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PAPA BENEDETTO XVI – GLI APOSTOLI, COLLABORATORI DI CRISTO

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PAPA BENEDETTO XVI – GLI APOSTOLI, COLLABORATORI DI CRISTO  

a cura di Olindo Crespi

Nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto, ha ricordato il Papa nell’Udienza generale di mercoledì 10 settembre, Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo.   «Cari fratelli e sorelle quell’incontro segnò l’inizio della missione di Paolo: egli non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. È proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro « che erano stati apostoli prima » di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come apostolo in senso stretto…

Le caratteristiche dell’apostolo Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra « i Dodici » e « tutti gli apostoli », menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come « l’infimo degli apostoli », paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: « Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me » (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: « Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio » (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere « visto il Signore » (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui. La seconda caratteristica è di « essere stati inviati ». Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto « inviato, mandato », cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce « apostolo di Gesù Cristo » (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche « servo di Gesù Cristo » (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale. Il terzo requisito è l’esercizio dell’ »annuncio del Vangelo », con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di « apostolo », infatti impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: « Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? » (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: « La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente » (3,2-3).

Identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di « un’anima di diamante » (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: « Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più…, così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale » (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come « collaboratori di Dio » (1Cor 3,9; 2Cor 6, 1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia « scandalo e stoltezza » (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire « scandalo e stoltezza », partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: « Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi » (1 Cor 4,9-13). È un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.

L’amore di Cristo Paolo, peraltro, supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore » (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana. Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, « per salvare ad ogni costo qualcuno » (1 Cor 9,22). Ancora: « Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia » (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia>>

La porta stretta

La porta stretta dans immagini sacre XXI_ordinario

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21 AGOSTO 2016 | 21A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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21 AGOSTO 2016 | 21A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Signore, sono pochi quelliche si salvano? » È piuttosto sconcertante la domanda di un anonimo a Gesù, mentre si sta dirigendo a Gerusalemme: « Signore, sono pochi quelli che si salvano? » (Lc 13,23). Non sappiamo se sia la richiesta di uno, troppo zelante, che si preoccupa di riservare solo alle persone « per bene » il regno dei cieli; oppure se sia la domanda angosciata di qualcuno davanti al disimpegno dei più circa i problemi fondamentali della salvezza. Probabilmente si tratta di ambedue i casi, anche se inizialmente la domanda poteva riguardare soprattutto una certa sicurezza dei Giudei (« i primi ») di fronte ai pagani (« gli ultimi »): però, con l’andare del tempo, il problema si deve essere allargato e incominciò a implicare anche una certa perplessità circa le condizioni per ottenere la salvezza e il possibile « rischio » di perderla. Attualizzando il messaggio evangelico, perciò, Luca invita i cristiani del suo tempo e tutti noi a rivedere il nostro « impegno » per la salvezza, perché non c’è alcuna sicurezza d’ingresso nel regno, per nessuno.

« Sforzatevi di entrare per la porta stretta » Quasi tutti i loghia di questa pericope lucana ricorrono anche in Matteo, ma dispersi un po’ dappertutto e anche con significati alquanto diversi. Probabilmente Luca ha rispettato di più l’ordine originale dei detti, la cui idea fondamentale sembra essere il rifiuto di Israele e la chiamata dei pagani alla salvezza. Ma vediamo di analizzare il testo. Prima di tutto è da notare la menzione esplicita del « cammino » di Gesù verso Gerusalemme, che scandisce il ritmo di questa parte del Vangelo di Luca: « Gesù passava per città e villaggi, insegnando, mentre era in cammino verso Gerusalemme » (13,22). Sappiamo che da 9,51 fino a 19,28 tutta la trama narrativa di Luca si svolge sotto il segno dell’andata di Gesù a Gerusalemme: questo contribuisce a dare alle sue parole un senso di maggiore urgenza e decisione, appunto perché è l’appello di uno che « passa » e non si sa se ritorna. In questo sfondo acquista più risonanza la domanda rivolta a Gesù se siano « pochi quelli che si salvano » (v. 23). Un problema del genere era dibattuto anche nei circoli religiosi giudaici del tempo. I più ritenevano che, per il solo fatto di essere Giudei, si potesse avere sicurezza d’accesso al regno futuro. Così, per esempio, Rabbi Meir insegna che « può essere ritenuto un figlio del mondo futuro colui che abita nel paese d’Israele, parla la lingua santa, e recita mattina e sera la preghiera dello Shema’ ». Secondo alcuni gruppi apocalittici, invece, soltanto pochi si salverebbero: « Sono di più coloro che si perdono che non coloro che si salvano, come la corrente è più grande di una goccia » (4 Esdra 9,15). Gesù sfugge volutamente da questa casistica, che avrebbe banalizzato il discorso. Non dice né se saranno pochi, né se saranno molti « quelli che si salvano »: lancia solo un appello alla decisione e con alcune immagini particolarmente espressive ne sottolinea l’urgenza: « Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità. Là ci sarà pianto e stridore di denti… » (vv. 24-28). Il problema, dunque, non è di sapere quanti siano i salvati, ma di darsi da fare, di « sforzarsi » per entrare nel regno (v. 24). Le immagini della « porta stretta » e di uno spazio di tempo oltre il quale la porta verrà « chiusa » (vv. 24-25), intendono dire la difficoltà e l’urgenza dell’impegno cristiano: nessuno può perdere tempo o rimanere indeciso davanti a un’offerta così grande! Se qualcuno rimarrà fuori (pochi o molti, non lo sappiamo), non avverrà perché capricciosamente « il padrone di casa » avrà deciso di chiudere la porta, ma solo perché non si è « sforzato » di fare il bene, illudendosi che bastasse solo avere avuto il privilegio di essere concittadino di Cristo, della sua stessa razza: « Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze » (v. 26). Nessuno è privilegiato davanti a Cristo, salvo colui che ha « operato » il bene: proprio il contrario di quegli « operatori d’iniquità » (v. 27), che Gesù dichiara di non « conoscere »!

« Alcuni tra gli ultimi saranno primi e alcuni tra i primi saranno ultimi » È evidente da tutto il contesto che qui si parla della sicurezza dei Giudei, che vantavano i loro privilegi (legge, circoncisione, elezione, ecc.) davanti ai pagani, forse anche nell’ambito della stessa Chiesa (cf At 15). Per Luca il discorso vale anche per i cristiani di tutti i tempi: anche per loro ciò che conta non è l’essere battezzati e neppure ricevere l’Eucaristia o essere costituiti in autorità nella Chiesa, ma adempiere gli impegni del proprio Battesimo e della propria specifica missione. Tanto poco il numero di coloro che si salveranno è ristretto, come potrebbe apparire a una prima lettura del nostro brano, che la pericope evangelica si chiude con una visione universalistica: « Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi » (vv. 29-30). È un altro colpo alla pretesa sicurezza dei Giudei: Dio chiamerà i salvati da tutte le nazioni e da tutti gli orizzonti; come del resto avevano predetto anche i Profeti. Si direbbe che Gesù ha il gusto di demolire tutti gli appoggi dell’uomo e le sue false sicurezze, perché finalmente riconosca che nessuno « si salva » da se stesso, ma che Dio solo salva, per grazia e per amore, guidando gli uomini per le sue « vie ». Proprio per questo il « regno » sarà molto più grande di quanto neppure ci sappiamo immaginare! C’è solo da averne gioia, non invidia, come forse ne doveva provare l’anonimo interpellante del Vangelo. Ci saranno delle sorprese, però, in quel regno: « Alcuni tra gli ultimi saranno primi e alcuni tra i primi saranno ultimi » (v. 30). Questo, ovviamente, vale anche per i cristiani.

« Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue » La prima lettura è precisamente uno di quei testi profetici, evocati dal precedente riferimento « universalistico » di Gesù. È la parte conclusiva del libro di Isaia che, in spiccato stile apocalittico, raccoglie il meglio di tutte le aspirazioni messianiche. L’avvento messianico segnerà la riunione dei popoli nel tempio dell’unico vero Dio: « Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle genti, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni. Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerte al Signore… Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti » (Is 66,18-21). Mi sembra che in questo brano siano affermate almeno due cose. La prima è che Dio ormai apre le porte della salvezza non solo a tutti, ma addirittura fa « suo » popolo tutti i popoli della terra, prendendo da loro perfino « sacerdoti e leviti » per il culto (v. 21). La seconda è che questi « convertiti » si faranno a loro volta « missionari » e annunciatori delle « meraviglie » del Signore presso altri popoli: in tal modo il cerchio della salvezza si dilata e arriva fino agli estremi confini della terra per la cooperazione di coloro stessi che Dio ha salvato. È la dimensione « missionaria » del popolo di Dio, convocato ormai da tutte le nazioni, che viene qui messa in evidenza. E non può non essere così!

La vocazione « missionaria » della Chiesa Proprio perché la Chiesa è « cattolica », cioè aperta e destinata a « tutti », è essenzialmente missionaria, ha cioè « l’attitudine a estendersi a tutta la terra, a tutti comprendere, a inserirsi in ogni popolo e rendere fratelli tutti gli uomini. E ciò non certo come risultato di una sopraffazione d’un popolo sull’altro, d’una classe sociale su altra classe sociale, d’un totalitarismo inesorabile e intollerabile, che può nascere dall’unificazione forzata e artificiale dell’umanità, non più libera della libertà dei figli di Dio. Ma può sorgere solo dalla diffusione del « regno » loro aperto da Cristo, oltre l’orizzonte di questo mondo, il quale pure può derivare dalla cattolicità della Chiesa feconde e inesauribili sorgenti di temporale civiltà ». Oggi noi sappiamo che la « missione » non è necessario andare a farla molto lontano, ma dobbiamo incominciare proprio da casa nostra. È evidente, infatti che viviamo in un’era « post-cristiana », come dicono molti studiosi, e bisogna ricominciare a « convertire » i battezzati. Di qui la priorità che deve riacquistare su tutto l’opera di « evangelizzazione »: è la « gloria » del Signore che anche noi, come dice Isaia, dobbiamo annunziare (v. 19) alla nostra generazione, che incomincia ormai a essere disillusa della « gloria » che i progressi tecnici e scientifici e il diffuso benessere le avevano suggerito di ricercare invece solo in se stessa. « La cultura tardo-medioevale aveva come centro motore la visione della Città di Dio; la società moderna si è costituita perché la gente era mossa dalla visione dello sviluppo della Città Terrena del Progresso. Nel nostro secolo, tuttavia, questa visione è andata deteriorandosi, fino a ridursi a quella Torre di Babele che ormai comincia a crollare e rischia di travolgere tutti nella sua rovina ». Solo una comunità di fede e di amore come è la Chiesa, che si pone a servizio di tutti per tutti « salvare », e non soltanto alcuni, come pensava l’anonimo interrogante del Vangelo, può costituire l’alternativa valida a questa nuova « torre di Babele », che certamente Isaia ha tenuto presente nel descriverci il quadro messianico di universalità e di fraternità degli ultimi tempi (cf Gn 10 e Is 66,19), in contrasto con lo spirito di divisione che Babele ha sempre rappresentato

Settimio CIPRIANI  (+)

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 19 août, 2016 |Pas de commentaires »

Church of Dormition of Theotokos, Mount Zion

Church of Dormition of Theotokos, Mount Zion dans immagini di chiese Church-of-the-Dormition
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Publié dans:immagini di chiese |on 13 août, 2016 |Pas de commentaires »

INNI CANTATI AL GETSEMANI NELLA COMMEMORAZIONE DELLA SEPOLTURA DELLA SANTISSIMA THEOTOCOS

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INNI CANTATI AL GETSEMANI NELLA COMMEMORAZIONE DELLA SEPOLTURA DELLA SANTISSIMA THEOTOCOS

L O D I
DELLA NOSTRA SANTISSIMA REGINA (SIGNORA)
MADRE DI DIO E SEMPRE VERGINE MARIA

Tono 1° largo
Oh, tu Pura, fosti deposta nel sepolcro, tu che sulla terra, incinta in modo ineffabile hai contenuto Dio nel tuo seno.
Maria, come puoi morire, come puoi abitare un sepolcro, tu che hai generato il datore della vita, colui che ha risuscitato i morti dalla corruzione?
Dio Verbo che stabilì la terra nelle sue dimensioni, o Pura, fu compreso nel tuo seno; come puoi stare in un piccolissimo sepolcro?
Colei che ha generato il più bello fra tutti gli uomini, senza timore si sottomette alle leggi della natura.
Per tuo mezzo l’Ade è stato spogliato, o Venerabile, e noi siamo stati rivestiti della gloria di Dio; come dunque ti sottometti alle leggi della natura?
O Venerabile, il pungiglione della morte è stato da te spezzato, e noi siamo stati liberati dalla corruzione della morte; come dunque sei morta e sei annoverata tra i morti?
Tu, Maria, fosti il campo del Dio immenso e suo tempio santo; ma ora il campo del Getsemani ti ricopre.
O Sposa di Dio, sei disceso sotto terra tu che sulla terra hai portato in seno Cristo bambino, per salvare gli uomini dalla morte.
Si meraviglia e la natura e la moltitudine degli esseri intelligenti, o Verginemadre, per quel mistero della tua gloriosa e ineffabile sepoltura.
O miracoli straordinari, o cose nuove! Colei che concepì il datore del mio respiro, giace senza respiro ed, morta, è sepolta.
La moltitudine degli Apostoli per volontà divina è trasportata attraverso i cieli a te, per seppellire il tuo venerabile corpo.
La moltitudine degli eserciti celesti si unisce agli Apostoli e ai santi per seppellire te, Immacolata Madre di Dio.
Le Potestà, i Troni, i Cherubini, i Serafini, le Dominazioni, i Principati con le Potestà devotamente cantano inni alla tua dormizione.
Giaci morta secondo la legge umana tu che, Madrevergine Pura con il tuo parto hai vinto i limiti della natura.
Gli eserciti celesti come ti videro giacere morta si stupirono, o Immacolata, e ti coprirono con le loro ali.
Gli Angeli con inni celesti cantavano, nei tre giorni della sepoltura, o Venerabile, e magnificavano la tua gloria.
Il santo e venerabile Getsemani divenne come un secondo cielo, quando ricevette le tue sacre spoglie, o Pura.
Dove riposa la spoglia della Madre di Dio, lá si riuniscono devotamente le moltitudini delle Potestà celesti.
Il Figlio di Dio rese il tuo seno più ampio dei cieli e il tuo utero vero trono divino.
Coloro che furono ammaestrati dal Verbo divino erano presi da stupore, o Pura, vedendoti morta, senza voce, tu che fosti Madre la vita.
Il sepolcro copre le tue spoglie, o Pura, mentre tuo Figlio raggiante abbraccia teneramente la tu anima divina.
Anche se fosti racchiusa in un piccolissimo sepolcro, sei stata veramente riconosciuta da tutta la creazione Regina del cielo e della terra, o Maria.
Anche se ti vediamo corruttibile nel sepolcro, sappiamo che sei sposa dell’Altissimo e vera Madre di Gesú Verbo di Dio.
Fiore incorrotto e Madre di Dio ti riconosciamo e predichiamo, o Illibata, anche se ti vediamo mortale nel sepolcro.
O Semprevergine, i fedeli ti riconoscono veramente come chiave del Regno di Dio, anche se il sepolcro ti ricopre morta.
Fosti generata per noi porta della salvezza e capo della rinascita spirituale, anche se ti sei sottomessa alla corruzione della natura.
Ora il sepolcro accoglie te, o Vergine, vaso che prima aveva contenuto la manna celeste causa della nostra vita.
La verga che ha fatto fiorire Cristo, fiore profumato, ora è sotterrato nel sepolcro, perchè generi il frutto della salvezza.
Vicino alla valle del pianto fu posta la tua spoglia, o Immacolata, simbolo della tua preghiera per coloro che piangono.
Dove avverrà il giudizio dei vivi e dei morti fu posta la tua spoglia, o Immacolata, perché tu muova a pietà il Giudice.
Veramente tu sola sei che risplendi come tipo della risurrezione dei mortali e tu sola sei propiziazione per i colpevoli.
Tu, o Pura, che sei trono dell’Altissimo salisti dalla terra al cielo, assunta alla vita eterna.
Quando lo stuolo degli Apostoli si trovo presente alla tua sepoltura si lamentavano piangenti e gementi per la tua perdita.
Tu che prima con il tuo parto hai dato la morte al nemico, sei salita alle tende immortali dopo esser morta secondo la legge naturale degli uomini.
O Pura, gioirono i cori degli Spiriti celesti quando, trasportata dalla terra, ti ricevettero nelle tende celesti.
Come una volta hai generato in modo inesprimibile e inintelligibile, così ora, o Immacolata, in modo meraviglioso salisti dalla terra al cielo.
Ora ti sei presentata a Dio circondata e ornata di splendori come Regina e Madre di Dio.
O Angelo di Dio tre giorni prima fu mandato da te, o Immacolata, per annunzi arti la tua assunzione.
L’Arcangelo mandato dal cielo ti porta un ramo di palma simbolo della tua assunzione.
Di che infinita gioia fosti ripiena, o Pura, quando l’Angelo Gabriele ti annunziò la tua assunzione al cielo.
Gli alberi sul monte piegano i rami, o Immacolata, e ti rendono omaggio attribuendoti onori di Regina.
Moltitudine di Spiriti insieme con il tuo Signore, o Venerabile, dal cielo sono inviati devotamente in Sion presso di te.
L’Arcangelo troncò orribilmente le mani di colui che si azzardava toccare la veneranda Arca vivente di Dio.
Con lacrime e forti gemiti tutte le tue amiche si lamentano accanto a te, non potendo sopportare che tu fosti portata via.
Come quelle allora, così ora noi ti supplichiamo caldamente, o Regina che fosti assunta, di non lasciare orfani i tuoi servi.
China il capo dal cielo, o Pura, e manda infinita misericordia a noi che sulla terra onoriamo la tua dormizione.
O Fonte di grazie e sorgente di miracoli, tu che hai misericordia infinita non smettere di aver pietà di noi.
Le predizioni di tutti i profeti si adempiono ora in te, Donna Illibata, che fosti assunta alla vita eterna.
Come ha cantato Davide tuo progenitore, o Donna da tutti celebrata, ora ti sei presentata come vera Regina al trono di Dio.
Bisognava veramente che salissi alle abitazioni e alle tende celesti con tutto il tuo corpo, che fu talamo e tenda del Verbo di Dio.
O Immacolata, Tommaso per divina disposizione è assente dalle tue esequie, affinché noi conoscessimo la tua assunzione.
Volendo anche lui venerare devotamente le tue immacolate e sante spoglie ne trovò il sepolcro vuoto.
O fedeli affrettatevi tutti e corriamo anche noi con devozione alla sepoltura della Signora che è trasportata dalla terra al cielo.
Con canti funebri innalziamo anche noi devotamente inni al sepolcro della Purissima, insieme con gli uomini che ispirati da Dio le cantarono salmi.
La tavola divina che prima portava espiazione a buon prezzo (in abbondanza) ora è trasportata alle tende divine della delizie. La santa Scala che allora Giacobbe vide chiaramente, per la quale è disceso l’Altissimo, è trasportata dalla terra al cielo.
È innalzato il ponte che trasporta dalla morte alla vita totale coloro che prima sono morti per la trasgressione di Adamo.
Ora dunque danzano insieme i celesti con i terrestri; al canto degli uomini si uniscono gli angeli a causa della tua assunzione presso Dio.
Lampada divina dalla luce inesprimibile, tu che sei buona non smettere di far scendere dal cielo la luce sui tuoi servi che sono sulla terra.
O Pura innalzata in aria come nuvola leggera presso il Dio dei tuoi dono, aspergici sempre con leggera pioggia.
Ora che sei giunta al lido sereno della gioia inesprimibile, soccorri, o Sposa di Dio, noi che viviamo ancora nella tempesta sulla terra.
Tu che abiti le tende dell’Altissimo, o Pura, proteggi la tenda nella quale Dio è magnificato liberandola dalle tentazioni.
O Pura, consolida l’autorità dei Re ortodossi e l’ala dell’essere cito del tuo popolo devoto, tu che domini tutte le cose create.
Come i naviganti guardano al punto fermo della stella polare, cosi tutti fissiamo te, o Amabile.
Sei il vanto dei sacerdoti devoti, fermo sostegno della Chiesa, protettrice dei santi asceti.
Noi ortodossi ti proclamiamo sempre Madre di Dio e Vergine Pura e glorifichiamo la tua potenza, o Venerabile.
Il tuo sepolcro anche se ora si vede vuoto della tua spoglia, fa zampillare per noi fiumi di grazie e spande rimedi salutari.
Noi fedeli confidiamo fermamente in te, che ti abbiamo mediatrice presso il Signore, invincibile e potente protezione.
O Amabile, facci degni di divenire partecipi del Regno del tuo Figlio, intercedendo continuamente presso di Lui.
Se è vero che ogni giorno sconsideratamente diventiamo trasgressori dei suoi comandamenti, però mai lo rinneghiamo.
Buona come sei, tu Madre del Figlio buono e filantropo, facci buoni anche noi, o Vergine amante del buono.
Gloria…
O Logos, tutti cantiamo inni e devotamente glorifichiamo te Dio di tutti, con il Padre e il tuo santo Spirito.
Ora…
Ci felicitiamo con te, o Pura, Madre di Dio e onoriamo la tua santa dormizione e la tua assunzione dalla terra al cielo.
Oh! Pura, fosti deposta nel sepolcro tu che sulla terra fosti incinta in modo ineffabile e hai portato Dio nel tuo seno.
Breve colletta e acclamazione
Perché il tuo nome è benedetto ed è glorificato il Regno tuo, del Padre, del Figlio e del santo Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.

 

Luca 12,49

Luca 12,49 dans immagini sacre He-venido-a-prender-fuego-en-el-mundo
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Publié dans:immagini sacre |on 12 août, 2016 |Pas de commentaires »

14 AGOSTO 2016 | 20A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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14 AGOSTO 2016 | 20A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra »

Geremia, con le infinite sofferenze che hanno accompagnato la sua vita e l’indomito coraggio con cui si è opposto « come un muro di bronzo contro tutto il paese » (Ger 1,18), è diventato, prima nella tradizione biblico-esegetica e poi in quella liturgica, una « figura » profetica di Cristo, delle sue sofferenze, della sua forza di « segno di contraddizione ». Credo sia per questo che la Liturgia odierna ci fa leggere un brano altamente drammatico della vita del Profeta, « contraddetto » dalla sua gente. Poiché nel 586 i Babilonesi avevano momentaneamente sospeso l’assedio di Gerusalemme per fronteggiare il Faraone d’Egitto, Hofra, che nel frattempo era sceso in campo contro di loro (cf Ger 37,5), gli Ebrei si erano illusi che le cose avrebbero ormai preso una buona piega per loro. Geremia, però, stava là per ammonirli implacabilmente: « Non illudetevi pensando: Certo i Caldei si allontaneranno da noi, perché non se ne andranno. Anche se riuscireste a battere tutto l’esercito dei Caldei che combattono contro di voi, e ne rimanessero solo alcuni feriti, costoro sorgerebbero ciascuno dalla sua tenda e darebbero alle fiamme questa città » (Ger 37,9-10). In mezzo a una massa di illusi che come sempre, soprattutto in momenti di disperazione, cercano di dar corpo alle loro fantasie consolatorie e ai loro desideri di impossibili salvezze, il Profeta appariva come il guastafeste, il disfattista, il nemico del popolo. Di qui la ribellione e l’odio più accanito contro di lui: « Si metta a morte quest’uomo, perché scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male » (38,4). Perciò i capi dell’esercito ottengono dal debole re Sedecia di farlo gettare in una cisterna fangosa, dove il Profeta sarebbe ben presto morto di fame e di stenti, qualora l’intervento coraggioso di un consigliere straniero, l’etiope Ebed-Melech, non avesse convinto il re a ordinare di « far risalire » Geremia dalla cisterna della morte (v. 10). Come si vede, il « vero » profeta non trova facile accoglienza presso la gente, per il fatto semplicissimo che egli non ne blandisce le illusioni o gli andazzi o le false sicurezze; anzi, egli va controcorrente e con la sua parola nuova e ardita « giudica » uomini e situazioni, diventando così segno di contraddizione e di discordia. « Me infelice, madre mia, che mi hai partorito oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese! », dirà candidamente in un momento di abbandono e di sfiducia il nostro Profeta (Ger 15,10).

« C’è un battesimo che devo ricevere » Se questa è stata la sorte dei Profeti dell’A. Testamento, non poteva essere migliore quella del « Profeta dei Profeti », cioè di Cristo. L’odierno brano di Luca mette in evidenza questo fatto, con tre brevi pericopi (12,49-50.51-53.54-57) di per sé autonome e indipendenti tra di loro, come lo dimostra il fatto che Matteo le presenta in contesti diversi, mentre il terzo Evangelista sembra averle unificate sotto il segno della forza « discriminante » del gesto profetico più sconvolgente di Gesù di Nazaret, cioè della sua passione e morte di croce. A queste infatti alludono i due versetti iniziali: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere: e come sono angosciato, finché non sia compiuto! » (vv. 49-50). Le immagini del « fuoco » e del « battesimo » qui adoperate da Gesù, anche se prese isolatamente possono significare cose diverse, abbinate fra di loro designano certamente la sua Passione, presentata come un « fuoco » che divora, purifica e divampa, e come una immersione « battesimale » nelle acque profonde della sofferenza e della morte. Si pensi al passo parallelo di Marco, dove Gesù chiede e preannuncia ai figli di Zebedeo, che gli avevano chiesto un posto privilegiato nel suo regno, la loro partecipazione al suo martirio: « Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato? » (10,38-40). Nella rilettura che fa Luca di queste parole di Gesù, le due immagini dovrebbero alludere anche all’esperienza dello Spirito Santo che, il giorno di Pentecoste, scese sugli Apostoli « in forma di lingue di fuoco » e fu per loro come una forma di « battesimo » purificatore (At 2,3.14): difatti alla luce dello Spirito gli Apostoli penetrarono meglio il senso salvifico della morte di Cristo, e l’annunciarono come una grande vampata di amore al mondo intero. In conclusione, i due versetti che abbiamo sottolineato esprimono il desiderio intenso di Gesù di portare a compimento la salvezza, che passerà però per la croce, e di vederla estesa a tutti gli uomini come una grande « fiamma » alimentata dallo Spirito.

« Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? » Ma la morte di Cristo è carica di questo significato perché l’intera sua missione ha una forza « discriminante »: davanti a un amore così grande e a un insegnamento così sublime gli uomini non possono non decidersi: o per Cristo o contro di Cristo. È così che lui diventa punto di incontro o di scontro fra i membri della stessa famiglia. « Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre: padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera » (vv. 51-53). Sulla grotta di Betlemme, secondo il racconto di Luca, gli Angeli cantarono: « Pace in terra agli uomini che egli (Dio) ama » (2,14). Qui Gesù sembra smentire con le sue parole quelle degli Angeli. C’è contraddizione fra le due affermazioni, quasi che Gesù sia, più che « principe della pace » (cf Is 9,5), fautore della guerra? Niente di tutto questo, perché il pensiero di Gesù non si arresta a uno schema superficialmente « politico », ma va alla radice degli atteggiamenti spirituali che guidano le azioni degli uomini. Orbene, è proprio in base alle « scelte » che Gesù propone ai credenti che avviene la « divisione » in opposti schieramenti: chi accetta la sua Parola come misura ultima del bene e del male, della verità e della falsità, non può non trovarsi in contrasto con chi accetta altre misure di valore e di giudizio. Il che non significa intolleranza, guerra fredda, chiusura di dialogo con chi non accetta la proposta cristiana: se mai, maggiore attenzione e delicatezza! Rimane però vero che il cristiano si trova a essere, direi per necessaria vocazione, uno scomodo « contestatore » delle ideologie, delle prassi sociali e politiche correnti, delle pretese verità anche già consolidate, qualora queste non coincidano con il Vangelo. Quando il cristiano diventa anche lui un « allineato », allora è sale « scipito », che « a null’altro serve se non a essere gettato via e calpestato dagli uomini » (Mt 5,13)! Le parole di Gesù perciò sono un invito a costruire la « pace » interiore degli spiriti, che nasce solamente da un’adesione radicale di fede alla sua Parola e dalla coerenza vissuta con tale fede. Questo è tremendamente aspro e porta davvero la « guerra » all’interno del proprio cuore, là dove, soltanto, la guerra non è un delitto ma è addirittura un « dovere » impostoci da Cristo.

« Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? » Dire però che Cristo e la sua Parola sono « discriminanti » e perciò separano e giudicano gli uomini, significa anche dire che sono capaci di lasciarsi « discernere » come « valori » determinanti: altrimenti, non ci sarebbe nessuna colpa da parte di chi non li accetta! È quanto Gesù dice nella paraboletta che segue: « Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? » (vv. 54-57). Gesù accusa, dunque, quelli della sua « generazione » di aver fiuto nel saper leggere in certi fenomeni meteorologici le « previsioni » per il domani, ma di non averne altrettanto nel saper « giudicare questo tempo » (v. 56), cioè quello che si svolge sotto i loro occhi, il tempo del Messia che offre a tutti la salvezza. Possibile che non se ne accorgano, se certi fatti sono così clamorosi da attirare l’attenzione anche dei più distratti? « Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato in me! » (Lc 7,22-23). Se nonostante certi « segni » così clamorosi della presenza di Dio in Cristo, gli uomini non sanno « giudicare da se stessi ciò che è giusto » (v. 57), vale a dire non vogliono accettare né lui né il suo messaggio, vuol dire che sono falsi nel loro cuore, cercano dei pretesti per giustificare la loro fuga o la loro paura davanti alla verità. Di nuovo, Cristo è un Profeta scomodo, come e più di Geremia! Oggi c’è un abuso nella Chiesa circa i famosi « segni dei tempi », di cui ci parla il Concilio Vaticano II. Stranamente si è presa una frase del Vangelo per farne, da parte di alcuni, uno slogan superficiale di « irenismo » a tutti i costi, accettando per vero tutto ciò che lo sviluppo sociale ci offre: essa però nel suo tenore originale è una frase « polemica », che mette sotto accusa tutti coloro che non accettano fino in fondo Cristo come « segno di contraddizione » e di discriminazione fra gli uomini (cf Lc 2,34). Da questo punto di vista probabilmente tutti noi siamo mancanti, perché non è facile per nessuno « saper giudicare questo tempo » (v. 56). Non è questione di essere profeti o meno; tutti i cristiani devono essere profeti! È questione piuttosto di essere « fedeli » a Cristo fino a lasciarci battezzare anche noi nel « battesimo » della sua Passione e a lasciarci bruciare dal « fuoco » che egli ha acceso proprio dall’alto della Croce. A questo « segno » luminoso di fedeltà e di amore, che però costa, ci invita anche il meraviglioso brano della lettera agli Ebrei quando, dopo averci proposto l’esempio di tanti « testimoni » che hanno reso gloria a Dio e soprattutto quello di Cristo, che « in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla Croce, disprezzando l’ignominia », così conclude: « Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato » (Eb 12,2-4).

Settimio CIPRIANI  (+)

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 12 août, 2016 |Pas de commentaires »
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