Archive pour juillet, 2016

PAPA BENEDETTO – UDIENZA GENERALE – CANTICO CFR EF 1,3-10 DIO SALVATORE

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UDIENZA GENERALE – CANTICO CFR EF 1,3-10 DIO SALVATORE

Mercoledì, 6 luglio 2005

Cantico cfr Ef 1,3-10 Dio salvatore Vespri – Lunedì 3a settimana

1. Questo inno della Lettera agli Efesini (cfr Ef 1,3-14), che ritorna nella Liturgia dei Vespri di ognuna delle quattro settimane, è una preghiera di benedizione rivolta a Dio Padre. Il suo svolgimento è dedicato a delineare le varie tappe del piano di salvezza che si compie attraverso l’opera di Cristo. Al centro della benedizione risuona il vocabolo greco mysterion, un termine associato di solito ai verbi di rivelazione («rivelare», «conoscere», «manifestare»). È questo, infatti, il grande progetto segreto che il Padre aveva custodito in se stesso fin dall’eternità (cfr v. 9) e che ha deciso di attuare e rivelare «nella pienezza dei tempi» (cfr v. 10) in Gesù Cristo, suo Figlio. Le tappe di questo piano sono scandite nell’inno dalle azioni salvifiche di Dio per Cristo nello Spirito. Il Padre innanzitutto ci sceglie perché camminiamo santi e immacolati nell’amore (cfr v. 4), poi ci predestina ad essere suoi figli (cfr vv. 5-6), inoltre ci redime e ci rimette i peccati (cfr vv. 7-8), ci svela pienamente il mistero della salvezza in Cristo (cfr vv. 9-10), infine ci dona l’eredità eterna (cfr vv. 11-12) offrendocene la caparra nel dono dello Spirito Santo in vista della risurrezione finale (cfr vv. 13-14). 2. Molteplici sono, quindi, gli eventi salvifici che si succedono nello snodarsi dell’inno. Essi coinvolgono le tre Persone della Santissima Trinità: si parte dal Padre, che è l’iniziatore e l’artefice supremo del piano di salvezza; si fissa lo sguardo sul Figlio che realizza il disegno all’interno della storia; si giunge allo Spirito Santo che imprime il suo «suggello» a tutta l’opera della salvezza. Noi ora ci fermiamo brevemente sulle prime due tappe, quelle della santità e della filiazione (cfr vv. 4-6). Il primo gesto divino, rivelato e attuato in Cristo, è l’elezione dei credenti, frutto di un’iniziativa libera e gratuita di Dio. In principio, quindi, «prima della creazione del mondo» (v. 4), nell’eternità di Dio, la grazia divina è disponibile ad entrare in azione. Questa chiamata ha come contenuto la «santità» che è partecipazione alla purezza trascendente dell’Essere divino e alla sua intima essenza di «carità»: «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). L’agape diventa così la nostra realtà morale profonda. Siamo, quindi, trasferiti nell’orizzonte sacro e vitale di Dio stesso. 3. In questa linea si procede verso l’altra tappa, anch’essa contemplata nel piano divino fin dall’eternità: la nostra «predestinazione» a figli di Dio. Paolo esalta altrove (cfr Gal 4,5; Rm 8,15.23) questa sublime condizione di figli che implica la fraternità con Cristo, il Figlio per eccellenza, «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29) e l’intimità nei confronti del Padre celeste che può ormai essere invocato Abbá, «padre caro», in un rapporto di spontaneità e di amore. Siamo, quindi, in presenza di un dono immenso reso possibile dal «beneplacito della volontà» divina e dalla «grazia», luminosa espressione dell’amore che salva.4. Ci affidiamo ora, in conclusione, al grande Vescovo di Milano, sant’Ambrogio, il quale in una delle lettere commenta le parole dell’apostolo Paolo agli Efesini, soffermandosi proprio sul ricco contenuto del nostro inno cristologico. Egli sottolinea innanzitutto la grazia sovrabbondante con la quale Dio ci ha resi suoi figli adottivi in Cristo Gesù. «Non bisogna perciò dubitare che le membra siano unite al loro capo, soprattutto perché fin dal principio siamo stati predestinati all’adozione di figli di Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (Lettera XVI ad Ireneo, 4: SAEMO, XIX, Milano-Roma 1988, p. 161). Il santo Vescovo di Milano prosegue la propria riflessione osservando: «Chi è ricco, se non il solo Dio, creatore di tutte le cose?». E conclude: «Ma è molto più ricco di misericordia, poiché ha redento tutti e – quale autore della natura – ha trasformato noi, che secondo la natura della carne eravamo figli dell’ira e soggetti al castigo, perché fossimo figli della pace e della carità» (n. 7: ibidem, p. 163).

Lk 10:25-37 And Who is My Neighbor?

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BENEDETTO XVI – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

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BENEDETTO XVI – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 4 gennaio 2006

Cantico cfr Col 1,3.12-20 Cristo fu generato prima di ogni creatura, è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti Vespri – Mercoledì 4a settimana

1. In questa prima Udienza generale del nuovo anno ci soffermiamo a meditare il celebre inno cristologico contenuto nella Lettera ai Colossesi, che è quasi il solenne portale d’ingresso di questo ricco scritto paolino ed è anche un portale di ingresso in questo anno. L’Inno proposto alla nostra riflessione è incorniciato da un’ampia formula di ringraziamento (cfr vv. 3.12-14). Essa ci aiuta a creare l’atmosfera spirituale per vivere bene questi primi giorni del 2006, come pure il nostro cammino lungo l’intero arco del nuovo anno (cfr vv. 15-20). La lode dell’Apostolo e così la nostra sale a « Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (v. 3), sorgente di quella salvezza che è descritta in negativo come « liberazione dal potere delle tenebre » (v. 13), cioè come « redenzione e remissione dei peccati » (v. 14). Essa è poi riproposta in positivo come « partecipazione alla sorte dei santi nella luce » (v. 12) e come ingresso « nel regno del Figlio diletto » (v. 13). 2. A questo punto si schiude il grande e denso Inno, che ha al centro il Cristo, del quale è esaltato il primato e l’opera sia nella creazione sia nella storia della redenzione (cfr vv. 15-20). Due sono, quindi, i movimenti del canto. Nel primo è presentato Cristo come il primogenito di tutta la creazione, Cristo, « generato prima di ogni creatura » (v. 15). Egli è, infatti, l’ »immagine del Dio invisibile », e questa espressione ha tutta la carica che l’ »icona » ha nella cultura d’Oriente: si sottolinea non tanto la somiglianza, ma l’intimità profonda col soggetto rappresentato. Cristo ripropone in mezzo a noi in modo visibile il « Dio invisibile ». In Lui vediamo il volto di Dio, attraverso la comune natura che li unisce. Cristo per questa sua altissima dignità precede « tutte le cose » non solo a causa della sua eternità, ma anche e soprattutto con la sua opera creatrice e provvidente: « per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili… e tutte sussistono in lui » (vv. 16-17). Anzi, esse sono state create anche « in vista di lui » (v. 16). E così san Paolo ci indica una verità molto importante: la storia ha una meta, ha una direzione. La storia va verso l’umanità unita in Cristo, va così verso l’uomo perfetto, verso l’umanesimo perfetto. Con altre parole san Paolo ci dice: sì, c’è progresso nella storia. C’è – se vogliamo – una evoluzione della storia. Progresso è tutto ciò che ci avvicina a Cristo e ci avvicina così all’umanità unita, al vero umanesimo. E così, dentro queste indicazioni, si nasconde anche un imperativo per noi: lavorare per il progresso, cosa che vogliamo tutti. Possiamo farlo lavorando per l’avvicinamento degli uomini a Cristo; possiamo farlo conformandoci personalmente a Cristo, andando così nella linea del vero progresso. 3. Il secondo movimento dell’Inno (cfr Col 1, 18-20) è dominato dalla figura di Cristo salvatore all’interno della storia della salvezza. La sua opera si rivela innanzitutto nell’essere « capo del corpo, cioè della Chiesa » (v. 18): è questo l’orizzonte salvifico privilegiato nel quale si manifestano in pienezza la liberazione e la redenzione, la comunione vitale che intercorre tra il capo e le membra del corpo, ossia tra Cristo e i cristiani. Lo sguardo dell’Apostolo si protende alla meta ultima verso cui converge la storia: Cristo è « il primogenito di coloro che risuscitano dai morti » (v. 18), è colui che dischiude le porte alla vita eterna, strappandoci dal limite della morte e del male. Ecco, infatti, quel pleroma, quella « pienezza » di vita e di grazia che è in Cristo stesso e che è a noi donata e comunicata (cfr v. 19). Con questa presenza vitale, che ci rende partecipi della divinità, siamo trasformati interiormente, riconciliati, rappacificati: è, questa, un’armonia di tutto l’essere redento nel quale ormai Dio sarà « tutto in tutti » (1Cor 15, 28) e vivere da cristiano vuol dire lasciarsi in questo modo interiormente trasformare verso la forma di Cristo. Si realizza la riconciliazione, la rappacificazione. 4. A questo mistero grandioso della redenzione dedichiamo ora uno sguardo contemplativo e lo facciamo con le parole di san Proclo di Costantinopoli, morto nel 446. Egli nella sua Prima omelia sulla Madre di Dio Maria ripropone il mistero della Redenzione come conseguenza dell’Incarnazione. Dio, infatti, ricorda il Vescovo, si è fatto uomo per salvarci e così strapparci dal potere delle tenebre e ricondurci nel regno del Figlio diletto, come ricorda questo inno della Lettera ai Colossesi. « Chi ci ha redento non è un puro uomo – osserva Proclo -: tutto il genere umano infatti era asservito al peccato; ma neppure era un Dio privo di natura umana: aveva infatti un corpo. Che, se non si fosse rivestito di me, non m’avrebbe salvato. Apparso nel seno della Vergine, Egli si vestì del condannato. Lì avvenne il tremendo commercio, diede lo spirito, prese la carne » (8: Testi mariani del primo millennio, I, Roma 1988, p. 561). Siamo, quindi, davanti all’opera di Dio, che ha compiuto la Redenzione proprio perché anche uomo. Egli è contemporaneamente il Figlio di Dio, salvatore ma è anche nostro fratello ed è con questa prossimità che Egli effonde in noi il dono divino.

È realmente il Dio con noi. Amen!

10 LUGLIO 2016 | 15A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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10 LUGLIO 2016 | 15A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

 » Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico »

Non è facile scorgere, almeno a prima vista, l’armonia delle diverse letture proposteci per la Liturgia della presente Domenica. Se il punto culminante è rappresentato dalla parabola del buon Samaritano, che si china pieno di misericordia sull’uomo lasciato mezzo morto dai briganti lungo la strada, e se essa vuol essere soltanto una grande lezione di amore al prossimo, allora ci suona piuttosto strana la prima lettura, ripresa dal Deuteronomio, in cui si tende a evidenziare la lontananza e quasi la « inaccessibilità » della Parola di Dio, espressa in concreto nella Legge mosaica: « Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire?… Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica » (Dt 30,11-14). Si vuol forse dire che il precetto della carità è molto arduo, però bisogna pur sempre « metterlo in pratica » come ha fatto il Samaritano a differenza del sacerdote e del levita? In questo caso un precetto « troppo lontano » dalla nostra esperienza e capacità ci diventerebbe « vicino » perché Dio ce lo propone e ci dà anche la forza per attuarlo. È un punto di accordo possibile, che permette di gettare un ponte fra le due letture. Però, a mio parere, non è a questo livello che si può intravedere una certa armonizzazione dei due brani: mi sembrerebbe troppo artificioso tale collegamento. Se invece di vedere nella Parola semplicemente il precetto, oppure la Legge donataci da Dio, tentiamo di intravederci Cristo « Parola », oppure « Logos » (= Verbo), come dice Giovanni (1,1-18), allora il discorso diventerà molto più facile: davvero in Cristo Dio ci si è fatto « vicino » (cf Rm 10,5-10), e in lui e con lui è possibile « amare » eroicamente il nostro prossimo. Perché, in realtà lui è il buon Samaritano della parabola che con il suo esempio ci dice quello che dobbiamo fare. In tal modo ci riesce anche più comprensibile la seconda lettura, che contiene il celebre inno « cristologico » di S. Paolo (Col 1,15-20) e in cui Gesù viene presentato come « immagine del Dio invisibile » (v. 15), cioè l’espressione perfetta del volto e dei sentimenti del Padre, e perciò anche del suo amore infinito. Dal cuore stesso di Dio zampilla la fonte dell’amore e arriva fino a noi nella persona, nei gesti, e negli insegnamenti di Gesù, buon Samaritano. Tenendo presente questo sfondo di pensieri, vorremmo tentare di commentare il testo di Luca.

« E chi è il mio prossimo? »

Soltanto il terzo Evangelista ci riferisce la parabola del buon Samaritano, che egli aggiunge come illustrazione a una richiesta di un dottore della legge circa il « primo » comandamento (Lc 10,25-37). Mentre in Matteo (22,35-40) e in Marco (12,28-34) è Gesù che, rispondendo, mette insieme i due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, qui è lo stesso interpellante, provocato da Cristo: « Gesù gli disse: « Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? ». Costui rispose: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso »" (vv. 26-27). In realtà, nella migliore tradizione giudaica più di una volta questi due comandamenti, già presenti nella Legge, vengono uniti: perciò non è del tutto strano che un maestro della Legge potesse affermare questo. La « novità » introdotta da Gesù è tutta sul significato e sull’estensione da dare al termine « prossimo », come risulta appunto dalla parabola del buon Samaritano, che egli racconta rispondendo all’interrogativo del dottore della Legge il quale, « volendo giustificarsi », domanda: « E chi è il mio prossimo? » (v. 29). Nell’A. Testamento, « prossimo » era il connazionale, membro della comunità israelitica; al tempo di Gesù, poi, sembra che il termine avesse un significato anche più restrittivo, essendo passato a significare colui che faceva parte del medesimo gruppo religioso o politico (Farisei, Esseni, Zeloti, Erodiani, ecc.). Come si vede, c’era una tendenza a restringere sempre di più il concetto di « prossimo », rendendo in tal modo estremamente facile l’obbligo dell’amore verso gli altri. Rompendo questo cerchio angusto ed egoistico, Gesù allarga all’infinito il comandamento dell’amore: ogni uomo che si trovi in bisogno, sia esso amico o nemico è « prossimo » a tutti gli altri uomini che, in qualsiasi maniera, vengono in contatto con lui. La parabola è veramente un capolavoro di creatività immaginativa, ed è piena di sorprese e di passaggi arditi e polemici: perciò più espressiva della pur bellissima parabola del figliol prodigo. « Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto » (Lc 10,30). Nell’ardita creazione « fantastica », c’è da sottolineare un tratto molto realistico: davvero era assai pericolosa la strada che da Gerusalemme strapiombava verso Gerico, con un dislivello di oltre 1000 metri, attraversando una zona desertica piena di anfratti e di scoscendimenti, dove molto facilmente predoni e assassini potevano nascondersi. Dato il termine adoperato da Luca (lestái = briganti), che in Giuseppe Flavio viene usato per indicare gli Zeloti, qualcuno ha pensato che qui si parli proprio di loro: un improvviso colpo di mano per rifornire l’organizzazione politico-banditesca! La cosa è possibile: in tal caso il realismo descrittivo di Gesù sarebbe anche più mordente. Ma a noi interessa il seguito del racconto: « Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui… » (vv. 31-35). Tutta l’attenzione di Gesù è volta alla delineazione dei personaggi: due addetti al culto che si svolgeva nel tempio di Gerusalemme e che molto probabilmente ritornavano a Gerico, tipica città sacerdotale, dopo aver espletato il loro settimanale servizio liturgico; un forestiero, e per di più eretico, appartenente alla razza dei Samaritani, non ben visti dai Giudei (cf Gv 4,9).

« Invece un Samaritano, che era in viaggio, lo vide e n’ebbe compassione »

Stranamente, il comportamento di questi personaggi è tutto il contrario di quello che più ovviamente ci saremmo aspettati. Il sacerdote e il levita, proprio per il servizio religioso che svolgevano, dovevano essere i più indicati a compiere un gesto di carità verso il prossimo: Dio e l’uomo si richiamano a vicenda! E invece lo « videro » e « passarono oltre ». Il Samaritano, proprio perché forestiero e non ben visto in Giudea, aveva tutto l’interesse a non frammischiarsi in un oscuro fatto banditesco, che poteva anche coinvolgerlo in possibili sospetti e recriminazioni. Invece sarà proprio lui a chinarsi sul ferito, ad apprestargli i primi soccorsi di urgenza e a mettersi completamente a sua disposizione: tutto il tempo e il denaro che ha non sono più suoi, ma dell’altro. Si impegna addirittura anche per quello che sarà necessario per il futuro: « Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno » (v. 35), dice all’albergatore. È uno che « si gioca » veramente tutto in favore dell’uomo! Questo « gioco delle parti » non è certo casuale: c’è una evidente intenzione « polemica » di Gesù nell’attribuire ai suoi personaggi atteggiamenti così contrastanti. La prima polemica è contro il « formalismo » liturgico, contro il culto sterile che non aiuta a scoprire Dio nei fratelli: quasi che bastasse credere in Dio per salvarsi, e non credere anche nell’uomo, creato « a immagine di Dio » e redento da lui! La colpa del sacerdote e del levita è stata quella di non vedere lo stretto e indispensabile rapporto unitario fra i due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo. La seconda polemica è contro i pregiudizi di razza e le discriminazioni sociali o religiose, quasi che il bene possa trovarsi solo da una parte e debba farsi solo a certe persone: il Samaritano, forestiero ed eretico per i Giudei, in realtà compie dei gesti di benevolenza che delle persone « devote » non hanno compiuto; e li compie verso uno che gli era socialmente estraneo, addirittura nemico. Il che sta a dire che non solo il bene non ha frontiere, ma che deve essere « inventato » con capacità creativa in tutte le più strane situazioni in cui ognuno di noi può venire a trovarsi: come ha fatto il Samaritano della parabola, che Gesù propone come esempio del nostro comportamento verso gli altri. Su questo tono eminentemente pratico, infatti, si chiude la parabola: « Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti? ». Quegli rispose: « Chi ha avuto compassione di lui ». Gesù gli disse: « Va’ e anche tu fa’ lo stesso » (vv. 36-37). Si sarà notato che dalla domanda iniziale del dottore della Legge: « Chi è il mio prossimo? » (v. 29) Gesù passa a una contro-domanda: « Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? » (v. 36). Non basta scoprire chi è il nostro prossimo: la parabola ci dice chiaramente che è il ferito, lasciato mezzo morto lungo la strada. L’importante è « dimostrarsi prossimo » verso il nostro prossimo: altrimenti egli ci rimarrà sempre molto « lontano », anche se di fatto si trova a un passo da noi, addirittura sotto i nostri stessi occhi, senza però che noi sappiamo vederlo.

Il « vero » Samaritano è Cristo

Abbiamo detto dello « strano » atteggiamento dei protagonisti della parabola. Più strano di tutti, però, è l’atteggiamento del Samaritano. Veramente egli sembra essere un personaggio al di fuori della realtà, così come sembra essere al di fuori della realtà il padre della parabola del figliol prodigo: una carità e una bontà così grande fra gli uomini non si trovano! E perché Gesù allora l’ha pensata, questa parabola? Si è che parlando del Samaritano, egli pensava alla sua propria storia, così come nella parabola del figlio smarrito. C’è stato Qualcuno che ha saputo amare come il Samaritano: Cristo. Egli si è davvero « giocato » tutto per l’uomo: pur discendendo dal « tempio » alto di Dio, non ha ritenuto che fosse indegno di lui occuparsi del povero infelice che giaceva esangue e moribondo lungo la strada. « Il Samaritano viaggiatore che era Cristo – poiché viaggiava veramente – vide colui che giaceva per terra. Non passò oltre, poiché lo scopo che aveva dato al suo viaggio era di « visitare » noi, per i quali è disceso sulla terra, sulla quale ha dimorato, poiché non è solamente apparso, ma ha conversato con gli uomini realmente… Ha versato del vino sulle piaghe, il vino della Parola; e siccome la gravità delle ferite non sopportava la sua forza, vi mescolò dell’olio, sicché si attirò per la sua dolcezza e filantropia i rimproveri dei farisei… Poi, condusse l’uomo all’albergo. Egli dà questo nome di albergo alla Chiesa, diventata la dimora e il ricettacolo di tutti… ». In questa prospettiva « cristologica » la parabola del buon Samaritano acquista tutta la sua forza dirompente. La parola finale: « Va’ e anche tu fa’ lo stesso » (v. 37) non è più la proposta di qualcosa di utopico o di immaginario, come potremmo essere tentati di pensare. Essa riassume una storia e un’esperienza di amore infinito, tuttora in atto: la storia di Cristo, che per tutti noi si è fatto Samaritano misericordioso e perdonante.

Settimio CIPRIANI  (+) Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflesisoni biblico-liturgiche, Elledici, Torino

 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 7 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

A fig tree in Kerala, India like the fig tree mentioned in the Bible

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Publié dans:immagini |on 6 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

« NELLA SPERANZA SIAMO STATI SALVATI » – (SPE SALVI FACTI SUMUS: RM 8,24)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2008/Riv0308/Riv0308_04.htm

Conferenza di S.E. Mons. Domenico Cancian, vescovo di Città di Castello 8 febbraio 2008

« NELLA SPERANZA SIAMO STATI SALVATI » – (SPE SALVI FACTI SUMUS: RM 8,24)  

Il tema e la sua attualità

La seconda enciclica di Papa Benedetto XVI, pubblicata il 30 novembre 2007, si apre con una citazione della Lettera di S. Paolo ai Romani. L’Apostolo afferma che non solo il cristiano, ma ogni uomo, anzi, « tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto », aspettando con perseveranza la redenzione e la salvezza. « Poiché nella speranza noi siamo stati salvati » (Rm 8, 19-25).  Mons. Domenico Cancian fam e P. Aurelio Pérez fam, Superiore GeneraleÈ evocata qui l’immagine di una dona che attende con gioiosa sofferenza di dare alla luce un figlio. Non possiamo non vederci la Madonna della Speranza, Madre di Gesù e nostra, la Chiesa che accoglie e accompagna quelli che seguono Gesù ed anche la nostra venerabile Madre Speranza che molto spesso si rivolgeva alla persona che aveva di fronte con l’espressione: »Figlio/a mio/a ». Voleva dire che aveva piacere di incontrarla, che l’attendeva, che l’avrebbe senz’altro aiutata e incoraggiata. Lei ha testimoniato la Speranza fondata nell’indubitabile certezza dell’Amore Misericordioso di Dio. »Sicuri dell’Amore infinito di Dio, possediamo nella misericordia la speranza di salvezza per noi e per ogni uomo … perché anche «l’uomo più povero, il più miserabile e perfino il più abbandonato è amato con tenerezza immensa da Gesù che è per lui un Padre e una tenera Madre» » (Cost. art 14). Cosa vuol dire « speranza » nella non sempre facile situazione personale, famigliare, sociale? E a quale tipo di speranza possiamo affidarci in modo sicuro?

Presentazione sintetica dell’Enciclica Introduzione La speranza vera ci consente di affrontare e superare il faticoso presente (cf. n. 1). « Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente » (n. 2). Parte prima Cos’è la speranza cristiana? (cf nn. 2-31). È evidente che il Papa propone la speranza rivelata dalla Parola di Dio e quindi come « virtù teologale », non come sentimento, atteggiamento, « speranza corta », ideologia… San Paolo nella lettera agli Efesini ricorda che, prima dell’incontro con Cristo, essi erano « senza speranza e senza Dio », senza speranza perché senza Dio. « Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza » (n. 3). È questo il caso della schiava africana santa Giuseppina Bakhita, che, dopo essere stata venduta e maltrattata, si aprì alla speranza di una vita nuova quando si sentì accolta e amata da Dio. Il cristianesimo non si concretizza in un messaggio sociale rivoluzionario, come quello di Spartaco. Gesù ha portato una speranza che « rivoluziona » l’uomo dal di dentro, al punto da renderlo realmente figlio di Dio e fratello di tutti. « La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire… essa ci dà già ora qualcosa della realtà attesa e questa realtà presente costituisce per noi una « prova » delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro… Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente, [il quale] viene toccato dalla realtà futura » (n. 7). Una speranza che, d’altra parte, matura sopportando pazientemente le prove della vita. Questo tipo di speranza, quindi, non è semplicemente « informativa » (non ci offre solo una nozione sul futuro), ma è « performativa », ossia è « una comunicazione che produce fatti e cambia la vita… Chi ha speranza vive diversamente » (n. 2). La fede ci offre la vita eterna. Per capire meglio, il Papa rileva che « vita » non deve essere intesa come la realtà che conosciamo e che spesso è più fatica che appagamento, cosicché se per un verso la desideriamo, per un altro non la vogliamo; « eterna » non significa un interminabile susseguirsi di giorni. La « vita eterna » è il compimento di tutto ciò che noi desideriamo di veramente bello e buono nella vita terrena, e che non possiamo mai raggiungere; l’ »eternità… è il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore… sopraffatti dalla gioia » (n. 12). Gesù promette ai suoi una gioia piena e sicura che nessuno può togliere.  La fede-speranza cristiana dev’essere compresa non in forma individualistica, ma in forma comunitaria, perché alla vita eterna con Dio sono chiamati tutti. Non si tratta di « fuga » dal mondo e dai suoi problemi, ma di ulteriore impegno per la costruzione di un mondo più umano e più giusto, prefigurazione e anticipazione del Regno di Dio. La fede-speranza si è profondamente trasformata nel tempo moderno. Con le nuove conquiste dell’uomo è nata un’epoca storica nuova, segnata, come afferma F. Bacone dal dominio della scienza e della tecnica sulle leggi naturali. La fede, con ciò, non viene semplicemente negata: « essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private e ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo… La speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama « fede nel progresso » (n. 17). Ma il progresso resta fondamentalmente ambiguo: è « il progresso dalla fionda alla megabomba » (Th. Adorno) che « offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male… Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore… allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo » (n. 22). Anche la fede nella ragione e nella libertà, come nell’epoca dell’Illuminismo, resta ambigua. La ragione può essere a servizio della verità e farci superare l’irrazionalità, ma può anche chiudersi nei ragionamenti soggettivi ed egoistici, può mettersi al servizio del potere. Questo significa che senza il riferimento a Dio l’uomo può perdere la Speranza o trovarsi con delle speranze « corte ». Come dire che l’uomo limitato e difettoso non può assicurare la Speranza certa. Questa può essere garantita da Colui che tiene in mano il mondo e la storia, come Creatore e Salvatore.

Parte seconda: « Luoghi » di apprendimento e di esercizio della speranza (cf. nn. 32-48). La preghiera come scuola della speranza. Con il Signore possiamo essere sempre in comunione per purificare, allargare, accogliere il suo Amore nel nostro cuore. « Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini. Nella preghiera l’uomo deve imparare… che non può chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento, la piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze. Deve liberarsi dalle menzogne segrete con cui inganna se stesso… Il non riconoscimento della colpa, l’illusione di innocenza non mi giustifica e non mi salva, perché l’intorpidimento della coscienza, l’incapacità di riconoscere il male come tale in me, è colpa mia. L’incontro invece con Dio risveglia la mia coscienza, perché essa non mi fornisca più un’autogiustificazione, non sia più un riflesso di me stesso e dei contemporanei che mi condizionano, ma diventi capacità di ascolto del Bene stesso… Così diventiamo capaci della grande speranza e così diventiamo ministri della speranza per gli altri: la speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed è speranza attiva, nella quale lottiamo perché le cose non vadano verso « la fine perversa » (nn. 33-34).

Agire e soffrire. « Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto » (n. 35). Il Regno di Dio è un dono offerto a tutti; tuttavia il nostro agire non è indifferente per Dio, per gli uomini e per la storia. Possiamo con la nostra libertà inquinare o purificare, far progredire o regredire la Chiesa e il mondo. Anche la sofferenza che deriva dalla nostra finitezza e dalle nostre colpe, dal male che è nel mondo e dal maligno – e che dovremmo cercare di affrontare, alleviare e superare – chiama in causa la speranza. È questa che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del bene, anche dinanzi a situazioni impossibili o disperanti.  La tribolazione, mediante l’unione con Cristo che ha sofferto con infinito amore, si trasforma in beatitudine e dolcezza. (A proposito viene citato un brano della lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin (+ 1857). « Cristo è disceso « nell’inferno » e così è vicino a chi vi viene gettato » (n. 37) ed allora troviamo nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di speranza. Anzi Cristo ci insegna ad assumere in qualche modo la sofferenza dell’altro per amare e consolare, ossia per essere vicino all’altro che soffre. La verità, la giustizia, l’amore non raramente chiedono il sacrificio del proprio interesse, comodità, salute, « altrimenti la mia vita diventa menzogna » (n. 38). È questa la strada del martirio che si concretizza nelle molteplici alternative quotidiane. È proprio dal genere e dalla misura della nostra speranza che abbiamo la forza « di poter « offrire » le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso » (n. 40), quello di attualizzare la com-passione di Gesù e in qualche modo di « completarla » a favore del prossimo (cf. 1Pt 4, 13; 2Cor 1, 7; Col 1, 24).

Il Giudizio. Il Signore che ritorna come Re e Giudice della storia richiama la speranza della giustizia definitiva dinanzi alla quale emerge la nostra responsabilità. Non è possibile all’uomo fare giustizia in senso assoluto. Per evitare distorsioni (paure o superficialità) occorre riferirsi al Cristo crocifisso e risorto, dinanzi al quale la nostra vita appare nella sua verità di amore (paradiso) o di egoismo (inferno), e l’eventuale necessità di purificazione (purgatorio).   »L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi » (n. 47). Maria, che col suo sì ha aperto a Dio stesso la porta del nostro mondo, è la stella della speranza che brilla sul nostro cammino. Lei vide morire il Figlio come un fallito, esposto allo scherno più totale. « La spada del dolore trafisse il suo cuore. Era morta la speranza? » (n. 50). In quell’ora tenebrosa avrà riascoltato dentro di sé le parole dell’angelo forse tante volte ripetute da Gesù: « Non temere, Maria » (Lc 1, 30). Il Regno del Signore non finiva (cf. Lc 1,33), anzi nella fede intravedeva la Pasqua, già preannunciata nel suo Magnificat. La sua fede e la sua speranza le consentirono di animare i discepoli scandalizzati e dispersi, di accompagnarli dal venerdì santo alla Pasqua e alla Pentecoste. « Così tu rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre, come Madre della speranza. Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare e amare con te » (n. 50). « Gesù, sii il mio compagno e la mia speranza. Guidami nel vasto mare di questo mondo. Mi serva di porto sicurissimo l’abisso del tuo amore e della tua misericordia »

(M. Speranza, Novena all’A.M.)

“SONO UNO SVENTURATO”- UN BREVE COMMENTO SU ROMANI 7

 

http://www.christianarticles.it/Un-breve-commento-su-Romani-7.htm

“SONO UNO SVENTURATO”- UN BREVE COMMENTO SU ROMANI 7

Molte volte ho sentito dire dalla gente le parole di Paolo in Romani 7:24 “Sventurato che sono. Chi mi da questo corpo votato alla morte” Questa frase è usata come essendo riferita a noi, cristiani nati di nuovo. Essi la usano intendendo che noi cristiani siamo in un certo modo schiavi del peccato ( esso è nello stesso contesto, pochi più versi precedenti, Paolo dice “io sono di carne venduto al peccato“ (Romani 7:14). Allora loro dicono: “Io sono uno sventurato”, “noi siamo peccatori, venduti al peccato”, “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? “ Io propongo questo articolo comunque alla gente che ama il Signore e vuole seguir Lo – questo articolo è riferito soltanto a questa gente – che cadono in tanti errori, essi NON sono schiavi del peccato, ne sono sventurati in attesa di essere deliberati. Il Salvatore è venuto ed il suo nome è Gesù Cristo! Egli ha aperto le porte della nostra prigione e ci ha resi liberi. Noi non siamo più “sventurati”. Una volta anche noi eravamo morti per le nostre colpe e i nostri peccati, ERAVAMO sventurati (Efesini 2:1). Ma adesso non siamo più morti! Dio ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati (Efesini 2:5)! “Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1Pietro 2:9). Questa è la verità della Parola di Dio. A questo punto abbiamo il diritto di chiedere di quale situazione penosa Paolo sta descrivendo in Romani 7? A chi si riferisce? Perché usa questo passaggio come se si applica a se stesso, e perché sta parlando come se è qualcosa che sta accadendo adesso? Bene, non abbiamo bisogno di andare lontano per trovare la risposta. Quello che abbiamo bisogno di fare è di leggere il contesto della frase anteriore, tutto il capitolo sette di Romani. Guardando a Romani 7 possiamo notare che il soggetto è la legge e come era impossibile per qualcuno che aveva la natura del peccato come Adamo poteva compiere la legge. Abbiamo bisogno di dire che Paolo sta usando la prima persona ed il tempo presente figurativamente, no letteralmente. In altre parole sebbene quello che dice appare che parla personalmente, egli dice ciò solo figurativamente, mettendosi nella posizione di quelli a cui queste cose erano direttamente applicabili. Come sappiamo ciò? Andiamo a leggere per esempio i versi 7 e 9 di Romani 7:

Romani 7:7-9 “Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita.” Il periodo “senza legge”, era prima che la legge fu data, centinai d’anni prima della nascita di Paolo. Quindi quando Paolo dice “e io un tempo vivevo senza la legge” è usato alla prima persona singolare (“Io”) solamente figurativamente. Non era vivente in quel periodo, ma egli figurativamente si mette al posto di quella gente che era vivente in quel momento e dice “Io ero vivo”. Ed è la stessa cosa per il resto del passaggio “Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita.” Il comandamento viene da Mosè e Paolo non era vivente in quel periodo. È ovvio che sta usando se stesso (prima persona) FIGURATIVAMENTE, no letteralmente. Lo stesso modello continua attraverso Romani 7. Paolo usa se stesso e molte volte al tempo presente per descrivere quello che era nel PASSATO. Il motivo di ciò era di rendere la situazione più vivida e porre un contrasto con la presente situazione ( che è descritta in Romani 8) anche molto più chiara. Il soggetto principale in Romani 7 è la situazione senza Cristo. Prima di Cristo la legge era in vigore, e benché questa legge era buona e santa era impossibile di essere mantenuta dalla gente che avevano solamente una natura peccaminosa, carnale1. Come egli caratteristicamente dice:

Romani 7:12-14 “Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento…… la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato.” Era Paolo carnale quando egli scriveva queste cose? Aveva soltanto la natura del peccato di Adamo? Era venduto come schiavo del peccato? Enfaticamente la risposta è NO. Paolo, essendo un credente nato di nuovo, aveva Cristo vivente in lui. Cristo lo aveva reso libero. Egli era nato di nuovo e salvato. A cosa si riferisce quando egli si descrive come “schiavo del peccato?” Si riferisce al periodo della legge, che è il a principale soggetto di Romani 7. Nel periodo della legge, non c’era la nuova nascita! Non c’era la nova natura! Tutte queste cose sono state disponibili a noi dopo il sacrificio di Gesù ma non prima, nel periodo della legge, esse non erano disponibili. Ciò che la gente aveva in quel periodo era la vecchia natura di peccato. Nonostante la legge era buona e santa tuttavia essa era spirituale mentre essi erano carnali, schiavi del peccato. Quindi quando Paolo dice “Ma io sono di carne, venduto come schiavo al peccato” sta usando una forma figurativa, espressa al tempo presente, mettendo se stesso al posto di quelli che vivevano al tempo della legge, egli fece esattamente così come è in verso 7 si mise al posto di quelli che vivevano senza la legge, quando egli dice “un tempo vivevo senza la legge”. Quando Paolo scriveva Romani 7 era nato di nuovo, era una nuova creatura come tra l’altro lo siamo anche noi, che abbiamo creduto nel Signore Gesù Cristo, il Messia e Figlio di Dio, è anche:

2 Corinzi 5:17 « Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. » Paolo usa lo stesso modo nel parlare (prima persona, tempo presente) attraverso tutto il capitolo di Romani 7. Andiamo a leggere:

Romani 7:15-24 “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” Quello che Paolo sta descrivendo è una situazione miserabile. Se non prendi in considerazione il contesto del passaggio e se tu ignori e scarti la nuova nascita anche tu sicuramente diventerai miserabile. Anche tu griderai “Io sono uno sventurato. Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” Ma le buone notizie è che 2000 anni fa’ il Salvatore venne!!!! Il suo nome è Gesù Cristo! Paolo non si ferma alla domanda “Io sono sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” ma continua immediatamente con le risposte ed eccole qui

Romani 8:1-4 “Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù TI HA LIBERATO DALLA LEGGE DEL PECCATO E DELLA MORTE. Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito.” C’era un tempo che eravamo schiavi, sotto il peccato. Ma non più! Credendo nel Signore Gesù Cristo, ci libera dalla schiavitù. Adesso noi abbiamo un nuova natura. Adesso noi siamo LIBERI. Adesso noi siamo giusti!

Per ricapitolare la domanda di Paolo in Romani 7:24 “Sventurato io sono! Chi mi libererà di questo corpo di morte?”

E qui ci sono le risposte, nei prossimi due versi: “La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù TI HA LIBERATO DALLA LEGGE DEL PECCATO E DELLA MORTE.”

E di nuovo Galati 5:1 “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.”

Noi non siamo più schiavi, sotto il peccato. Non siamo più “sventurati”. Invece Cristo nostro Salvatore, venne, diede se stesso come riscatto e ci ha resi LIBERI. La prossima volta che tu senti qualcuno gridare “Sventurato io sono”, intendendo che questa è la situazione in cui siamo oggi, digli che è SBAGLIATO. Lodato sia il Signore e grazie a Dio per sempre, che, attraverso Suo Figlio, ci ha liberati da questa terribile situazione. Sempre a Lui la lode perché una volta eravamo “morti per le nostre colpe e i nostri peccati, …. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo” (Efesini 2:1-5). Lode a Lui ed a Gesù per sempre nostro Salvatore.

Anastasio Kioulachoglou

Note

1. Il termine “uomo di carne” è “carnale” è usato nelle epistole di Paolo per denotare la natura peccaminoso di Adamo cioè la natura lasciata come conseguenza della caduta. Un’ altro nome che è usato per descrivere questa natura è “il vecchio uomo”. Questa natura, la natura di Adamo, è la sola natura che ognuno ha prima di credere il Signore Gesù Cristo e la Sua resurrezione ed era la sola natura che è disponibile durante il periodo della legge. Comunque, oggi dovuto al sacrificio di Gesù, quando qualcuno confessa Lui come Signore e crede nel suo cuore che Dio lo Ha resuscitato dalla morte (Romani 10:8-10) è nato di nuovo e riceve una nuova creatura. La nuova creatura è nelle epistole di Paolo chiamata “il nuovo uomo” ( opposto al “vecchio uomo”), “spirito” (come opposto alla “carne”) e spirituale ( come opposto al “carnale”). Gli articoli: “Corpo, anima e spirito” e “Pentecoste e la nuova nascita” amplifica il soggetto citato.

Publié dans:Lettera ai Romani |on 6 juillet, 2016 |Pas de commentaires »
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