Archive pour août, 2016

OMELIA XIX DOMENICA DEL T.O. – « SIATE PRONTI CON LA CINTURA AI FIANCHI E LE LUCERNE ACCESE »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/2016/05-Ordinario_C/Omelie/19a-Domenica/14-19a-Domenica-C_2016-SC.htm

OMELIA XIX DOMENICA DEL T.O. – « SIATE PRONTI CON LA CINTURA AI FIANCHI E LE LUCERNE ACCESE »

Abbiamo l’impressione che le letture bibliche di questa Domenica non siano state né coordinate né « ritagliate » troppo bene: così, ad esempio, non si vede chiaramente come la prima lettura leghi con la terza; il brano di Vangelo ci riporta delle pericopi non del tutto omogenee fra di loro, ecc. In ogni modo, cercando di cogliere il filo unitario che, nelle intenzioni almeno, dovrebbe legare i brani tra loro, tentiamo di far emergere la tematica di fondo racchiusa nelle odierne letture: a mio parere, essa dovrebbe consistere nel senso di « attesa » vigile e laboriosa della « salvezza », che Dio ci procura e realizza per noi nella trama quotidiana degli eventi della storia e che porterà a maturazione definitiva al momento del ritorno di Cristo. Proprio per questo il cristiano avrà sempre « la cintura ai fianchi » e terrà nelle mani la « lucerna accesa » (cf Lc 12,35), in attesa del Signore che potrebbe ritornare a qualsiasi ora della « notte ».

« Il tuo popolo si attendeva la salvezza dei giusti… »

Il primo brano, ripreso dal libro della Sapienza, ci descrive per rapidi accenni e per contrapposizione ciò che è avvenuto durante la notte della fuga degli Ebrei dalla schiavitù d’Egitto: mentre Dio distrugge i primogeniti degli Egiziani, salva con prodigi gli Ebrei e i loro figli, mantenendo così le « promesse » fatte ai padri. « Quella notte fu preannunziata ai nostri padri, perché sapendo a quali promesse avevano creduto, stessero di buon animo. Il tuo popolo si attendeva la salvezza dei giusti come lo sterminio dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così ci rendesti gloriosi, chiamandoci a te » (Sap 18,6-8). In ricordo di quella liberazione prodigiosa, Dio istituì, come pegno di fedeltà verso il suo popolo, la « Pasqua », che gli Ebrei celebrano ancora « intonando prima i canti di lode dei padri » (v. 9). Come si vede, si descrive uno dei momenti culminanti della « storia della salvezza », che è stata possibile perché Israele ha « creduto » alle promesse fattegli da Dio e ha saputo attenderne pazientemente, per centinaia di anni, la realizzazione. L’attesa perciò si appoggia sulla « fede » ed è da essa continuamente alimentata: proprio per questo si può vedere facilmente come la fede, anche se ha le sue radici nel « passato », in quanto nel passato Dio ha agito e ha parlato, è aperta al « futuro » perché la salvezza deve ancora compiersi per tutti noi nella storia e, soprattutto, perché dovrà maturarsi con il definitivo ritorno di Cristo nella gloria. « Fede » e « speranza », perciò, si intrecciano mirabilmente fra di loro, creando tensione fra il « già » e il « non ancora » e impedendo al cristiano di essere prigioniero del tempo che passa e della storia: per il cristiano « il più » è ancora da venire!

« Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì »

Su questa linea si muove il meraviglioso brano della lettera agli Ebrei, che esalta la fede di Abramo in quanto aperta al futuro della realizzazione delle promesse: tutto per lui è da attendere e da verificare. Dio gli ha promesso una terra, ma i suoi discendenti la possederanno soltanto dopo circa 700 anni; Dio gli ha promesso un figlio quando sia lui che la moglie Sara non possono più averlo e, dopo che è stato ottenuto, glielo chiede addirittura in sacrificio! Una fede dunque, quella di Abramo, senz’altra garanzia che la « promessa » di Dio e la capacità del grande Patriarca di saper attendere con pazienza il maturarsi lento e silenzioso degli eventi. « Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso… Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra… » (Eb 11,8-10.13-14). È commovente e pieno di pathos questo gesto di Abramo e dei Patriarchi che « salutano da lontano… » i beni « promessi » da Dio, avviandosi, per conto proprio, verso la patria « vera », cioè quella « celeste » (v. 16), « il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (v. 10). La « terra promessa » non era per loro che il « simbolo » di una patria più grande, che sta davanti, che sta oltre e spinge a credere, a sperare, ad attendere ancora. È la nostalgia del futuro, il senso dell’attesa del non-compiuto, che Abramo esprime nella forma più acuta e paradigmatica: egli è più cristiano di tutti noi!

« Non temere, piccolo gregge, perché al Padre è piaciuto di darvi il regno »

Così recuperiamo anche il senso più giusto del lungo brano evangelico, che non è del tutto omogeneo, come abbiamo già detto. Esso infatti contiene alcuni versetti (Lc 12,32-34) che fanno capo alla pericope precedente, tutta incentrata sull’invito ad affidarsi alla Provvidenza e a non porre la propria sicurezza sui beni di questa terra. Se ben si ricorda, era questo il tema che abbiamo, almeno in parte, sviluppato la Domenica scorsa: « Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno. Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore » (vv. 32-34). Qui il discorso dovrebbe essere rivolto in modo particolare ai discepoli, chiamati « piccolo gregge » per la quasi inconsistenza del numero e la loro poca importanza. Eppure ad essi Dio si è compiaciuto di « dare il suo regno »! Non è dunque l’uomo che conquista il « regno » con le sue forze, o la sua intelligenza, o la sua scaltrezza, ma è Dio che lo « dona » gratuitamente; e siccome il « regno », in fin dei conti, non è altro che la potenza di Dio che salva, liberando l’uomo dal male, si capisce come esso si manifesti soprattutto là dove l’uomo si presenta a Dio senza nessuna sicurezza o autosufficienza. Di qui l’invito a « vendere » perfino quello che uno ha per « darlo » ai poveri: in tal modo il discepolo di Cristo, che attua il « regno di Dio » in sé e negli altri, fa già circolare nelle strutture terrene la salvezza che nasce dall’amore. Se il regno di Dio « già » opera nel mondo e nei credenti che non hanno legato il loro cuore a nessun « tesoro » di questa terra (v. 34), è anche vero, però, che esso deve soprattutto manifestarsi « alla fine ». Forse qui è appeso il filo di congiungimento e di passaggio dalla considerazione sulla libertà dalle ricchezze al senso di « vigilanza » e di attesa del « padrone » che deve tornare a casa da un momento all’altro (v. 36): sia nell’uno che nell’altro caso il discepolo deve essere « disponibile » per l’ingresso (attuale o futuro) nel regno. È indubbio, comunque, che il tono a tutto il brano evangelico è dato non tanto dai primi versetti, relativi al distacco dalle ricchezze, quanto dalle due parabole successive che, con accentuazioni e modalità diverse, sottolineano la necessità per il cristiano di essere vigilante, « perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate » (v. 40). Il « regno », in qualunque maniera o in qualsiasi momento si presenti, esige nei discepoli di Cristo cuore « libero » e « vigilante ».

« Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro »

« Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa » (vv. 35-36). La « cintura ai fianchi » descrive l’atteggiamento tipico di chi si appresta a mettersi in viaggio o a lavorare, e perciò si raccoglie la lunga veste alla cintura per essere più libero nei movimenti; le « lucerne accese » servono per l’improvviso ritorno del padrone durante la notte. Non è, però, questo atteggiamento dei servi, timido, o preoccupato, o pauroso: anzi è pervaso di gioia, come dimostra il fatto che, non appena tornato, il padrone, capovolgendo i ruoli, si metterà egli stesso a servirli: « Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli: in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli » (v. 37). È evidente qui il riferimento a Gesù come « servo di Jahvèh », che si mostra tale soprattutto nella storia della Passione: « Io sono in mezzo a voi come uno che serve » (Lc 22,27). L’idea del regno e anche la sua attesa sono dunque intimamente collegate con la « gioia »: perciò l’invito di Gesù a « tenersi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate » (v. 40), non è tanto una minaccia quanto una sollecitazione a tenere il cuore e la mente gioiosamente aperti alla luce che ci inonderà. La seconda parabola, quella dell’amministratore fedele, si muove sulla stessa linea della precedente; però è diretta soprattutto ai capi della comunità cristiana, come risulta sia dal suo contenuto, sia dalla domanda di Pietro che la provoca: « Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti? ». Il Signore rispose: « Qual è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà a capo della sua servitù, per distribuire a suo tempo la razione di cibo? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà nel giorno in cui meno se l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo punirà con rigore, assegnandogli il posto fra gli infedeli… » (vv. 41-48). In questa seconda parabola si avverte, più che nella prima, il decadere della tensione escatologica, per un doppio motivo: il primo, che è comune a tutti i credenti, è costituito dal fatto di questa indefinita dilazione del ritorno del padrone; così, alla fine, ci si abitua a non aspettarlo più! Il secondo è tipico di chi è costituito in autorità, come l’amministratore della parabola: è la tentazione di farsi « padroni » degli altri « servi » e delle altre « serve » (cf v. 45), ormai che l’attesa dell’unico « padrone » è scomparsa dall’orizzonte. Soprattutto l’autorità (e qui si parla ovviamente dell’autorità nella Chiesa!) ha bisogno, perciò, di sentirsi continuamente posta sotto il « giudizio » escatologico, per rimanere sempre e solo « servizio », come insegna il Vangelo. E il « giudizio » è questo, e già si esprime adesso: « A chiunque fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più » (v. 48). Chi per missione insegna agli altri a essere « vigilanti » perché il Signore sta già « bussando » alla porta (cf Ap 3,20), non dimentichi che è soprattutto per gli « annunciatori » che questo è stato detto, perché lo stesso Vangelo può diventare nelle loro mani strumento di dominio e di potere. Invece, come dice Paolo, « noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia » (2 Cor 1,24).

Settimio CIPRIANI

Trasfigurazione, Lorenzo Lotto

Trasfigurazione, Lorenzo Lotto  dans immagini sacre 800px-Lorenzo_Lotto_065
https://it.wikipedia.org/wiki/Trasfigurazione_(Lotto)

Publié dans:immagini sacre |on 4 août, 2016 |Pas de commentaires »

FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

http://disf.org/simbologia-luce-sacra-scrittura

FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

Gennaio 2015 Filippo Serafini, docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma   È difficile sottovalutare l’importanza della luce nella Bibbia, dato che essa compare fin dalla sua pagina iniziale, essendo la prima delle opere create (Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»), e si ritrova anche nella pagina conclusiva (Ap 22,5: «Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli»). Nella Bibbia l’uso concreto dei termini legati al campo semantico della luce (oltre al sostantivo «luce», in ebraico ’ôr e in greco phôs, pensiamo a vocaboli come «lampada», «lucerna», «lucernario», «illuminare», «brillare», «splendere», «rischiarare», ecc.) si intreccia con quello metaforico. Il nostro intendimento è di presentare soltanto alcuni punti fondamentali legati all’esperienza della luce così come viene esposta agli autori biblici. La luce nel Primo Testamento Conviene precisare fin dall’inizio che la concezione ebraica antica, che soggiace per lo meno ai testi dell’Antico Testamento, è diversa dalla nostra: mentre noi riconduciamo l’esperienza della luce sulla terra al ruolo fondamentale del sole, l’israelita sembra presupporre una certa indipendenza della luce. Certo il sole era considerato una fonte di luce, ma non l’unica perché anche le stelle e la luna lo sono (cfr. Gen 1,14-16; Is 30,26; 60,19; Ger 31,35; Ez 32,8; Sal 136,7-9) né si percepisce una maggiore importanza del sole nei confronti di luna e stelle (non si aveva idea che in realtà la luna riflette la luce solare, come noi ben sappiamo). A tale concezione soggiace forse l’esperienza della presenza di luce anche quando il sole non si vede (come con il cielo nuvoloso o all’aurora, nel momento in cui un chiarore compare al’orizzonte prima che il sole sorga). Questo spiega perché l’autore biblico possa immaginare in Gen 1 la creazione della luce, narrata nei vv. 3-5, come precedente la creazione degli astri, narrata nei vv. 14-19. Inoltre in questo testo la luce è associata primariamente al «giorno» («Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte», Gen 1,5) e l’idea fondamentale è appunto quella dell’alternarsi di giorno e notte, come ritmo ordinato del tempo all’interno del quale si inserisce la vita. La separazione tra luce e tenebre crea quindi l’«ordine» basilare e si contrappone alla situazione negativa descritta al v. 2, con il dominio delle tenebre (per un approfondimento su come vada interpretato il racconto di Gen 1 si veda P. Benvenuti – F. Serafini, Genesi e Big Bang, Assisi 2013). L’ordinato alternarsi di luce e tenebre non le mette comunque sullo stesso piano: rimane la superiorità della luce, per la quale vale il giudizio di «bontà» formulato da Dio stesso (Gen 1,4). D’altra parte, non c’è nemmeno, nella Bibbia, un dualismo ontologico tra luce e tenebre: è vero che le tenebre sono un simbolo negativo, associato al caos e alla desolazione (realtà che l’antico israelita percepiva come antitetiche alla creazione, cfr. Ger 4,23), ma poste entro i loro limiti e controllate dalle leggi volute dal creatore fanno parte dell’ordinamento del mondo (per questo Is 45,7 può mettere in bocca al Signore l’affermazione: «Io formo la luce e creo le tenebre»). Il racconto di Gen 1 propone quindi come scansione temporale fondamentale il giorno, nell’alternanza di luce e tenebre, dando priorità a questo aspetto rispetto alle suddivisioni del calendario basate sul corso della luna e del sole, come i mesi e le stagioni. La prima pagina della Bibbia si conclude con la «consacrazione» (Gen 2,3) del settimo giorno, che ha così un particolare legame con Dio: lo scopo del narratore e ricordare che la separazione fondamentale tra luce e tenebre non crea soltanto la possibilità per la vita, ma anche per la relazione fra l’uomo e Dio che è essenziale per la vita stessa. Nella predicazione profetica questo tema ritorna con l’evocazione del «giorno del Signore», come momento decisivo per la storia di Israele. Esso è collegato al giudizio e quindi appare come giorno di tenebra e ira per i peccatori (cfr., p. es., Gl 2,2; Am 5,18.20), un giorno in cui la luce degli astri si oscurerà (cfr., p. es., Is 13,9-10; Am 8,9); d’altra parte, poiché in esso si realizza la pienezza della presenza divina in mezzo agli uomini, è anche giorno di luce più intensa (cfr. Is 30,26) o un giorno senza tenebra (Zc 14,6-7: «In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce»). L’immagine, quindi, assume i toni escatologici, fa riferimento, cioè, alla fine dei tempi, in cui Dio ristabilirà la pienezza e il suo splendore dominerà (cfr. Is 60,19 e il versetto di Apocalisse citato all’inizio). Si impone quindi l’associazione tra luce e vita che trova espressione in diversi passi ma sopratutto nella formula «luce della vita» (o «luce dei viventi»), che ricorre in Gb 33,30 e Sal 56,14 in contesti che richiamano la liberazione divina dal pericolo di morte. Per contrasto chi è morto non vede la luce (cfr., p. es., Sal 49,20) e gli inferi (še’ol in ebraico) sono concepiti come «la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,21-22). Dal punto di vista antropologico questo ha un riflesso nell’idea che la «luce degli occhi» sia associata alla salute e/o alla forza vitale dell’individuo, come appare in 1Sam 14,27: «Giònata… allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (cfr., in senso contrario, Sal 38,11). Su questo sfondo si comprendono i passi in cui il benessere rappresentato dalla luce degli occhi è associato alla legge divina (Sal 19,9) o alla sapienza (Qo 8,1). In senso ampio, quindi, la luce è simbolo della salvezza che è evidentemente, nella prospettiva biblica, un dono divino (cfr., p. es., Sal 18,29: «Signore, tu dai luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre»; Is 9,1: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse»). In questo ambito va compreso l’uso dell’espressione «luce del volto» di Dio (cfr. Sal 4,7; 44,4) e di quella analoga, secondo cui Dio «fa risplendere il suo volto» (cfr., p. es., Nm 6,25; Sal 31,7), che indicano il favore e la benedizione divina accordata ai suoi fedeli. La luce di Dio ha anche un risvolto etico, in quanto consente all’uomo di «camminare» (verbo che è una metafora della condotta morale) secondo la sua volontà e quindi in rettitudine (Is 2,5 usa l’espressione «camminiamo alla luce del Signore» per riprendere il concetto espresso al v. 3 con la frase «camminare per i suoi sentieri»). Non sorprende che quindi le tenebre notturne siano concepite come il momento favorevole per le opere dei malvagi (cfr., p. es., Gb 24,14-16), ma anche come la situazione in cui si trova il peccatore che, riconoscendo la sua colpa, confida nel riscatto da parte del Signore (Mi 7,8-9 «Non gioire di me, o mia nemica! Se sono caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce. Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di lui, finché egli tratti la mia causa e ristabilisca il mio diritto, finché mi faccia uscire alla luce e io veda la sua giustizia»). Quest’idea del possibile riscatto dalla situazione di tenebra, accentua la colpevolezza di chi si vuole sottrarre alla luce, avvitandosi in una situazione negativa descritta magistralmente in Sap 17, che rilegge il racconto degli Egiziani avvolti dalle tenebre (una delle “piaghe” inviate da Dio per convincere il Faraone a liberare Israele) considerandoli il “tipo” degli avversari di Dio. Si noti come, essendo nell’Antico Testamento l’idea della giustizia divina strettamente connessa con quella della salvezza, anche a essa si applichi al metafora della luce; addirittura l’apparire della luce può essere poeticamente legato alla scomparsa di iniquità e ingiustizie (cfr. il bel passo poetico di Gb 38,12-15). Da tutto quanto appena si detto si comprende come la Legge, in quanto espressione della volontà divina e della sua giustizia, sia anch’essa «luce» per l’uomo (Is 51,4; Sal 119,105). Più direttamente è la presenza stessa di Dio che è luce, come appare nei racconti del Pentateuco che parlano della colonna di fuoco che guida il popolo (Es 13,21-22; 14,20) e in Is 60,1: «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te». La straordinarietà della figura di Mosè è segnata anche dal fatto che la luce divina si riflette in qualche modo sul suo volto (cfr. Es 34,29-30.35). Va rilevato che in questi casi si fa sempre riferimento alla percezione umana della vicinanza di Dio, non compare nell’Antico Testamento una descrizione della realtà divina come «luce» (anche Sal 104,2, che descrive il Signore «avvolto di luce come di un manto», si colloca in un contesto che descrive la gloriosa manifestazione di Dio nel creato). La luce che viene nel mondo: il messaggio del Nuovo Testamento Nel Nuovo Testamento si ritrovano i valori simbolici della luce già individuati nell’Antico Testamento, ma con sottolineature peculiari e aspetti innovativi. Notiamo dapprima, però, un uso più concreto del termine: l’apparizione di una «luce dal cielo» (At 9,3; 22,6; 26,13) è legata all’epifania di Gesù Cristo a Paolo, così come l’apparizione di un angelo illumina la cella in cui Pietro è imprigionato (At 12,7); analogamente l’evento della trasfigurazione di Gesù è descritto facendo riferimento alla luce (cfr. Mt 17,2.5). Questa descrizione di particolari manifestazioni del divino come apparizioni di una «luce» si discosta dall’Antico Testamento che preferisce parlare del fuoco (cfr., p. es., Es 3,2; 19,18; 24,17). Probabilmente il riferimento alla luce, senza precisazione della sua fonte, veniva percepito dagli autori del Nuovo Testamento come rimando più adeguato alla trascendenza divina. Dal punto di vista antropologico, interessante è il detto di Mt 6,22-23, che paragona l’occhio umano a una lampada, secondo un’immagine comune sia nel mondo greco che in quello giudaico: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!». Si faccia attenzione che il riferimento finale alla «luce» è probabilmente sempre un immagine dell’occhio: come organo della vista è ciò che consente che ci sia luce nella persona. Il detto, quindi, non fa tanto riferimento a una “illuminazione interiore”, ma al valore dello sguardo sulla realtà che si vive e sui rapporti con gli altri, che può essere «semplice» (cioè retto, limpido, mite) o «cattivo» (cioè, malizioso, invidioso, cupido). L’occhio esprime l’intenzionalità fondamentale che il soggetto applica alla realtà e questa si riflette sulla sua situazione complessiva di vita (rappresentata dal «corpo»), descritta come luminosa o tenebrosa. Nel brano parallelo l’evangelista Luca aggiunge un versetto («Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», Lc 11,36) che sembra suggerire che la vita di colui che ha lo sguardo «semplice» sia capace di diffondere luce; con ciò ci si ricollega all’interpretazione matteana del detto sulla lampada che non va nascosta (Mt 5,14-16 «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»). Come si vede il fine della testimonianza, data dalle opere buone che sgorgano dallo sguardo semplice sulla realtà, è la glorificazione di Dio, il riconoscimento della sua paternità e del suo operare nella storia. Infatti diversi detti collegano l’immagine della luce al processo del pubblico manifestarsi e quindi della rivelazione: così è per il detto sulla lampada che non si può nascondere in Mc 4,21-22 («Diceva loro: “Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce”»; cfr. Lc 8,16; 11,33) e per Mt 10,27 («Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze»; cfr. Lc 8,17; 12,2-3). Quello che Gesù annuncia, infatti, è di per se stesso destinato a diventare manifesto, in quanto espressione del disegno divino di salvezza che chiede all’uomo di essere accolto. Ma ciò significa, ovviamente, che Gesù stesso (o meglio: il Messia atteso) può essere definito «luce» (così in Mt 4,16, nella ripresa di Is 9,1; e in Lc 2,32): questo non tanto in relazione alla sua natura, ma piuttosto alla sua missione, che è quella di donare la salvezza divina (riprendendo quindi il valore simbolico della luce che si trova in diversi passi dell’Antico Testamento). La connessione fra luce e offerta della salvezza si può trovare anche nella parola apostolica (cfr At 13,47, dove Paolo e Barnaba applicano alla loro attività l’oracolo di Is 4,6, e Ef 3,8-9), ovviamente in quanto proclamazione del Vangelo di Gesù. Collegando questo a Mt 5,14-16 si vede come la vita dell’apostolo e discepolo debba essere improntata all’assoluta trasparenza luminosa del suo parlare e del suo agire in riferimento all’annuncio del Cristo. La rappresentazione della rivelazione divina con la metafora della luce viene ripresa nelle lettere paoline, con alcuni tratti caratteristici. Anzitutto sottolinea la possibilità per il credente di conoscere o comprendere la realtà salvifica che gli viene donata (2Cor 4,6: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo»; cfr. anche Ef 1,17-18: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi»). In questa stessa prospettiva il momento iniziale della vita cristiana, la conversione alla fede in Gesù Cristo può essere definita come «illuminazione» (cfr. Eb 6,4; Eb 10,32; secondo alcuni autori questi passi farebbero riferimento al battesimo, ma non è certo; l’uso del termine «illuminazione» per indicare il battesimo si trova però nel II secolo d.C, negli scritti di Giustino). In secondo luogo la manifestazione del Cristo è anche svelamento di ciò che si trova nella profondità del cuore umano (1Cor 4,5 «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode»; cfr. Ef 5,13 dove l’accento è però sulla condanna) e quindi vale come giudizio. In questo la prospettiva escatologica (cioè quella della fine dei tempi) e quella etica (relativa alla prassi quotidiana) si intrecciano. Infatti il cristiano, accogliendo la salvezza di Cristo, è reso già ora «capace di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12): in questo versetto si deve evidentemente intendere la «luce» come una metafora della comunione con la divinità. D’altra parte sono ripetuti gli inviti a vivere nella luce e a rifiutare le opere delle tenebre, dove l’immagine si riferisce senz’altro alla rettitudine dell’agire (cfr Rm 13,12; Ef 5,8-9); anzi il richiamo alla separazione primordiale fra luce e tenebre (2Cor 4,6) spiega anche la calda esortazione a uno stile di vita chiaramente distinto da quello dei non-credenti (2Cor 6,14 «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?»). L’idea della separazione e della distinzione rispetto ai non credenti, sia dal punto di vista etico sia da quello della speranza nella vita futura, soggiace probabilmente anche all’uso dell’espressione «figli della luce» (cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) che non si trova nell’Antico Testamento, ma è frequente nei testi di Qumran. Nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso a definirsi «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) e il significato dell’immagine è duplice: da una parte, infatti, sottolinea il ruolo di Gesù nella Rivelazione, anzi il suo essere la Rivelazione stessa (la «verità» nel linguaggio giovanneo) che va accolta con fede (non a caso la definizione di Gv 9,5 apre il racconto del miracolo di guarigione del cieco nato che non solo riacquista la vista, ma giunge alla fede); dall’altra la connessione fra luce e vita riprende il tema della salvezza, ovvero della pienezza di vita, offerta da Dio agli uomini in Gesù. La connessione tra luce e vita, che risale all’esperienza basilare dell’essere umano e che veniva affermata dal racconto di Gen 1, viene ripresa in forma marcatamente cristologica, affermando che tale connessione dipende dal “Verbo” sin dal «principio» (cfr. Gv 1,4 «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini») e va accolta dall’uomo credendo in Gesù di Nazareth. Chi rifiuta la sua persona si trova di fatto nelle «tenebre» (Gv 3,19-21; cfr. 11,9-10): in tal senso la rivelazione e l’offerta di salvezza sono anche giudizio, perché smascherano alcune situazioni o posizioni esistenziali come radicalmente opposte alla volontà divina di vita e quindi apportatrici di morte. Nella prima lettera di Giovanni la «luce» non è posta come predicato di Gesù, ma di Dio (1Gv 1,5: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»). Questo non va inteso come una pura definizione dell’essenza divina, cosa che tra l’altro comporterebbe di intendere il vocabolo «luce» in senso concreto e non metaforico, perché il contesto immediatamente seguente mette in rapporto tale affermazione con la condotta concreta dei credenti, che devono «camminare nella luce» (1Gv 1,7). L’immagine serve quindi anzitutto a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio. Per concludere… Al termine di questo breve percorso possiamo tornare a prendere in considerazione la prima e l’ultima pagina della Bibbia, che abbiamo evocato all’inizio. Se Gen 1 ci ricorda che la nostra vita è resa possibile dall’alternanza di luce e tenebre e scorre attraverso entrambe (anche a livello simbolico, visto che ogni esistenza umana ha luci e ombre), la grandiosa visione della Gerusalemme celeste in Ap 21,9–22,5 ci fa intravvedere il destino a cui l’umanità è chiamata in Cristo, quella pienezza di luce e di vita il cui desiderio è iscritto nell’intimo di ciascuno di noi.  

Mt 14:13-21 There is No Need for Them to Go Away

Mt 14:13-21 There is No Need for Them to Go Away dans immagini sacre loavesfishes

http://fralfonse.blogspot.it/2010/08/there-is-no-need-for-them-to-go-away.html

Publié dans:immagini sacre |on 3 août, 2016 |Pas de commentaires »

RIFLETTENDO SUL QOHÈLET

http://www.gliscritti.it/index.html

RIFLETTENDO SUL QOHÈLET

testi di Salvatore Natoli, Laura Badaracchi e Andrea Lonardo)

Riprendiamo da Avvenire del 7/7/2011, una sintesi curata dal quotidiano cattolico della postfazione del filosofo Salvatore Natoli al volume Chi era Qohelet?, dell’ebraista Amos Luzzatto che esce in questi giorni da Morcelliana. L’articolo era accompagnato da un testo di Laura Badaracchi che mettiamo anche noi a disposizione. Infine, ripresentiamo un breve testo di Andrea Lonardo ad ulteriore commento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (8/7/2011)

1/ Il libro del profeta «io» che parla al mondo, di Salvatore Natoli Non entro nel merito dell’ipotesi formulata da Amos Luzzatto, secondo cui Qohelet – almeno quello che parla – sarebbe una donna. Lascio ai filologi e ai critici del testo il compito di definire la validità o meno di una tale ipotesi. Per quanto mi riguarda, non mi meraviglia affatto che parole di sapienza siano poste sulle labbra di una donna e che proprio a un donna sia assegnato il compito d’essere maestra di verità. Lo è certamente nel Simposio di Platone: lì è Diotima, donna dotta di Mantinea, che interroga Socrate e gli svela la vera natura di Amore. Ma uomo o donna che sia, chi, fin dall’inizio, entra da protagonista è l’individuo. Si tratta di una sorta di io narrante e osservatore, che racconta di sé e delle sue esperienze. Qohelet è un soggetto narrante che molto ha vissuto e ha visto, che ha osservato come vanno le cose nel mondo e in base a questo racconta, consi­glia, giudica… Protagonista è sempre e uniformemente l’io. D’altra parte Qohelet, da empirista conseguente quale cerca d’essere, non può che parlare del mondo a partire da sé; per la medesima ragione nel momento in cui parte da sé ne prende anche le distanze. Infatti, per comprendere davvero le proprie esperienze è necessario oggettivarle, guardarle come da fuori. Ma soprattutto bisogna guardare da fuori se stessi, come se si fosse un altro. È perciò necessario che l’ enfasi dell’io venga limitata al massimo proprio nel momento in cui se ne tematizza l’esperienza: è necessario portarsi al margine perché l’andatura del mondo possa emergere nella sua verità. Per questo, mano a mano che si procede nella lettura di Qohelet, l’io parlante si trasforma sempre di più in una sorta di voce fuori campo. Qohelet è tutt’altro che pessimista – come si crede e come è fatto valere da letture macabre e decadenti – ma è piuttosto realista: ricorda fin dall’inizio a ogni uomo di avere consapevolezza e memoria della propria finitezza e di deporre perciò ogni orgoglio e ogni mania di supremazia. Certo, vi sono tanti e giustificati motivi per odiare la vita, specie quando ci si è spesi senza riserva per qualcosa che alla fine si è rivelato inconsistente ed effimero. E non tanto perché transitorio, ma perché illusorio in se stesso. In Qohelet, infatti, non c’è una protesta che nasce dalla sofferenza, non c’è, come in Giobbe, la chiamata in causa di Dio innanzi allo scandalo del dolore innocente, e soprattutto all’evasione della sua promessa, ma vi è piuttosto una delu­sione da successo, una sorta di nausea da sazietà. «Ho raccolto argento e oro – si legge – [...] mi sono fatto dei corifei, uomini e donne e una moltitudine di concubine che sono la deli­zia del genere umano [...] Ho considerato tutte le azioni fatte dalle mie mani e l’impegno profuso, ed ecco: tutto è alito evanescente, inseguimento del vento» (2,8.11). Ma da dove questa delusione? Viene spontaneo domandarselo e si potrebbe rispondere, leopardianamente, che il desiderio umano è infinito ed è perciò esposto costitutivamente alla delusione. Oppure può capitare – e capita di frequente – di sopravvalutare i nostri obiettivi, di puntare unilateralmente su di essi illudendoci che la felicità stia nelle cose e nei beni, non piuttosto nelle relazioni, nel rap­porto giusto con gli altri e con il mondo. E, spesso, dopo la delusione si ricomincia da un’altra parte con lo stesso strabismo e la medesima unilateralità. È difficile reperire un testo ove sia presente una tale e tanta reiterazione dell’io. E se la delusione nascesse proprio dall’idolatria del sé, dall’elevare ad idoli le opere delle proprie mani, ritenendo di trovare in esse la propria più compiuta realizzazione? Che un maestro del giudaismo la pensi così è normale e perfino ovvio. Per questo il testo di Qohelet, lungi dal denigrare la vita, ne demolisce gli unilaterali strabismi e, lungi dall’essere pessimista, è invece un buon consigliere sul da farsi, ci sollecita a vivere la vita con equilibrio e misura.

2/ Rabbino o sapiente, ma non al femminile, di Laura Badaracchi Sicuramente si tratta di uno «scettico fedele a Dio, credente». Ma che l’autore del Qohelet possa essere una donna è «un’ipotesi ardita e suggestiva, inedita» per Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose: «Può darsi che sia possibile, ma non mi sembra di ravvisare nel libro tratti maschili o femminili, anzi: in alcuni passaggi si notano valutazioni non positive nei confronti delle donne. In primo luogo, comunque, emerge la meditazione e riflessione di un sapiente, così poco passionale e toccata dai sentimenti che mi sembra difficile sia stata scritta da una mano femminile. Ma rispetto questa teoria di Amos Luzzatto, di cui sono grande estimatore». Secondo Bianchi, autore di un commento al libro biblico, a vergare le pagine sarebbe stato forse un «rabbino ebreo, certamente uno che riflette sulla realtà, sulla storia, sulle persone; dato che contesta in modo intelligente la sapienza tradizionale, in qualche modo la sua chiave di lettura potrebbe sembrare cinica o epicurea ma non è così: le cose hanno un’inconsistenza se mancano della visione di Dio, se non hanno quella trasparenza. Un richiamo alla fragilità interna e alla transitorietà di ciò che passa, ma in una visione molto pacificata. Tanto che i Padri della Chiesa lo consigliavano come uno dei libri da leggere prima di ricevere il battesimo, perché lo concepivano come viatico pedagogico alla fede cristiana». Infatti san Girolamo lo prescriveva ai suoi discepoli come primo libro da tradurre. In ogni caso, per il priore di Bose «il testo è molto più recente rispetto ai tempi di Salomone: su questo punto gli esegeti concordano». Lo ribadisce anche Gian Luigi Prato , docente di Lingua ebraica all’Università Roma Tre e membro dell’Associazione biblica italiana: «Anche se la data è ancora incerta, si tratta di un testo del periodo ellenistico, tra il IV e il III secolo avanti Cristo; l’ambiente in cui è stato scritto è più difficile a stabilirsi». Ma secondo il biblista non si può identificare un singolo autore, uomo o donna che sia. A partire dall’enigmatico termine «qohelet», che di per sé, «come forma grammaticale, è un participio femminile, anche se si sostiene che potrebbe essere inteso al maschile ». Deriva dal verbo ebraico «riunire o riu­nirsi, quindi significa ‘colui che ha a che fare con una riunione di persone, una piccola assemblea’ (da cui la traduzione latina ‘Ecclesiaste’), anche se non c’era ancora la sinagoga; oppure ‘riunione di detti, proverbi’: in questo caso indicherebbe il redattore di varie massime che espone nella sua opera». Ma la prima accezione è la «più comune e accettata. Si tratta quindi di un nome simbolico, di funzione, di un uomo che conosceva non solo la cultura ebraica ma la filosofia e la sapienza popolare, oggi diremmo esistenziale», precisa Prato. Dal VII capitolo del libro, tuttavia, lo studioso deriva la convinzione che «l’identità dell’autore non può essere femminile. Scrive infatti: ‘Trovo che amara più della morte è la donna’. E ancora: ‘Un uomo su mille l’ho trovato: ma una donna fra tutte non l’ho trovata’: frasi che esprimono un pensiero piuttosto maschilista».

3/ Qohelet: un credente, non uno scettico, di Andrea Lonardo Un amico, esegeta dei libri sapienziali, spiega, a ragione: «Qohelet non è assolutamente uno scettico, nel senso moderno del termine. Non è uno scettico epistemologico, cioè uno che non sappia se Dio c’è o non c’è! Qohelet è un credente. Mai mette in dubbio l’esistenza di Dio. Non è assolutamente un nihilista. Potremmo dire, piuttosto, che è uno scettico gnoseologico, cioè uno che sa che è la conoscenza dell’uomo ad essere limitata, proprio perché è creatura e non Creatore. L’uomo, nel suo limite, non può che rimandare a Dio ed alla fede in Lui. La vera episteme, la vera sapienza è rimettere a Dio il giudizio. Probabilmente Qohelet si misura con la sapienza greca scettica a lui contemporanea e, con sottigliezza, accoglie alcuni spunti di quella prospettiva, ma per cambiarne radicalmente l’impostazione ed, anzi, confutarla. La sua conclusione, dopo aver visto la difficoltà dell’uomo a trovare nell’umano la stabilità, è: “Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto” (Qo12, 13)». Una recente pubblicazione di Virgilio Melchiorre, filosofo, sembra andare in questa stessa direzione, provocatoria già nel titolo: Qohelet o della serenità del vivere (Morcelliana). All’autore sembra centrale il versetto 3,11 – che spesso viene trascurato rispetto ai più famosi “c’è un tempo per…”, mentre, invece, ne è la chiave di lettura – “Dio ha posto ogni cosa nel suo tempo. Nel cuore umano ha posto anche il senso dell’eterno, senza però che l’uomo possa comprendere dal principio alla fine l’opera di Dio”. Melchiorre così scrive: “La sentenza dice appunto che nel cuore dell’uomo dimora l’a priori di un ultimo senso, ma dice ad un tempo che di questo senso non è dato cogliere la trama nella sterminata sequenza dei tempi”.

1234

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01