Archive pour juin, 2016

NON È STATO PAOLO A CAMBIARE IL CRISTIANESIMO, MA GESÙ A CAMBIARE PAOLO

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NON È STATO PAOLO A CAMBIARE IL CRISTIANESIMO, MA GESÙ A CAMBIARE PAOLO

di Andrea Lonardo

“Ultimo fra tutti Cristo risorto apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15, 8). Paolo descrive qui se stesso, prima della conversione sulla via di Damasco, come una vita non nata, come un’esistenza non giunta alla gioia della nascita. Egli ha cominciato a vivere solo dopo l’incontro con il Signore. Chi è stato veramente Paolo e qual è la radice ultima che lo portò alla decisione di arrivare a Roma e di giungere fino al martirio nell’urbe? Per chi vorrebbe, snaturando gli scritti neotestamentari, che Cristo sia stato solo un rabbino fra i tanti maestri del suo tempo, non resta che affermare che Paolo è il secondo fondatore del cristianesimo o ne è addirittura l’iniziatore stesso, colui che ha ellenizzato il cristianesimo, colui che ha portato a tutti – contro le stesse intenzioni di Gesù, a loro dire – il messaggio del rabbì di Galilea. Secondo altri egli avrebbe, invece, giudaizzato il cristianesimo, reinserendo in esso gli elementi liturgici e ministeriali dei quali un Gesù in versione liberale avrebbe fatto piazza pulita in episodi come la cacciata dei mercanti del Tempio (il tutto sostenuto con un’esegesi a dir poco approssimativa di quel passo). Altri ancora, invece, sulla scia di una certa interpretazione della Riforma, lo vedrebbero come l’unico vero interprete di Gesù, a motivo dell’accentuazione paolina dei temi della grazia e della misericordia che renderebbero superflua – a loro dire – ogni esigenza morale del cristianesimo. La testimonianza stessa di Paolo indica, invece, con precisione una via totalmente differente: non è stato l’apostolo a trasformare il Signore, ma è stato Gesù a cambiare Paolo! Egli che non aveva mai vissuto, ha trovato la vita sulla via di Damasco. La cecità fisica, sperimentata da Paolo in quell’occasione, ha un suo corrispettivo interiore nell’accorgersi in quel giorno di non aver mai visto niente nel giusto modo. È solo l’incontro con la chiesa, l’invio a lui di Anania ed il dono sacramentale del battesimo, a far sì che egli cominci a vedere, che egli abbia la vista. Il cavallo che la tradizione iconografica ha voluto aggiungere al racconto degli Atti non è in dissonanza con questo, ma rappresenta in maniera straordinaria e vera l’accaduto a partire dal simbolo. L’elegante e possente animale è sempre stato immagine di potenza. Gli imperatori, i re, i nobili, hanno sempre voluto essere rappresentati in sella – si pensi solo al Marco Aurelio del Campidoglio – a manifestare la loro autorità. Caravaggio e Michelangelo a Roma, insieme a tanti altri prima e dopo di loro, hanno voluto sottolineare il rovesciamento dei valori avvenuto nell’esistenza di Paolo in quel giorno. Cristo lo aveva disarcionato, smontato dalla sua sicurezza. Gli aveva rivelato il suo essere ‘come un aborto’. Questo non significa dimenticare i tratti ebraici o greci di Paolo, ma tutto, in quel giorno, assunse un diverso significato. Paolo era ancora ebreo, Paolo era ancora greco e romano. Ma Paolo era divenuto cristiano. Vengono qui in mente le famose espressioni di G. K. Chesterton quando scriveva che l’eresia non è necessariamente una affermazione falsa, ma più spesso è una verità che dimentica tutte le altre verità. E continuava sostenendo che il cattolicesimo è l’unico luogo dove tutte le verità si danno appuntamento. Ha senso parlare di un Paolo ebreo, di un Paolo che conosce a menadito le Scritture, è lecito parlare di un Paolo impregnato di cultura ellenistico-romana, pensando ad episodi come la discussione avvenuta all’Areopago di Atene o ancora all’uso della Bibbia nella sua versione greca elaborata dai rabbini di Alessandria d’Egitto. Ma l’evento che è la chiave di volta per capire l’uno e l’altro è ormai il suo rapporto con il Signore Gesù, è l’incontro sulla via di Damasco. È così importante quella svolta nella vita di Paolo che Luca, negli Atti, la descriverà ben tre volte (At 9, 1-18; 22, 1-21; 26, 2-23). Paolo stesso nel suo epistolario vi farà continuamente riferimento (1 Cor 9, 1; 1 Cor 15, 8; 2 Cor 4, 6; Gal 1, 11-16; Fil 3, 7-14; Ef 3, 1-12; 1 Tim 1, 11b-17). Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano. Quel giorno nacque in lui la vocazione che lo spinse poi fino a Roma. Come gli disse sulla via di Damasco il Signore: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21).

Vangelo secondo Luca 7,11-17

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Publié dans:immagini sacre |on 3 juin, 2016 |Pas de commentaires »

GALATI 1,11-19 -COMMENTO BIBLICO

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GALATI 1,11-19  -COMMENTO BIBLICO

Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.  Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri.  Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.  

COMMENTO Galati 1,11-19 La vocazione di Paolo La lettera ai Galati inizia con un lungo prescritto (1,1-5) a cui fa seguito una severa ammonizione (1,6-10), da cui appare come siano giunti nella comunità dei nuovi predicatori che mettono in discussione l’autenticità del «vangelo» predicato da Paolo. Egli si sente perciò costretto a difendere anzitutto il suo ruolo di apostolo. Egli lo fa nella prima parte della lettera (1,11-2,21) in chiave autobiografica, raccontando gli inizi della sua attività apostolica, i suoi contatti con la chiesa di Gerusalemme e lo scontro avuto con Pietro ad Antiochia. Di questa sezione, nel testo liturgico viene ripresa la parte che riguarda la vocazione di Paolo. I fatti a cui allude sono narrati negli Atti degli apostoli (cfr. At 9,1-30; 22,5-16; 26,9-18), dove però la storia è riletta in base ai presupposti teologici di Luca. Paolo stesso ne parla anche in altri contesti (cfr. 1Cor 9,1; 15,8; 2Cor 12,1-6; Fil 3,4-7). Anche lui però non è un narratore neutrale, in quanto ricorda solo ciò che è utile alla sua tesi, sorvolando sugli aspetti che potrebbero disturbare la sua linea difensiva. Nel testo liturgico egli indica anzitutto l’origine del suo vangelo (vv. 11-12), poi ricorda ciò che egli era stato «prima» (vv. 13-14) e quello che è diventato «dopo» l’incontro con Cristo (vv. 15-17); infine descrive la sua prima visita a Gerusalemme (vv. 18-19).

Il vangelo di Paolo (vv. 11-12) Paolo inizia la sua difesa mettendo in luce l’origine divina del vangelo da lui predicato. Egli si era presentato all’inizio della lettera come «apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» (cfr. v. 1). Ora riprende questo argomento affermando che il suo vangelo non è «modellato sull’uomo», cioè non è formulato in modo tale da piacere agli uomini (cfr. v. 10). Egli infatti non l’ha ricevuto né imparato «da uomini» (v. 11). Da queste parole si arguisce facilmente che, per controbattere le sue tesi, i suoi avversari lo presentavano come un semplice ripetitore di cose udite, che adattava a piacimento per far venire incontro alle attese dei suoi ascoltatori: in ogni caso egli sarebbe un predicatore qualsiasi, suscettibile di errori e di deviazioni. Per togliere ogni base a questa insinuazione, egli afferma di non aver ricevuto o imparato il suo vangelo da uomini, ma «per rivelazione di Gesù Cristo» (v. 12). Ciò non significa certo che egli abbia ricevuto per una rivelazione speciale tutti gli insegnamenti contenuti nel vangelo: in realtà egli stesso afferma più volte la sua stretta dipendenza dalla tradizione (cfr. 1Cor 15,1-11), ed è chiaro che moltissimo materiale contenuto nelle sue lettere riflette la primitiva predicazione apostolica. Ciò che Paolo vuole qui affermare è che egli ha ricevuto per rivelazione il nucleo centrale del suo vangelo, e cioè il fatto che a Cristo compete il ruolo di mediatore unico della salvezza, ad esclusione di qualsiasi altra mediazione, non ultima quella della legge mosaica.

Il Paolo precristiano (vv. 13-14) Egli presenta se stesso come uno che, prima dell’incontro con Cristo, perseguitava fieramente la chiesa di Dio, in quanto superava nel giudaismo la maggior parte dei suoi coetanei, essendo un accanito sostenitore (zêlôtês) delle tradizioni dei padri (vv. 13-14). Non senza una certa esagerazione, Luca lo descrive come un violento persecutore dei cristiani (At 8,3; 9,1-2). In realtà dalle parole di Paolo sembra piuttosto che egli portasse avanti un’accesa polemica nei loro confronti. Non è escluso che in casi particolari egli abbia fatto applicare ai cristiani le sanzioni previste dalla sinagoga nei confronti di coloro che trasgredivano la legge. Il motivo dello scontro è la «tradizione dei padri», di cui Paolo era un acerrimo sostenitore. Questa espressione  potrebbe riferirsi alla pratica della legge mosaica oppure, forse più probabilmente, il principio della sottomissione all’autorità romana, in vista di un evento escatologico che avrebbe introdotto il regno di Dio. Secondo questa interpretazione Paolo avrebbe voluto difendere Israele da derive messianiche che potevano provocarne la rovina. Circa la località in cui egli ha svolto la sua azione di persecutore, Paolo non dice nulla, ma non è sicuro che essa sia iniziata, come racconta Luca, a Gerusalemme: secondo lo stesso Luca infatti la comunità della città santa non aveva più subìto persecuzioni dopo l’allontanamento degli ellenisti (cfr. At 8,1). È possibile quindi che Paolo sia venuto a contatto con il cristianesimo proprio a Damasco, perché è lì che egli ritornerà dopo il periodo trascorso in Arabia (cfr. v. 17; 2Cor 11,32); con ogni probabilità in quella città si erano rifugiati alcuni di quei cristiani ellenisti che erano fuggiti da Gerusalemme in seguito all’uccisione di Stefano (cfr. At 8,1-4). In questo periodo Paolo, in quanto persecutore, non ha certo potuto ricevere il suo vangelo dagli apostoli o da qualcuno della loro cerchia: ma proprio allora, nel corso delle discussioni sostenute con i cristiani, egli ha certo avuto una prima conoscenza, anche se frammentaria e imperfetta, della vita e degli insegnamenti di Gesù.

La vocazione (vv. 15-17) Nella vita di Paolo è però accaduto un evento che ne ha mutato radicalmente il corso. Egli non si sofferma a descriverlo nei suoi dettagli, come fa Luca negli Atti degli apostoli (At 9,1-19), ma si limita ad alludervi in una frase subordinata, facendo ricorso al linguaggio tipico dell’AT. Fin dal seno materno egli era stato «scelto», come Geremia (cfr. Ger 1,5) e il Servo di JHWH (cfr. Is 49,1.5), ed era stato «chiamato» da Dio «con la sua grazia», cioè per una sua decisione libera e gratuita. A un certo punto Dio gli ha «rivelato» (apocalyptô) il suo Figlio perché lo «annunziasse» (euangelizô) in mezzo ai gentili (vv. 15-16a). Nel linguaggio biblico il verbo apocalyptô significa la manifestazione escatologica del piano salvifico di Dio, la cui conoscenza è per definizione irraggiungibile dalla mente umana: Paolo ha dunque ricevuto direttamente da Dio una illuminazione interiore, in forza della quale ha riconosciuto in modo certo il ruolo unico e definitivo di Cristo nel piano salvifico di Dio. Questa esperienza, che non consiste necessariamente in una visione esterna, ha avuto come effetto non solo la fede, ma anche l’invio ai gentili, per annunziare loro la salvezza operata da Cristo. Il modo in cui Paolo allude all’evento di Damasco mostra che egli lo ha vissuto non tanto come una «conversione», quanto piuttosto come una «vocazione» alla sequela e alla missione, analoga a quella dei profeti e dei primi discepoli di Gesù. È proprio in forza di questa illuminazione interiore che egli ha potuto interpretare correttamente ciò che già prima sapeva e quanto in seguito avrebbe più dettagliatamente conosciuto circa il «vangelo di Cristo». L’esperienza di Damasco spinge immediatamente Paolo, senza «consultare carne e sangue», cioè senza venire a contatto con nessuno dei primi discepoli e senza ricevere da nessuno un mandato, e in modo specifico senza recarsi a Gerusalemme dagli apostoli, a lasciare il luogo in cui si trovava e a recarsi in Arabia; da lì poi è ritornato a Damasco (v. 16b). Il termine «Arabia» designa la zona della Transgiordania allora abitata dai nabatei. Stando al contesto risulta che si è recato in questa regione per svolgervi un’attività di evangelizzazione. Non si sa quali siano stati i risultati di questa sua prima attività missionaria, della quale non è stata conservata memoria negli Atti degli apostoli: è probabile però che non abbia avuto molto successo, dal momento che in quella regione non esistono comunità che facciano risalire a lui la loro fondazione. Non si sa neppure quanto tempo egli si sia fermato in Arabia, ma si può supporre che le difficoltà incontrate lo abbiano consigliato a ritornare ben presto sui suoi passi. Di questa sua prima attività Paolo non dà nessuna notizia dettagliata perché ciò che gli preme soprattutto sottolineare è che egli ha cominciato ad essere apostolo prima che potesse incontrare gli apostoli di Gerusalemme e senza alcuna investitura da parte loro.

Il primo viaggio a Gerusalemme (vv. 18-19) Il primo incontro di Paolo con i capi gerosolimitani è avvenuto solo dopo tre anni: egli non specifica se questo lasso di tempo debba calcolarsi a partire dall’evento di Damasco o dal suo ritorno in quella città dopo la permanenza in Arabia. Da altri testi risulta che l’abbandono di Damasco ha avuto luogo in seguito alla persecuzione scatenata contro di lui dai giudei: in quella occasione egli, per sfuggire al governatore del re Areta, era stato fatto calare dalle mura della città in un cesto (cfr. 2Cor 11,32-33; At 9,22-25). Negli Atti Luca racconta che a Gerusalemme Paolo, dopo un momento di diffidenza da parte dei cristiani, è stato introdotto da Barnaba nella comunità, di cui è diventato membro a tutti gli effetti. Anche a Gerusalemme egli avrebbe iniziato un’intensa attività di evangelizzazione, interrotta solo dal profilarsi di una persecuzione nei suoi confronti (At 9,26-30). Paolo invece sottolinea che lo scopo della sua visita era semplicemente quello di «consultare» (historesai) Cefa (Pietro), il capo dei primi dodici discepoli di Gesù. Il significato esatto del verbo historesai è dibattuto: in questo contesto però è chiaro che esso indica non una semplice visita di cortesia e neppure una consultazione vera e propria circa il nucleo centrale del vangelo, che Paolo aveva ricevuto direttamente da Dio e tanto meno circa i dettagli della vita di Gesù o del suo insegnamento. Più che di una consultazione si è trattato di un confronto circa quello che per Paolo era un aspetto qualificante del vangelo, cioè la sua validità a prescindere dall’osservanza della legge mosaica. Diversamente da quanto racconta Luca, Paolo afferma che si è fermato a Gerusalemme per un periodo molto breve (quindici giorni) e che per di più non ha incontrato, al di fuori di Pietro, nessun altro apostolo, se non Giacomo, il fratello del Signore. Questa affermazione per lui è tanto importante che la convalida con un giuramento, cioè chiamando Dio come testimone. (v. 20). Giacomo non apparteneva al gruppo dei dodici, ma faceva parte di una cerchia più ampia di missionari a cui veniva allora esteso l’appellativo di apostoli (cfr. 1Cor 15,5.7). Paolo non dice qual è stato il risultato di questo incontro; nel complesso egli tende a diminuirne l’importanza affinché non appaia che egli sia andato da Pietro con l’intento di ottenere particolari riconoscimenti o investiture. Aggiunge invece che dopo la sua prima visita a Gerusalemme si è recato in Siria (Antiochia) e in Cilicia (Tarso) e sottolinea che personalmente continuava ad essere sconosciuto alle chiese della Giudea, le quali però erano a conoscenza del suo lavoro missionario e glorificavano Dio a causa sua (vv. 20-24; cfr. At 11,25-26).

Linee interpretative La svolta che si è verificata nella vita di Paolo è descritta dall’apostolo stesso in termini religiosi come conseguenza di una chiamata che gli è venuta direttamente da Dio. Egli si serve di questo schema interpretativo per indicare il carattere esperienziale della sua fede cristiana. Anche lui, come i primi discepoli, ha avuto il privilegio di venire direttamente a contatto con Gesù. Nulla gli manca di quanto essi hanno imparato nel periodo che hanno trascorso con il Signore. Ciò giustifica la sua sicurezza di possedere il messaggio autentico di Gesù e al tempo stesso la sua indipendenza nei confronti di quelli che l’avevano preceduto. A questa percezione profonda si deve il suo impegno come missionario e fondatore di comunità e il coraggio con cui ha affrontato tutte le difficoltà, non escluse quelle che gli venivano da predicatori cristiani che, proprio appellandosi ai primi discepoli, annunziavano il vangelo in un modo diverso dal suo. Implicitamente egli afferma che senza questa esperienza personale del Cristo nessuno potrà mai annunziare in modo efficace il suo vangelo. Tuttavia per Paolo autonomia non significa indipendenza. Egli è portatore di tradizioni che risalgono a Cristo, ma che egli ha ricevuto mediante i primi discepoli. Ma soprattutto si sente profondamente legato alla chiesa madre di Gerusalemme, e ai suoi leaders in quanto si rende conto che, senza una forte comunione con loro, rischia di lavorare invano. La comunione all’interno di una singola comunità infatti non è sufficiente per attuare la salvezza portata da Gesù. Egli sente fortemente il rischio di una rottura all’interno del movimento cristiano e cercherà in tutti i modi di scongiurarlo. L’unione tra le sue chiese e la comunità di Gerusalemme non è vista però in chiave istituzionale, ma come un’esigenza che deriva dal concetto stesso di «regno di Dio»: per le comunità cristiane sparse nel mondo la salvezza è veramente tale solo se rappresenta e porta in sé, almeno allo stato germinale, una vera riconciliazione tra nazioni e culture diverse.

OMELIA (05-06-2016) – LA VEDOVA DI NAIN E IL ‘MIRACOLO’ CHE CI CHIEDE GESÙ

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OMELIA (05-06-2016) – LA VEDOVA DI NAIN E IL ‘MIRACOLO’ CHE CI CHIEDE GESÙ

padre Ermes Ronchi

La donna di Nain aveva già pianto la morte del suo uomo. Adesso è inghiottita dal dolore più atroce, quello che non ha neppure un nome per essere detto: due vite, quella del figlio e la sua, precipitate dentro un’unica bara. Quante storie così anche oggi. Perché questo accanirsi, questa dismisura del male su spalle fragili? Nella Bibbia cerchi invano una risposta al perché del dolore. Il Vangelo però racconta la prima reazione di Gesù: egli prova dolore per il dolore dell’uomo. E lo esprime con tre verbi: provare compassione, fermarsi, toccare. Gesù vede il pianto e si commuove, si lascia ferire dalle ferite di quel cuore. Il mondo è un immenso pianto, un fiume di lacrime, ma invisibili a chi ha perduto lo sguardo del cuore. Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona (donna, non piangere) e scoprire dietro un centimetro quadrato di iride vita e morte, dolore e speranza. C’è un solo modo per conoscere un uomo, Dio, un paese, un dolore: fermarsi, inginocchiarsi e guardare da vicino. Guardare gli altri a millimetro di viso, di occhi, di voce, come bambini o come innamorati. Quando ti fermi con qualcuno hai già fatto molto per la storia del mondo. Nessun segnale ci dice che quella donna fosse più religiosa di altri. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù è il suo dolore. Quella donna non prega Gesù, non lo chiama, non lo cerca, ma tutto in lei è una supplica senza parole, e Dio ascolta l’eloquenza delle lacrime, risponde al pianto silenzioso di chi neppure si rivolge a lui. E si fa vicino, vicino come una madre al suo bambino. Gesù vede, si ferma e tocca. Ogni volta che Gesù si commuove, tocca: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain. Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare il contagioso, l’infettivo, il mendicante, la bara. Non è un sentimento è una decisione. Si accosta, tocca, parla: Ragazzo dico a te, alzati. Levati, alzati, sorgi, il verbo usato per la risurrezione. E lo restituì alla madre, restituisce il ragazzo all’abbraccio, all’amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle relazioni d’amore nelle quali soltanto troviamo la vita. E tutti glorificavano Dio dicendo: è sorto un profeta grande! Gesù è il profeta della compassione, di un Dio che cammina per tutte le Nain del mondo, si avvicina a chi piange, piange insieme con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore. E ci convoca a operare « miracoli », non quello di trasformare una bara in una culla, come a Nain, ma quello di sostare accanto a chi soffre, accanto alle infinite croci del mondo, lasciandosi ferire da ogni ferita, portando il conforto umanissimo e divino della compassione. Fermarsi. Per vedere bene un prato bisogna inginocchiarsi e guardarlo da vicino (Ermanno Olmi). Il tatto è tra i cinque sensi quello che apre il Cantico, e lo riempie, è un modo di amare, il modo più intimo, è il bacio. Apre una stagione nuova nelle relazioni. Come la notte comincia dalla prima stella, così il mondo nuovo comincia dal primo samaritano buono. Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mondo. Quel buco nero che inghiotte la vita di una madre, di un padre privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d’ora in poi niente sarà più come prima. Gesù non sfiora il dolore, penetra dentro il suo abisso insieme a lei. Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? gli avevano chiesto. Chi si avvicina al dolore altrui, se lo carica sulle spalle, cerca di consolarlo, alleviarlo, guarirlo se possibile. Il Vangelo dice che Gesù fu preso da grande compassione per lei. La prima risposta del Signore è di provare dolore per il dolore della donna.

 

San Giustino

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Publié dans:immagini sacre |on 1 juin, 2016 |Pas de commentaires »

IL SACERDOZIO UNIVERSALE DEI CREDENTI

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IL SACERDOZIO UNIVERSALE DEI CREDENTI

di Filippo Chinnici

Non raramente è capitato di sentire alcuni che, dietro la facciata di un servizio di culto « ordinato », affermavano la necessità di uno stretto « controllo ». Le testimonianze, tanto per fare un esempio, prima dovrebbero essere ascoltate dal pastore che, dopo aver messo il proprio imprimatur ne consente la viva partecipazione alla comunità. In taluni casi, si è arrivati addirittura a sostenere l’abolizione delle stesse. Questo modo di pensare, però, non solo non tiene conto del fatto che le testimonianze erano parte integrante del culto dei cristiani del tempo apostolico (cfr. At 21:17-19; 12:12-17; 11:4), ma mina anche uno dei pilastri del cristianesimo biblico, qual è appunto quello del sacerdozio universale dei credenti. La concezione di un cristianesimo separato tra clero e laicato trae origine da influssi sociologici pagani e giudaici che man mano, nel corso dei secoli, si è sempre piú sviluppato. E ci sorprende che alcuni, usando una terminologia diversa, arrivino sostanzialmente a cadere nello stesso errore. È vero che Dio ha chiamato alcuni al «ministerio della Parola» per l’edificazione del Corpo di Cristo, ma secondo il Nuovo Testamento tutti coloro che sono nati di nuovo e sono salvati, sono dei «laici» (dal gr. laòs = popolo, folla, gente), in quanto appartengono al popolo di Dio, ma contemporaneamente sono anche membri del «clero», ossia «sacerdoti». D’altra parte, Pietro usa il termine greco kleroi (plurale di «clero») per i credenti affidati alle cure degli anziani (cfr. 1 P 5:3). Quindi, è da escludere il luogo comune secondo cui «io vado ad assistere al culto» e, invece, riaffermare «io vado ad offrire il culto al Signore».

Il «sacerdozio» tra Antico e Nuovo Testamento È vero che nel tempio ebraico dell’Antico Testamento vi erano i sacerdoti i quali rappresentavano il popolo d’Israele davanti a Dio, e molto del loro lavoro consisteva nell’offrire olocausti, oblazioni e sacrifici a Dio per il popolo. Però, la Bibbia afferma esplicitamente che oggi ogni credente può liberamente entrare nel « santuario » di Dio (Eb 10:19-22; 1 P 2:5-9) senza alcun bisogno di un mediatore, in quanto il Signor Gesú Cristo è l’unico Mediatore (1 Ti 2:5). Paolo dice che attraverso Gesú Cristo «abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito» (Ef 2:18). Questo versetto è particolarmente interessante perché sia prima che dopo Paolo parla riferendosi all’immagine del Tempio. Cosí lo Spirito Santo stabilisce una diretta relazione tra noi e Dio. E poiché questa è opera dello Spirito Santo, Pietro può riferirsi a tutti i credenti come a «un sacerdozio santo» a «un sacerdozio regale» (1 P 2:5, 9), un pensiero che riecheggia nel libro dell’Apocalisse, dove l’idea del sacerdozio è legata alla chiamata a regnare al fianco di Cristo (Ap 1:6; 5:10; 20:6). Il Nuovo Testamento parla spesso di sacrifici personali – già adombrati nell’Antico Patto (cfr. Osea 6:6) – e poiché il sacerdozio è spirituale, cosí come il tempio che è il nostro corpo (1 Co 3:16; 6:19) anche i sacrifici da offrire a Dio devono essere spirituali (1 P 2:5), non in quanto metaforici, ma in quanto mossi dall’impulso interiore dello Spirito Santo. Il sacrificio supremo è stato offerto alla croce, ma ora Dio chiede sacrifici viventi. Paolo parla di questo principio quando afferma: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1). Quindi, come il sacerdote ebraico era un maestro, un uomo di preghiera e l’offerente qualificato di sacrifici a Dio, cosí il cristiano oggi è l’ambasciatore di Dio, l’uomo di preghiera e l’offerente.

Ambasciatore di Dio Il cristiano è chiamato a proclamare il Vangelo della salvezza in Cristo al mondo. Questo compito, che Paolo considerava un obbligo, è presentato dall’apostolo con una terminologia sacerdotale: «Ma vi ho scritto un po’ arditamente su alcuni punti [...] di essere un ministro di Cristo Gesú tra gli stranieri, esercitando il sacro servizio del vangelo di Dio, affinché gli stranieri diventino un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo» (Ro 15:15, 16). Per cui l’annuncio della salvezza in Cristo è un atto sacro da offrire a Dio non soltanto durante le campagne di evangelizzazione, ma sempre; ed è un compito che spetta a tutti i credenti e non solamente a coloro che Dio ha chiamato al ministerio. Come i «segni che accompagnano» sono per tutti i credenti allo stesso modo anche il mandato di Gesú Cristo è riferito ad ogni credente: «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mr 16:15-18).

L’uomo di preghiera Nel tempio venivano sacrificati quotidianamente degli animali, quindi un profumo di odor soave saliva a Dio; allo stesso modo tutti i cristiani «abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui» (Ef 3:12). In questo contesto viene detto ai nati di nuovo: «offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome» (Eb 13:15). Questo «sacrificio di lode» sale a Dio come il profumo dell’incenso, cioè come atto squisitamente sacerdotale (cfr. Ap 8:3-5).

L’offerente L’atto sacerdotale per eccellenza è pur sempre il sacrificio che, però, dopo la morte di Gesú sulla croce non è più congiunto con lo spargimento di sangue. L’apostolo Pietro afferma che i cristiani devono offrire dei sacrifici spirituali (1 P 2:5). Il sacrificio consiste nell’offrire a Dio qualcosa che ci è prezioso e con il quale noi mostriamo il nostro amore e la nostra dipendenza da Lui. Esso può essere vario:

A. L’offerta di denaro Le offerte che Paolo ricevette dai credenti di Filippi per supplire alle sue necessità, vengono da lui chiamate «servizi» (Fl 2:30), «profumo di odore soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (Fl 4:18). Perciò la lettera agli Ebrei suggerisce: «Non dimenticate di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace» (Eb 13:16). Le offerte per l’Opera di Dio e le collette per i poveri sono anch’essi un «sacrificio a Dio» che ogni credente è chiamato ad offrire, esse vanno molto al di là di ciò che è materiale e fanno parte del culto.

B. Vita conforme a quella di Cristo Ad imitazione di Cristo il cristiano deve dire: «Ecco, vengo per fare la tua (di Dio) volontà» (Eb 10:9). La vita del Signore Gesú comportò dei sacrifici continui perché si conformò alla profezia del «Servo sofferente» (cfr. Is 53; 1 P 2:20-25). Per cui il cristiano è chiamato a vivere la propria vita sull’esempio di Cristo: «come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta» (1 P 1:15). I sacrifici spirituali del cristiano, quindi, sono prima di ogni cosa un’imitazione volontaria della vita e del sacrificio di Cristo, necessaria conseguenza del nostro essere uniti a Lui (cfr. Gv 15:1-5; 17:21). Questo concetto è espresso chiaramente nella lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1).

C. Il dono della vita Talvolta potrebbe essere necessario dare la propria vita per conservare la fede in Cristo o per aiutare i propri fratelli. Poiché la vita non appartiene piú a noi stessi, ma a Cristo che l’ha acquistata con il proprio sangue (1 Co 6:19) come Gesú ha dato la propria vita per i peccatori, cosí pure noi, se è necessario, dobbiamo essere pronti ad offrire la nostra vita in sacrificio per Cristo o per i nostri fratelli (cfr. 1 Gv. 4:11). L’apostolo Paolo era pronto anche a questo pur di difendere e onorare il Vangelo: «Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi» (Fl 2:17). E ciò che era un suo sentimento, piú tardi divenne una realtà, e – alludendo ai sacrifici ebraici sui quali si versava il vino prima della loro offerta a Dio (Nu 28:7) – Paolo scriveva: «Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione» (2 Ti 4:6; cfr. 2 Co 4:10-12).

Conclusione Fino a quando i credenti comprenderanno a fondo il proprio ruolo di sacerdoti e lo metteranno in pratica, noi continueremo a vivere e perpetuare un genuino risveglio evangelico pentecostale. Il cristiano non è chiamato a fare lo spettatore durante le riunioni di culto, ma ad essere un protagonista, un sacerdote che partecipa attivamente al culto attraverso il « sacrificio » della testimonianza, della lode, della preghiera, dell’offerta generosa, del dono della propria vita… Nessuno nega che nel dare spazio alla spontaneità si corrano certi rischi, tuttavia è un « rischio » che vale la pena di correre, perché eliminare la spontaneità dal culto cristiano equivale a «spegnere lo Spirito» (1 Te 5:19), quasi a volerlo controllare o ingabbiare dentro i nostri schematismi. Ma c’è di piú, un corretto ammaestramento dei conduttori disciplinerà i credenti fino ad avere dei culti ordinati e contemporaneamente spontanei dove si manifesta la potenza dello Spirito Santo. Non è assolutamente vero che «ordine» e «spontaneità» non possano coesistere, in quanto esse si integrano a vicenda. «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1).

Publié dans:SACERDOZIO (sul), STUDI PAOLINI |on 1 juin, 2016 |Pas de commentaires »

COME MORÌ DAVVERO SAN PAOLO?

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COME MORÌ DAVVERO SAN PAOLO?

Della storia del martirio dell’Apostolo delle Genti non vi è traccia nel Nuovo Testamento

Testo tratto dalla conferenza Il martirio di Paolo del prof. Germano Scaglioni (OFMConv), tenuta alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum il 27 giugno 2015

Per quanto possa apparire sorprendente, la notizia della morte dell’apostolo Paolo non trova riscontro nelle pagine del Nuovo Testamento. Le informazioni circa l’epilogo della sua vita terrena ci sono consegnate da antiche tradizioni cristiane, concordi nel situare a Roma il luogo del suo martirio. L’autore del libro degli Atti degli Apostoli, solitamente molto attento alle vicende di Paolo, conclude la sua opera con un “sommario”, in cui descrive la situazione dell’Apostolo a Roma, detenuto in regime di custodia militaris, ma libero di predicare: «Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28,30-31). Per motivi che non si conoscono, Luca preferì tacere su ciò che accadde in seguito. Secondo le ipotesi di alcuni interpreti, il processo si concluse con l’assoluzione di Paolo, forse perché nessuno dei suoi accusatori si presentò al processo o a motivo di un atto di clemenza da parte dell’imperatore. In seguito si recò in Spagna, realizzando così un suo progetto (Rm 15,24.28), poi fece ritorno verso le regioni del Mar Egeo, ma a Nicopoli fu arrestato (Tt 3,12). Ricondotto a Roma e sottoposto a un nuovo processo, fu condannato a morte e infine giustiziato. Altri ritengono piuttosto che già il suo “primo” processo romano si fosse concluso con la sua condanna alla pena capitale, eseguita non molto tempo dopo. Della morte dell’Apostolo si ha la prima notizia ufficiale in uno scritto risalente alla metà degli anni 90, all’incirca una trentina d’anni dopo la sua esecuzione. Il vescovo di Roma dell’epoca, Clemente I, in una lettera indirizzata alla comunità cristiana di Corinto ricorda che l’Apostolo «per la gelosia e la discordia, dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo […] sostenne il martirio davanti ai governanti» (1Clem 5,2). Altre informazioni riguardanti il martirio di Paolo, associato a quello di Pietro, provengono da uno storico dei primi secoli del cristianesimo: Eusebio di Cesarea (265-340). «Durante il regno di Nerone – annota Eusebio – Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in questa città» (Hist. eccl., 2,25,5). Anche la letteratura apocrifa si interessò alla morte di Paolo. Negli Atti di Paolo (fine II secolo), si afferma che il martirio dell’Apostolo avvenne in seguito alla sua condanna a morte per decapitazione, decretata da Nerone. Sulle circostanze del martirio si sofferma lo Pseudo Marcello (V secolo) negli Atti di Pietro e Paolo, per il quale alla “decollazione” dell’Apostolo si verificarono due prodigi: la fuoriuscita del latte dal collo reciso e lo sgorgare di tre sorgenti al triplice rimbalzo della testa sul terreno. Ciò spiegherebbe il nuovo toponimo per il luogo del martirio: non più “Aquae Salviae”, ma l’attuale “Tre Fontane”. Circa il luogo della sepoltura, si ha una duplice testimonianza. La prima è quella di Gaio, un presbitero romano del II secolo, il quale dichiara: «Io ti posso mostrare i trofei [= monumenti sepolcrali] degli apostoli: se andrai al Vaticano o sulla via Ostiense vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa» (Hist. eccl. 2,25,6-7). La seconda proviene da uno scritto dello Pseudo Abdia, Passione di Paolo, opera apocrifa del VI secolo, in cui si dichiara che la sepoltura delle spoglie mortali dell’Apostolo è avvenuta fuori della città, al secondo miglio sulla Via Ostiense, nel podere di Lucina, una facoltosa matrona romana cristiana, sulla cui casa sorge l’attuale chiesa di San Lorenzo in Lucina. Anche sulla data della morte dell’Apostolo le opinioni sono discordanti. Per alcuni Paolo sarebbe morto nel 64, durante le persecuzioni anticristiane seguite all’incendio di Roma; Eusebio di Cesarea e san Girolamo individuarono il 67, l’anno quattordicesimo del regno di Nerone, mentre secondo altri la morte dell’Apostolo sarebbe avvenuta qualche anno prima, fra il 56 e il 58. La questione è tuttora dibattuta.

 

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