24 LUGLIO 2016 | 17A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
24 LUGLIO 2016 | 17A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
« Signore, insegnaci a pregare » Il tema della « preghiera » nel suo significato più profondo unifica la prima e la terza lettura di questa Domenica, mentre continua la proclamazione della lettera ai Colossesi con la esaltazione dei benefici derivati dalla morte e risurrezione di Cristo: « Con Cristo siete stati sepolti nel Battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti » (Col 2,12).
« Vedi come ardisco parlare al mio Signore, Dio che sono polvere e cenere… » Il primo brano ci descrive, in una scena commossa, confidenziale e drammatica nello stesso tempo, la lotta di Abramo, « nostro padre nella fede », con Dio per strappare dalla rovina le città di Sodoma e Gomorra. Abramo però supplica il Signore non semplicemente per la sopravvivenza di quelle corrottissime città; in tal caso, infatti, si sarebbe come schierato dalla parte del male, quasi facendosene avvocato presso il Signore! Egli lo supplica, invece, in nome sia pure di pochi « giusti » (da cinquanta scende fino a dieci!) che si trovassero in quelle città, introducendo così un elemento di compenso e di equilibrio fra il bene e il male: la presenza anche di soli dieci giusti, infatti, starebbe a dire che la potenza del male non è assoluta, che le si può sfuggire, che può essere vinta. Nello stesso tempo starebbe pure a dire che il Signore riconosce ai « giusti » una vera funzione « salvifica » che li inserisce in pieno nel suo disegno: in tal modo essi non hanno bisogno di attendere la fine per diventare « giudici » del mondo (cf 1 Cor 6,2), ma lo sono già fin dal presente. Se il male sfida il bene, è anche vero che il bene sfida ed erode il male. Più che il problema, direi quasi di carattere giuridico, se sia giusto che i buoni periscano insieme con gli empi, che pure è ampiamente dibattuto nella Bibbia, credo che qui si affronti il problema del valore stesso della « santità » davanti a Dio e se essa sia capace di propiziarlo in favore dei peccatori: « Allora Abramo si avvicinò al Signore e gli disse: « Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?… »" (Gn 18,23-26). È commovente il modo con cui Abramo, che doveva conoscere molto bene la situazione morale di quelle città, restringe il numero dei giusti, mercanteggia con Dio alla maniera beduina: « Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutte le città?… Forse là se ne troveranno dieci » (vv. 27-28.30.31.32). Dio accetta anche questa ultima, disperata richiesta: « Non la distruggerò per riguardo a quei dieci » (v. 32). « Possiamo rimproverare ad Abramo di essersi fermato al numero dieci? Fosse arrivato anche al numero uno, non avrebbe trovato nessun giusto: oltretutto era questa la funzione del solo intercessore atteso, Gesù ». È quanto ci dirà il IV canto del « Servo di Jahvèh », che con la sua sofferenza, da solo, « porterà », riscattandolo, « il peccato di molti » (Is 53,12). In conclusione, questa bellissima pagina della Bibbia ci insegna due cose riguardo alla preghiera: 1) La sua potenza di intercessione, che va molto al di là dei nostri stessi interessi e dei nostri confini. In tal modo essa cessa di essere un fatto individualistico, per assumere le dimensioni stesse del mondo e dei fatti della storia, allo scopo di sottoporli al « giudizio » di Dio e al suo amore perdonante! 2) La sua arditezza, direi quasi spregiudicata, che qui nasce dal fatto che Abramo è l’uomo della « fede » sconfinata, a cui Dio non può rifiutare nulla. In questo senso il « vero » orante è solo il « santo », oppure colui che in qualsiasi maniera ha incominciato a « impegnarsi » seriamente con Dio. La preghiera perciò interpella la nostra vita ed esige che si realizzi secondo le istanze del Vangelo.
« Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare… » È quanto ricaviamo anche più chiaramente dal brano di Luca, che raggruppa in una pericope unitaria alcuni insegnamenti di Gesù sulla preghiera. È risaputo da tutti che Luca ha un interesse particolare per il tema della preghiera. Non che ne parli in maniera astratta: egli preferisce piuttosto mostrarci Gesù come il « modello » vivente della preghiera. Perciò ce lo mostra spesse volte in atteggiamento « orante » come, ad esempio, in occasione del suo Battesimo (3,21), della scelta dei Dodici (6,12), della Trasfigurazione (9,28-29), ecc. Come avviene anche qui. A differenza di Matteo, che ci riferisce la « formula » del Pater noster nel contesto dei vari ammaestramenti del discorso della Montagna (6,9-13), Luca la fa nascere come dal vivo dell’esperienza di preghiera di Gesù stesso: « Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: « Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli »" (Lc 11,1). Dobbiamo essere grati a questo anonimo discepolo che ha provocato, con la sua spontanea ma commossa richiesta, quell’ondata di preghiera che ha coperto il mondo e lo salva, questo Padre nostro ripetuto ogni giorno infinite volte, sussurrato nel segreto del proprio cuore o cantato a piena voce dalle folle in festa. Più che una « formula » di preghiera, però, l’anonimo discepolo deve aver richiesto a Gesù, che egli aveva visto immerso nel suo dialogo con Dio, di spiegare loro lo « spirito », il senso e anche il contenuto della preghiera, attingendo proprio al segreto della sua esperienza. Di fatto Gesù darà anche una formula di preghiera, il Pater noster appunto, valida però soltanto in quanto espressiva dei sentimenti e degli atteggiamenti spirituali dei suoi discepoli: al di là della formula, perciò, e mediante la formula, egli intende creare delle « disposizioni d’animo » che permettano all’orante di mettersi davanti a Dio come uno che ha più bisogno di essere da lui richiesto e interpellato, che di richiedergli qualcosa.
« Padre, sia santificato il tuo nome… » Mettendo da parte non pochi dettagli di carattere critico-letterario, che il testo del Pater noster presenta, vorrei richiamare l’attenzione del lettore sui « contenuti » di fondo della preghiera insegnataci da Gesù. Prima di tutto mi sembra importante notare che essa si svolge tutta sotto il segno della « paternità » di Dio: « Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno… e non ci indurre in tentazione » (vv. 2-4). La formula di Luca (« Padre ») è solo apparentemente più fredda di quella adoperata da Matteo: « Padre nostro, che sei nei cieli ». In realtà, essa sembra ripetere alla lettera la supplica di Gesù nell’orto: « Abbà, Padre! » (Mc 14,36), che ci viene riportata nel suo tenore aramaico anche da S. Paolo: segno evidente, questo, che la formula dovette produrre enorme impressione sugli Apostoli. E il motivo è che « Abbà » è formula del tutto originale, rivolta a Dio, in quanto essa viene adoperata dai bambini per rivolgersi nel gergo infantile, al loro padre: qualcosa come « papà mio, babbino » e simili. In questo modo Gesù ci insegna ad avere non solo un atteggiamento « filiale » nei riguardi di Dio, ma addirittura « infantile », cioè pieno di fiducia, di abbandono, di docilità, di amore. Anche se è possibile caricare il volto del « padre » di aspetti deformanti della vera paternità (autoritarismo, durezza, ecc.), questo non avviene certamente a livello infantile in cui la carica e lo scambio dell’affetto sono ancora integri e totali. Orbene, questo è il rapporto che noi dobbiamo avere con Dio allorquando preghiamo, come ci invita a fare Gesù anche nelle due piccole parabole che commentano il Pater: « Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe?… Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono! » (vv. 11-13). Tutto questo implica uno sforzo continuo di limpidità, di trasparenza, di fiducia, una volontà sincera di trasformarci e « diventare come fanciulli » (cf Mt 18,3). Solo allora sarà sincera la nostra invocazione: « Padre nostro, che sei nei cieli »! In secondo luogo è importante notare i due centri di interesse, che Gesù suggerisce ai suoi discepoli di avere sempre davanti per proporli al Padre: a) la gloria di Dio e l’avvento del suo « regno »; b) i bisogni materiali e spirituali dell’orante (il pane quotidiano, il perdono dei peccati, la liberazione dalla tentazione). Così Gesù ricompone in unità la « pluridimensionalità » dell’uomo: non esiste solo il « cielo » e neppure soltanto la « terra », ma il cielo e la terra insieme che si dànno la mano per permettere all’uomo di realizzarsi in tutta la sua pienezza.
La preghiera « coinvolge » la vita D’altra parte, per Gesù il pregare non è rimettere nelle mani di Dio i problemi che tormentano l’uomo perché li risolva al suo posto: in tal modo la preghiera sarebbe come una « alienazione ». Tutto il contrario! Nella preghiera l’uomo si impegna a scoprire il disegno di Dio nella propria vita per realizzarlo faticosamente giorno per giorno, con la grazia e la forza sempre nuove che il Padre che sta nei cieli non mancherà di dargli. Anche se il « regno » che deve venire è Dio che lo realizzerà, rimane pur vero che tocca all’uomo far di tutto per « entrarci ». Questo è anche più chiaro nella richiesta del « pane quotidiano » e del « perdono dei peccati »: Dio non ci perdonerà, se noi non « perdoniamo a ogni nostro debitore » (v. 4). Anche la richiesta di essere liberati dalla « tentazione », che indubbiamente è la grande « tentazione » del tradimento e dell’infedeltà, è legata alla nostra capacità e alla nostra volontà di resistenza, come ricorda Gesù agli Apostoli nell’orto: « Vegliate e pregate per non entrare in tentazione » (Mt 26,41). Dal che si vede che la preghiera afferra tutta la nostra vita, la lievita, la trasforma per farla coincidere con il progetto di Dio, davanti al quale dobbiamo sentirci e presentarci sempre con l’animo libero e fiducioso dei « figli ». Per questo avevamo bisogno che Gesù ci « insegnasse » a pregare, prima che con le parole, con la sua stessa vita, che è stata una continua ricerca della « volontà » del Padre.
Settimio CIPRIANI (+)
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