IL VIAGGIO A GERUSALEMME (biblica )
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IL VIAGGIO A GERUSALEMME
This entry was posted on 18 ottobre, 2015, in Sillabario.
di Michele Ranchetti (*)
Ranchetti
1. «Se il cristianesimo è la verità, allora tutta la filosofia al riguardo è falsa». Questa proposizione di Wittgenstein del 1949, contenuta fra i suoi pensieri diversi, ha costituito per me un nuovo inizio. E si connette con un’altra sua osservazione, di alcuni anni prima, nella stessa raccolta di pensieri, arbitraria ma utile: «Il cristianesimo non è una dottrina, ossia non è una teoria su quanto è accaduto o accadrà all’anima dell’uomo, quanto una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Per me, che ero andato «a dottrina», come si diceva allora per indicare l’istruzione religiosa al di fuori della scuola, in parrocchia, queste due asserzioni hanno favorito nella loro semplice formulazione, non autorevole, non iscritta in un contesto disciplinare appropriato, la ripresa, a distanza di anni, appunto, da quella «dottrina» ricevuta passivamente come forma per eccellenza della verità, di una diversa intelligenza della riflessione religiosa, in un certo senso libera, o almeno non protetta da una struttura di riferimento, da un’ortodossia di ricerca e di esperienza.
Scrive Wittgenstein: «tutta la filosofia al riguardo». Non scrive, come si potrebbe intendere a una lettura superficiale: «tutta la filosofia». Ossia traccia un limite, non libera il campo religioso dalla speculazione filosofica. Che sarebbe tanto promettente, quanto insensato, letteralmente.
Più rilevante, comunque, la seconda asserzione: la prima in ordine di tempo. «Non è una dottrina». Ma, come mi è subito apparso chiaro, era proprio come dottrina che il cristianesimo mi era stato fatto presente: la dottrina della fede, i sacramenti, il loro ordine, il loro numero limitato, come se questi elementi, articuli fidei non avessero, né potessero avere, per loro natura e carattere, alcun contesto, non facessero appunto parte della storia dell’uomo. Mentre io ne facevo parte.
Le due frasi di Wittgenstein non sono frasi ispirate, non hanno niente di esclamativo o di perentorio: sono «parti di un discorso», e di una sorta di diario che accompagna e si inserisce nel diario teoretico che costituisce il «tipo» della sua filosofia. Ed è proprio per questo loro carattere discorsivo (più evidente se le si ricolloca nel contesto da cui sono state estratte arbitrariamente) che hanno avuto e hanno su di me una così straordinaria rilevanza. Wittgenstein è un uomo che si interroga e che incontra (non importa per ora in quale fonte, ma probabilmente nel vangelo di Tolstoj, ritrovato per caso durante la guerra in un luogo improbabile) il fatto della vita di Cristo, il fatto della sua morte e della sua resurrezione. Appunto, «un evento reale nella vita dell’uomo».
Sono ripartito da qui. E ho iniziato un percorso non compiuto e certo non terminabile (come l’analisi di cui scrive Freud) per rintracciare l’origine di questa «dottrina» nella quale ero stato introdotto, direi quasi a mia insaputa, o meglio all’insaputa della mia coscienza vigile. Ho iniziato cioè un percorso a ritroso: dal dato di fatto della mia appartenenza storica alla chiesa cattolica apostolica romana (ossia dalla mia vita di uomo del mio tempo) per ripercorrere «storicamente» e per interrogare «storicamente» gli elementi costitutivi della mia formazione e le ragioni della mia appartenenza. La prospettiva in cui mi sono posto non mi consentiva alcuna «protezione» teoretica o «religiosa»; volevo pormi di fronte ai «dati di fatto».
Ho trovato, per così dire, alcuni oggetti: il catechismo, il Nuovo Testamento, l’Antico Testamento e ho provato a esaminarli come oggetti appunto, strumenti, utensili per il mio «vivere». Sapevo che, per obbedire alle asserzioni di Wittgenstein, dovevo partire da questi strumenti e non altri. Il resto apparteneva alla «letteratura sull’argomento», e io credevo a questa «differenza» o almeno mi sembrava naturale e originaria. Del resto, le asserzioni di Wittgenstein, per essere vere, dovevano essere «provate» su questi testi, e non altri. Ed essi così mi sono apparsi come tre scogli affioranti su un mare, residui visibili di una marea che si era accanita su tutto il resto, erodendolo sino a sommergerne i detriti.
2. Ma erano oggetti singoli, autonomi, indipendenti fra loro, oppure essi si trovavano in una relazione particolare, o in una dipendenza? Stavano l’uno senza l’altro, era cioè possibile esaminarli singolarmente, oppure vi era una connessione non eliminabile? E ancora. Erano oggetti «compiuti», delimitati, finiti? Immobili, o in movimento? Mi sono posto tutte queste domande e ancora continuo a pormele. Ma per farlo, ho dovuto disconoscere una grande massa di «informazioni» che si erano depositate in me e che mi impedivano, in certo modo, di guardare agli oggetti nella loro singolarità e che condizionavano, quasi fossero evidenze non eliminabili, il rapporto fra di essi. Ed erano i modi di intenderli e di valersi di essi, la storia e la leggenda del loro uso che, da giustificato e ricostruibile, era divenuto un abito mentale, se non una verità naturale. E mi sono accorto che stavo procedendo a demolire una sorta di «storia aggiunta», quasi di incrostazione che si era depositata su quegli oggetti semplici, per poter ripartire dalla loro storia.
La prima domanda che mi sono posto riguardava la loro forma. Io vedevo due oggetti limitati. In ordine cronologico: un insieme di scritti, denominati di solito Antico Testamento, un altro insieme di scritti, denominato di solito Nuovo Testamento, e un insieme di scritti detti catechismo. Inoltre, i primi due insiemi ricevevano, soprattutto in tempi recenti, il nome comune di Bibbia. Il terzo insieme non era un insieme fisso, a differenza dei primi due: presentava un’infinità di varianti, per cui, sino dalle mie prime nuove osservazioni, si caratterizzava come un insieme mobile e non omogeneo.
In realtà, ciascuna delle domande che mi ponevo, presupponeva o conduceva alla domanda seguente: non erano, in certo modo, domande singole, nel senso che non si poteva affrontare l’una senza affrontare o aver risolto l’altra. Ma era possibile definire, sia pure provvisoriamente, il carattere dei singoli insiemi? Ho provato a farlo. Il primo insieme, il cosiddetto Antico Testamento, riceve il suo nome (la sua designazione tradizionale) solo in relazione al secondo elemento. Dunque il nome, che lo designa, è anche il segno di una relazione. Al di fuori di questa relazione, l’insieme degli scritti che lo compongono non ha il carattere di premessa, ma piuttosto di descrizione narrativa di un’alleanza: l’alleanza fra Dio e il popolo da lui eletto.
Gli scritti, tuttavia, non hanno un ordinamento cronologico; neppure sono ordinati secondo la data di composizione, né appartengono a un unico genere letterario. I loro autori non si conoscono: e dunque l’autorevolezza dello scrittore non ha alcuna rilevanza. Detto semplicisticamente: essi sono esecutori, scribi. Il dettante è al di fuori (al di sopra) dello scritto. Quindi si pone con essi l’esempio di una scrittura che non si misura (non si intende) con l’autore, ma con il supposto dettante. Una scissione non ricomponibile. E tuttavia gli scritti che compongono il corpus che viene comunemente designato come Antico Testamento sono un corpus compiuto. Non tutti gli scritti composti durante i secoli sono confluiti in esso, ma solo alcuni cui viene attribuito il carattere di «autenticità» non rispetto all’autore ma al dettante. Il criterio di discriminazione è però vago, ed è vaga o almeno difficilmente ricostruibile e fissabile l’autorità, anzi il tipo di autorità, che ha presieduto alla scelta. E la ratio che l’ha ispirata. L’unica certezza relativa è una certezza «storica». Ossia, che vi è stato un momento in cui si è deciso o sì è accertato che «da allora in poi» non era più possibile riconoscere ad alcuno scritto quel carattere esecutivo, di trascrizione di una parola prima ascrivibile ad alcuni componimenti letterari di genere diverso. La trasmissione si era interrotta. Ora toccava al commento.
Non vi è una linea netta di demarcazione, né una cesura nettamente visibile, e fra testo e commento si instaura un singolare rapporto che si potrebbe definire di esegesi aggiuntiva. Tuttavia il segno di una differenza permane. Ma qual è il tempo del racconto, e qual è l’evento di cui i libri riferiscono? L’evento è uno solo: è la parola di Dio; il resto è la narrazione dell’ascolto di questa parola da parte di un popolo: la sua obbedienza, il suo rifiuto e il suo uso.
3. Del tutto diverso, direi radicalmente diverso, il carattere del secondo insieme di testi. Questi tutti derivano da un fatto: l’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù di Nazareth. Non altro. Sono, cioè, la narrazione dei fatti e delle parole di un singolo (Cristo), e la narrazione degli atti e delle parole dei suoi discepoli. In più, un testo diverso, di altro carattere e genere letterario, l’Apocalisse, attribuita a uno dei discepoli e forse soprattutto per questo inserita alla fine. Qui, a differenza che nell’insieme precedente, l’evento è un Patto storico, inserito nella storia. E il tempo è un tempo storico, nel quale l’evento si è verificato. Gli scribi sono dei testimoni, la trasmissione si rifà a una parola pronunciata da qualcuno che è stato visto da molti, che hanno assistito alla sua morte, e che l’hanno visto risorto. Negli scritti del Nuovo Testamento è riferita la parola di Gesù di Nazareth (la parola di un singolo) e in seguito le parole e gli atti di un gruppo: vi è cioè il principio e il carattere di un’assemblea che si costituisce e si riconosce in un’alleanza di uomini ordinata a un fine: la predicazione di una verità, dove la verità è un fatto che si è verificato sotto i loro occhi, nel tempo della loro esistenza terrena.
È un insieme compiuto secondo il principio della testimonianza. Ma l’ordinamento non è cronologico. Sappiamo che il primo scritto che vi figura, quanto a data di composizione non è il primo scritto che si riferisca all’evento, anzi, è già un documento di predicazione che presuppone relativamente diffusa la conoscenza dell’evento e ha già la struttura di una riflessione: per così dire di un secondo momento, di un’elaborazione dottrinale. La lettera paolina ai tessalonicesi (se non è un’altra lettera paolina a precederla, secondo esegeti recenti) è già relativa a un’attesa, a un futuro, a una fine. Ma nell’ordinamento dell’insieme figura dopo i Vangeli e gli Atti. I primi testi, poi, non compaiono secondo la data della loro stesura o almeno secondo la data dell’arrangiamento in cui li conosciamo. Per solito, poi, i Vangeli subiscono una distinzione fra sinottici, i primi tre, e un quarto, cui si attribuisce un diverso carattere di testimonianza. Ma forse non è così, se alcuni recenti esegeti anticipano la redazione del testo giovanneo sino a fissarla prima dei testi di Marco e di Matteo. Gradualmente, cioè, veniamo a riconoscere che l’insieme cui diamo il nome di Nuovo Testamento è il risultato di un processo di selezione e di ordinamento che si è compiuto nei primi secoli dell’era cristiana. Sappiamo che sono molti i testi esclusi, che le testimonianze sulla vita e i detti di Gesù erano molto numerose, così come numerosi sono i testi ascritti al genere apocalittico (un genere che non ha precise connotazioni). Ma si è operata una scelta, e si è imposto un ordinamento: si è fissato un canone. Ma secondo quali criteri? e da parte di chi? Sappiamo che l’autorità che ha presieduto alla scelta e all’ordinamento è la chiesa, e che è la chiesa che ha definito apocrifi alcuni vangeli e ha così istituito un criterio di «autenticità» e conseguentemente di esclusione rispetto alle testimonianze. Così come sarà la chiesa in tempi molto recenti a dichiarare solennemente conclusa la rivelazione, in riferimento a fonti paoline di discutibile pertinenza. Ma chi è la chiesa?
4. Abbiamo dovuto renderci conto, quindi, che i due primi insiemi, l’Antico e il Nuovo Testamento, non sono due grandi massi erratici depositati intatti sulla riva della nostra storia. Che essi sono due costruzioni, e che sul secondo di essi è intervenuta a forgiarlo un’autorità non astratta, ma concreta, storica, visibile.
Cercando di rispondere a un’altra delle mie domande, e ricordando che per solito il primo e il secondo insieme sono indicati con il nome comune di Bibbia (un significativo singolare majestatis) mi sono interrogato sul carattere e il senso di questa connessione. È certamente un’indicazione di tempo: gli scritti che compongono il canone veterotestamentario precedono quelli del secondo canone. Tra i primi e i secondi vi è un tempo acanonico, ma non vuoto di scritti, che infatti ora si raccolgono con il nome di scritti intertestamentari, a sottolineare ancora una volta la presenza direi quasi coercitiva dei due insiemi maggiori.
Ma non è solo una successione temporale: la designazione di un primo e di un secondo testamento pregiudica il carattere della connessione suggerendo un’idea di premessa e di conferma, in una sorta di sviluppo necessario e insieme naturale, come da un seme a un albero. In ogni caso così era la modalità di lettura nell’istruzione religiosa delle scuole cattoliche. L’Antico Testamento tendeva al nuovo come al suo unico fine: in esso si contenevano le profezie avverate nel Nuovo, da un tempo astorico, più ancora che preistorico, al tempo storico dell’era, appunto, storica, il nostro tempo cristiano. Soprattutto non era possibile, direi anzi insensato, proporre una lettura dei testi veterotestamentari senza «il senno di poi» degli altri testi. Ma questa, diversamente da altre «presupposizioni», non era affatto una forzatura. Il Nuovo Testamento è la storia della nascita, della morte e della resurrezione di Gesù, figlio di Dio. Non è una premessa, né una profezia, né la forma scritta, o la testimonianza di un’attesa messianica: è la narrazione di un evento e dei primi tempi storici della predicazione di esso da parte dei discepoli e della costruzione da parte di essi della forma «istituzionale» della chiesa visibile e invisibile.
In un certo senso, la connessione vale solo a partire dalla verità dell’evento narrato dal secondo insieme: per così dire, a ritroso. Non ha senso, o piuttosto non ha «verità», a partire dal primo insieme se esso non ha conferma nel secondo, se disconosce nel secondo la sua prosecuzione inverante. Non solo: in questo caso, fra il primo e il secondo testamento (ma la denominazione, come si sa, non è adottata dalla cultura ebraica) vi è un conflitto, una contrapposizione radicale. Per questo la lettura della Bibbia come unità mi è sempre sembrata qualcosa di improprio, in un certo senso una prevaricazione o una appropriazione non esplicita. Per questo ancora, le tesi di «eretici» come Marcione che intendevano separare se non contrapporre i due testamenti, mi sono sempre apparse degne di considerazione, in particolare nella loro interrogazione sulla natura dei due canoni.
5. Rimane da interrogare il terzo insieme: il catechismo. Non è un insieme omogeneo: i catechismi sono moltissimi, di diversa origine, struttura, lingua, ordinamento. Ma sono fra di loro connessi dal proposito comune che li ispira, così da consentire l’uso di un singolare, anche qui, majestatico. Il proposito è quello di raggruppare in un testo breve (Summa brevis) tutto ciò che all’uomo è necessario sapere per salvarsi. Ma non un riassunto, piuttosto solo gli elementi (pezzi, Stucke, articuli, talvolta articuli fidei) tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, e solo da essi.
Non esiste però un catechismo ebraico: l’idea della Summa brevis non è presente nell’ebraismo, credo. Ma è presente dai primi secoli del cristianesimo e si può ripercorrerne la storia (e la fortuna) sino all’apparire dei primi esempi verso la fine del ’400 già nella forma poi ripetuta sino a oggi.
Questi «elementi» che non mancano mai in tutti gli esempi di catechismo sono: il Credo, il Decalogo, il Pater noster, i sacramenti, alcune preghiere. Varia il loro ordinamento, non è mai presente «il contesto», ossia le fonti che, come si vede, sono tutte neotestamentarie, tranne il Decalogo. Quasi a suggerire che dell’Antico Testamento, degli scritti dell’alleanza e della profezia, delle narrazioni e degli esempi rimane solo la legge; anche se è vero che in molti catechismi la legge è il primo degli articoli, ha, cioè, un carattere inaugurale.
Ma anche il proposito stesso è neotestamentario: il nesso sapere-salvezza non corrisponde immediatamente all’invito all’ascolto della parola: introduce, mi sembra, nella forma stessa dei «momenti» isolati di verità, l’abbandono di una lettura non ordinata e soprattutto si oppone all’idea di verità nella storia. È frutto, a me pare, di quel graduale processo esegetico di intervento sul testo, di interpretazione secondo griglie conoscitive, criteri di comprensione comunque esterni al testo, per facilitarne la lettura. In alcuni casi, si avverte anche l’eco delle regole di Ticonio e di Agostino: appaiono il genere e la specie, le categorie aristoteliche, i topici che risulteranno, per così dire, vincenti nella ripresa della retorica nei Loci di Melantone.
Inoltre, risulta evidente che il catechismo implica una scelta, che richiama la scelta operata fra le diverse scritture per comporre i due canoni vetero e neotestamentario. Qui, la scelta è ancora più radicale: non singoli libri, ma pezzi di libro, elementi, nell’ipotesi che proprio questi elementi e non altri, e non i libri da cui erano tratti, bastassero al sapere e alla salvezza o al sapere per la salvezza. Ed è anche evidente, infine, che il proposito riduttivo, comunque ispirato, finiva per esimere il credente dalla lettura dei testi sacri. La Summa brevis, il Verbum abbreviatum di fatto sostituiva la Bibbia, così come le sentenze di Pietro Lombardo sostituiranno la lettura dei padri.
Ma chi ha operato la scelta? Chi ha compiuto il processo riduttivo del corpus degli scritti a un numero esiguo di testi ai quali si riconosce il potere di verità, cui ci si affida per la salvezza, a cui si deve ricorrere per orientarsi nel vivere e nel credere? E ancora, se il primo canone risulta inutile, perché confluisce nel secondo, e il secondo è compendiato nel catechismo, perché ricominciare da capo, come se questo percorso non fosse esauriente, oppure non fosse compiuto, come se si fossero trascurati momenti di conoscenza o di esperienza apparsi necessari in un secondo tempo, che non è quello dell’attesa o della conferma, ma ancora di attesa? La chiesa è il maggiore artefice di questo processo, e ha anche operato di conseguenza, in particolare vietando per due secoli della sua storia la lettura della Bibbia in lingua volgare e frapponendo se stessa fra la lettura dei testi e la loro intelligenza.
Come nel gioco che in tedesco si chiama «il viaggio a Gerusalemme» (è il gioco di girare attorno ad alcune sedie una accanto all’altra ma con gli schienali opposti, una in meno rispetto al numero dei partecipanti, al suono di una musica che si interrompe improvvisamente, e chi non riesce a sedersi esce dal gioco) potrebbe sembrare che il pontefice, solo, sieda sulla sola cattedra di Pietro. Ma forse non è così. Sono state aggiunte alcune sedie e la musica ha ripreso a suonare. Si possono di nuovo formulare tutte le domande.
***
(*) Intervento pronunciato al Convegno di «Biblia», Firenze, novembre 2002. Testo tratto da M. Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento, Garzanti, Milano 2003, pp. 105-113.
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