti, bastassero al sapere e alla salvezza o al sapere per la salvezza. Ed è anche evidente, infine, che il proposito riduttivo, comunque ispirato, finiva per esimere il credente dalla lettura dei testi sacri. La Summa brevis, il Verbum abbreviatum di fatto sostituiva la Bibbia, così come le sentenze di Pietro Lombardo sostituiranno la lettura dei padri.
Ma chi ha operato la scelta? Chi ha compiuto il processo riduttivo del corpus degli scritti a un numero esiguo di testi ai quali si riconosce il potere di verità, cui ci si affida per la salvezza, a cui si deve ricorrere per orientarsi nel vivere e nel credere? E ancora, se il primo canone risulta inutile, perché confluisce nel secondo, e il secondo è compendiato nel catechismo, perché ricominciare da capo, come se questo percorso non fosse esauriente, oppure non fosse compiuto, come se si fossero trascurati momenti di conoscenza o di esperienza apparsi necessari in un secondo tempo, che non è quello dell’attesa o della conferma, ma ancora di attesa? La chiesa è il maggiore artefice di questo processo, e ha anche operato di conseguenza, in particolare vietando per due secoli della sua storia la lettura della Bibbia in lingua volgare e frapponendo se stessa fra la lettura dei testi e la loro intelligenza.
Come nel gioco che in tedesco si chiama «il viaggio a Gerusalemme» (è il gioco di girare attorno ad alcune sedie una accanto all’altra ma con gli schienali opposti, una in meno rispetto al numero dei partecipanti, al suono di una musica che si interrompe improvvisamente, e chi non riesce a sedersi esce dal gioco) potrebbe sembrare che il pontefice, solo, sieda sulla sola cattedra di Pietro. Ma forse non è così. Sono state aggiunte alcune sedie e la musica ha ripreso a suonare. Si possono di nuovo formulare tutte le domande.

***

(*) Intervento pronunciato al Convegno di «Biblia», Firenze, novembre 2002. Testo tratto da M. Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento, Garzanti, Milano 2003, pp. 105-113.

 

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