Archive pour juin, 2016

SCRITTI DEI SANTI SULL’ADORAZIONE – SANT’ANTONIO DI PADOVA

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SCRITTI DEI SANTI SULL’ADORAZIONE – SANT’ANTONIO DI PADOVA

Dagli scritti …“Forse che tu scaglierai fulmini ed essi partiranno, e poi ritornando ti diranno: Eccoci?” (Gb 38,35). I fulmini partono dalle nubi, e così anche dai santi predicatori si manifestano opere mirabili. Partono i fulmini quando i predicatori brillano con il fulgore dei miracoli. Però ritornando dicono: “Eccoci!”, quando attribuiscono a Dio, e non alle proprie capacità, qualunque cosa riconoscano di aver compiuto di grande. Oppure anche, vengono mandati e vanno, quando dal segreto della contemplazione escono per svolgere la loro missione in pubblico; poi ritornano e dicono a Dio: Eccoci!, perché dopo la missione pubblica tornano di nuovo alla contemplazione.   …Il contemplativo infatti, quando si alza alle sfere superiori, non ha una via stabilita o diritta, perché la contemplazione non è in potere del contemplativo, ma dipende dalla volontà del creatore, il quale elargisce la dolcezza della contemplazione a chi vuole, quando vuole e come vuole. Dice infatti Geremia: “Lo so, o Signore, che l’uomo non è padro­ne della sua via, e non è in potere di chi cammina dirigere i propri passi” (Ger 10,23).  Considera che alcuni uccelli hanno delle lunghe zampe, e quando volano le tengono distese all’indietro. E ce ne sono altri che hanno le zampe molto corte, e quando volano le tengono strette al ventre per non esserne impediti nel volo, e la cortezza delle zampe non impedisce il volo.  Ci sono due categorie anche nei contemplativi. Ce ne sono alcuni che si dedicano agli altri e si prodigano per essi. Ce ne sono altri che non si dedicano né al prossimo né a se stessi e si privano perfino delle cose necessarie. I primi hanno le estremità lunghe, i secondi le hanno corte. I primi, quando si dedicano alla preghiera, si innalzano subito alla contemplazione; essi distendono all’indietro le estremità, cioè i sentimenti e gli affetti con i quali provvedono alle necessità del prossimo, per non esse­re impediti nel loro volo. O fratello, quando servi al tuo fratello, stendi i tuoi piedi davanti a te e impegna con lui tutto te stesso. Quando invece ti rivolgi a Dio, stendi i tuoi piedi all’indietro, perché il tuo volo sia libero. Incurante di ciò che sarà, del servizio e delle opere buone, di ciò che hai fatto e di ciò che farai, lascia da parte ogni fantasticheria quando sei in preghiera: è proprio in quel momento infatti che sopraggiungono tutti i pensieri inutili che ostacolano l’animo del contemplativo. I secondi invece, che hanno le gambe corte, che non attendono né agli altri né a se stessi, tengono i piedi stretti al ventre, riducono e attenuano nella mente i propri sentimenti, si raccolgono in se stessi affinché la mente, concentrata in una cosa sola, possa spiccare il volo con più facilità e fissare l’occhio dell’anima nell’aureo splendore del sole, senza restare abbagliata. Giustamente quindi è detto.  …Nel costato di Cristo il giusto troverà il pascolo, e quindi può dire: La mia delizia è stare con il Figlio dell’uomo (cf. Pro 8,31), sospeso sul patibolo della croce, confitto con i chiodi, abbeverato di fiele e di aceto, trafitto al costato. O anima mia, queste sono le tue delizie, di queste devi godere, in queste devi trovare la tua gioia. Anche Isaia ti dice: “Allora vedrai, sarai nell’abbondanza, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore” (Is 60,5). Vedrai, o anima, il Figlio di Dio appeso al patibolo, e allora sarai inondata di delizie e di lacrime, palpiterà il tuo cuore per la misericordia del Padre che, pur vedendo il suo Figlio appeso alla croce, non lo deponeva. O Padre, come hai potuto trattenerti. Perché non hai squarciato i cieli e non sei disceso a liberare il tuo Figlio diletto? E nello stupore per tutto questo, il tuo cuore si dilaterà nell’amore del Padre, il quale ci ha dato il Figlio che ci ha redenti, e lo Spirito Santo che ha operato la nostra salvezza.  Inoltre il giusto trova i suoi pascoli nella sofferenza del cuore e nel disprezzo del mondo. Giobbe, parlando dell’ònagro (asino selvatico), cioè del penitente, dice: “Gira intorno gli occhi ai monti del suo pascolo e cerca tutto ciò che verdeggia” (Gb 39,8). I monti del pascolo raffigurano la contemplazione delle cose eterne, che è nutrimento interiore, e quando le considera è preso da afflizione e pianto. È proprio di questo penitente ricercare tutto ciò che verdeggia, sprezzando le cose transitorie e bramando solo quelle che durano per l’eternità. Tutte le cose poste quaggiù temporaneamente e destinate a finire, sono aride e riarse, e sono disseccate dai godimenti della vita presente come dal sole in esta­te. Al contrario, sono dette “verdeggianti” quelle cose che nessuna temporaneità può disseccare. Giustamente quindi dice il Signore: “Il Padre celeste li nutre”.  …“Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33). Il regno di Dio è il bene supremo: per questo dobbiamo cercarlo. Lo si cerca con la fede, con la speranza e con la carità. La giustizia (la santità) di questo regno poi consiste nel mettere in pratica tutto ciò che Cristo ha insegnato. Cercare il regno di Dio, vuol dire praticare questa giustizia con le opere. Cercate, quindi, prima di tutto il regno di Dio, vale a dire ponetelo al di sopra di tutte le cose: tutto dev’essere fatto in vista di esso, nulla dev’essere cercato all’infuori di esso, e ad esso dev’essere ordinato tutto ciò che cerchiamo. E fa’ attenzione che nel vangelo è detto “vi saranno date in aggiunta”, perché tutte le cose appartengono ai figli, e quindi tutte queste cose saranno date anche a coloro che non le cercano. E se a qualcuno vengono negate, si tratta di una prova; e se vengono elargite, ciò viene fatto perché siano rese grazie a Dio, poiché tutto concorre al loro bene (cf. Rm 8,28).   … “Vigilate diligentemente”, “approfittate del tempo” e “non siate sconsiderati”. Chi aspira alle nozze dell’incarnazione del Signore cammina con cautela, perché cammina nella luce, e chi cammina nella luce non inciampa. Dice infatti Isaia: “I popoli cammineranno alla tua luce, e i re nello splendore del tuo sorgere” (Is 60,3). Coloro che par­tecipano alle nozze della Sapienza incarnata, non sono stolti, ma diventano veramente saggi; infatti la stessa Sapienza dice: “A me appartiene il consiglio e la giustizia, mia è la prudenza e mia è la fortezza” (Pro 8,14). Sono queste le virtù che rendono l’uomo sapiente e saggio: il consiglio, per fuggire il mondo; la giustizia, per rendere a ciascuno il suo; la prudenza per guardarsi dai pericoli e la fortezza per mantenersi saldo nelle avversità.  Va alle nozze della penitenza colui che rimedia al tempo male impiegato, “approfittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi” (Ef 5,16). E Agostino commen­ta: A motivo della malvagità e della miseria dell’uomo i giorni sono detti cattivi. Guadagna chi perde, cioè chi ci rimette di suo, per essere libero di occuparsi di Dio, perché è come desse un soldo (un nonnulla) per il vino. Dice infatti il vangelo: “A chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (Mt 5,40). Questo per aver il cuore tranquillo e per non sciupare il tempo. Parimenti, colui che brama le nozze della gloria celeste, non è stolto ma prudente. Prudente è come dire porro videns, che vede lontano. Infatti gusta e vede quanto è buono il Signore (cf. Sal 33,9), e nella dolcezza di quella visione comprende quale sia la volontà di Dio. Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci giungere alle nozze della tua incarnazione con la fede e con l’umiltà; di farci celebrare le nozze della penitenza, in modo da essere degni di partecipare poi alle nozze della gloria celeste. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen. …Il camaleonte è figura del contemplativo, che vive solo di aria, vale a dire della dolcezza della contempla­zione. Dice infatti con l’Apostolo: “La nostra patria è nei cieli” (Fil 3,20). E in Giobbe leggiamo: “La mia anima ha scelto la sospensione” (Gb 7,15). La sospensione simboleggia l’elevazione dello sguardo interiore al Signore.  Il giusto si solleva dalla terra con la fune dell’amore divino e resta come sospeso in aria per la dolcezza della contemplazione, ed allora si trasforma, per così dire, tutto in aria, come non avesse più il corpo, non fosse più oppresso dalla carnalità. È detto infatti di Giovanni Battista che era “voce di uno che grida nel deserto” (Mt 3,3; Gv 1,23). La voce è aria, e Giovanni era aria e non carne, perché non aveva più il gusto delle cose terrene ma solo di quelle celesti. È detto nell’Esodo che sotto i piedi del Signore c’era come un lavoro di pietra di zaffiro (cf. Es 24,10). Sotto i piedi di Cristo, cioè sotto la sua umanità, sono poste, co­me sgabello, le menti dei giusti. Infatti sta scritto che Maria [di Magdala] sedeva ai piedi del Signore (cf. Lc 10,39). E ancora: Le donne “si avvicinarono e gli cinsero i piedi” (Mt 28,9). E nel Deuteronomio: “Coloro che si avvicinano ai suoi piedi, riceveranno il suo insegnamento” (Dt 33, 3). Lo zaffiro è color del cielo. La mente dei giusti, sottomessa all’umanità di Gesù Cristo con la fede e con l’umiltà, è come un prezioso lavoro di pietra di zaffiro.  …“Di lassù aspettiamo come salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, che trasfigurerà il nostro misero corpo, per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,20-21). Ecco in che modo la moneta sarà contrassegnata con l’effigie del nostro Re. Chi vive nel mondo, ma non secondo la vita del mondo, ma secondo quella del cielo, può attendere con sicurezza il Salvatore.  E il profeta Amos, per contrasto, dice: “Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? Quel giorno sarà tenebre e non luce” (Am 5,18), cioè tribolazione e non prosperità. In quel giorno vedranno che le loro opere, che adesso sembrano loro luminose, sono invece tenebrose. Molti superbi, come commenta la Glossa, per sembrare giusti, dicono di aspettare anche loro il giorno del giudizio, o il giorno della morte, per incominciare ad essere con Cristo. Ma a costoro il profeta rivolge le sue minacce, perché nessuno è senza peccato, e proprio per il fatto di non temere per se stessi, sono degni dell’eterno supplizio.  Aspettano dunque il Signore Gesù con sicurezza e tranquillità, solo coloro che conducono quaggiù una vita degna del cielo.  …“È ormai tempo che noi ci destiamo dal sonno” (Rm 13,11). Come nell’ultimo avvento “suonerà la tromba e i morti risorgeranno” (1Cor 15,52), così in questo primo avvento suona la tromba della predicazione: “È ormai tempo”, ecc. Questo tempo è l’anno della benignità (cf. Sal 64,12), “la pienezza dei tempi, in cui Dio mandò il Figlio suo, nato da donna, nato sotto la legge” (Gal 4,4). Svegliamoci dunque dal sonno, cioè dall’amore delle cose temporali, delle quali Isaia dice: “Vedono cose vane, dormono e amano i sogni” (Is 56,10), cioè le cose temporali che chiudono gli occhi del cuore alla contemplazione delle cose eterne.  Le vane immaginazioni sulle cose di questo mondo, che illudono i dormienti nelle prime ore del giorno, vengano fugate dal sorgere del sole. Il sacco fatto di crine, il cilicio, il misero pannicello nel quale Gesù fu avvolto, l’umile luogo del presepio nel quale fu adagiato, ci invitano a svegliarci dal sonno e a scacciare le vane fantasie. “È veramente tempo di svegliarsi dal sonno”.  Ma guai a noi che neppure in quest’unica ora possiamo vegliare con il Signore, perché non lo vogliamo. Il Signore ha vegliato, poiché dice Geremia: “Vedo una verga vigilan­te” (Ger 1,11). Gesù Cristo fu la verga, flessibile per la sua obbedienza e umiltà, sottile per la povertà: egli vegliò con queste virtù, ma noi non vogliamo vegliare con lui. Gli uomini, schiavi delle ricchezze dormirono il loro sonno (cf. Sal 75,6); invece le ricchezze [vere] degli uomini, cioè l’umiltà e la povertà  dei giusti, vegliano con il Signore e quindi possono dire in tutta sincerità: “Adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti” (Rm 13,11).  E questo è ciò che dice anche Salomone: “La via dei giusti è simile alla luce che incomincia a risplendere, e cresce fino a pieno giorno” (Pro 4,18). “Luce che risplende”, cioè “quando diventammo credenti”; “fino a giorno pieno”, cioè “la nostra salvezza è più vicina”. La luce splendente si ebbe nell’incarnazione del Verbo, dalla quale scaturì la fede; il giorno pieno si verificò nella passione, con la quale fu più vicina la salvezza.  “Che cosa ci sarebbe servito l’essere nati, se non fossimo stati redenti?” …Sulla maestà del Signore concorda sempre ciò che dice Isaia: “Il Signore sarà per te luce sempiterna e saranno finiti i giorni del tuo lutto” (Is 60,20), perché le sofferen­ze di prima sono dimenticate e sono ormai nascoste allo sguardo di coloro che in questa vita hanno aspettato nella santità e nella giustizia il Signore, che sarebbe venuto per il giudizio. Di questi si dice nell’introito della messa: “Tutti coloro che ti aspettano non saranno delusi” (Sal 24,3).  È vero, è vero, Signore, non saranno delusi: anzi esulteranno per l’eternità. Della gloria dei buoni e del castigo dei cattivi, tu prometti con le parole di Isaia: “Ecco che i miei servi mangeranno, e voi patirete la fame; ecco che i miei servi berranno, e voi patirete la sete; ecco che i miei servi saranno nella gioia e voi nella delusione; ecco che i miei servi, nella felicità del loro cuore, canteranno lodi, e invece voi griderete per il dolore del cuore e urlerete per la tortura dello spirito” (Is 65,13-14).  Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo perché, quando verrà nel giorno dell’ultimo giudizio per rendere a ciascuno secondo le sue opere, quando verrà con grande potenza e maestà, non voglia esercitare la sua potenza verso di noi, mettendoci con coloro che saranno dannati, ma ci renda beati, di fronte alla sua maestà, insieme con coloro che saranno salvati: possiamo anche noi con loro mangiare e bere, esultare ed essere felici nel regno dei cieli.  Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima beata dica: Amen. Alleluia.   …“Séguimi”, dunque, perché io conosco la strada giusta per la quale condurti. Leggiamo nei Proverbi: “Ti mostrerò la via della sapienza; ti condurrò per i sentieri della rettitudine; quando vi sarai entrato non saranno intralciati i tuoi passi, e se corri non inciamperai” (Pro 4,11­12). La via della sapienza è la via dell’umiltà: ogni altra è via del­la stoltezza e della superbia. Le vie giuste ci ha mostrato quando ha detto: “Imparate da me” (Mt 11,29).  Il sentiero è largo solo due piedi (circa mezzo metro), di modo che una persona non può affiancarsi all’altra; ed è chiamato in lat. semita, quasi a dire semis iter, mezza strada, da semis, metà, e iter, strada.  I sentieri della rettitudine sono la povertà e l’obbedienza, e per essi Cristo, povero e obbediente, ti guida con il suo esempio. In essi non c’è alcuna tortuosità, ma tutto è diritto e chiaro. Ma – cosa meravigliosa! –, pur essendo così stretti, si afferma che in essi il cammino non è intralciato. Invece la via del mondo è larga e spaziosa; ma per i secolari, che vi camminano come ubriachi, essa non è mai abbastanza larga: per l’ubriaco la via è sempre stretta, per quanto larga sia. La malizia, la perfidia trovano tutto stretto; invece la povertà e l’obbedienza, proprio per il fatto che sono strette danno la libertà: perché la povertà rende ricchi e l’obbedienza rende liberi. E colui che corre dietro a Gesù in questi sentieri non trova l’in­ciampo della ricchezza e della propria volontà.  “Séguimi”, dunque, e ti mostrerò “ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo” (1Cor 2,9). “Séguimi, e ti darò” – come è detto in Isaia – “tesori nascosti e ricchezze ben celate” (Is 45,3); e ancora: “Allora vedrai e sarai raggiante, si meraviglierà e si dilaterà il tuo cuore” (Is 60,5). Vedrai Dio faccia a faccia, com’egli è (cf. 1Cor 13,12; 1Gv 3,2); sarai ricco di delizie e delle ricchezze della duplice stola dell’anima e del corpo; il tuo cuore sarà estasiato di fronte ai cori degli angeli, ai troni dei beati, e così si gonfierà di gioia e proromperà nel canto dell’esultanza e della lode. Dunque “séguimi!”.   

La peccatrice perdonata

La peccatrice perdonata dans immagini sacre LaMAddalena

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Publié dans:immagini sacre |on 9 juin, 2016 |Pas de commentaires »

COMPRENDERE LA GRAZIA DI DIO – DAL «COMMENTO ALLA LETTERA AI GALATI» DI SANT’AGOSTINO

http://www.novena.it/riflessioni_autori_antichi_moderni/f36.htm

COMPRENDERE LA GRAZIA DI DIO

DAL «COMMENTO ALLA LETTERA AI GALATI» DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO

(Introduzione; PL 35, 2105-2107)

L’Apostolo scrive ai Galati perché capiscano che la grazia li ha sottratti dal dominio della Legge. Quando fu predicato loro il vangelo, non mancarono alcuni venuti dalla circoncisione i quali, benché cristiani, non capivano ancora il dono del vangelo, e quindi volevano attenersi alle prescrizioni della Legge che il Signore aveva imposto a chi non serviva alla giustizia, ma al peccato. In altre parole, Dio aveva dato una legge giusta a uomini ingiusti. Essa metteva in evidenza i loro peccati, ma non li cancellava. Noi sappiamo infatti che solo la grazia della fede, operando attraverso la carità, toglie i peccati. Invece i convertiti dal giudaismo pretendevano di porre sotto il peso della Legge i Galati, che si trovavano già nel regime della grazia, e affermavano che ai Galati il vangelo non sarebbe valso a nulla se non si facevano circoncidere e non si sottoponevano a tutte le prescrizioni formalistiche del rito giudaico. Per questa convinzione avevano incominciato a nutrire dei sospetti nei confronti dell’apostolo Paolo, che aveva predicato il vangelo ai Galati e lo incolpavano di non attenersi alla linea di condotta degli altri apostoli che, secondo loro, inducevano i pagani a vivere da Giudei. Anche l’apostolo Pietro aveva ceduto alle pressioni di tali persone ed era stato indotto a comportarsi in maniera da far credere che il vangelo non avrebbe giovato nulla ai pagani se non si fossero sottomessi alle imposizioni della Legge. Ma da questa doppia linea di condotta lo distolse lo stesso apostolo Paolo, come narra in questa lettera. Dello stesso problema si tratta anche nella lettera ai Romani. Tuttavia sembra che ci sia qualche differenza, per il fatto che in questa san Paolo dirime la contesa e compone la lite che era scoppiata tra coloro che provenivano dai Giudei e quelli che provenivano dal paganesimo. Nella lettera ai Galati, invece, si rivolge a coloro che erano già stati turbati dal prestigio dei giudaizzanti che li costringevano all’osservanza della Legge. Essi avevano incominciato a credere a costoro, come se l’apostolo Paolo avesse predicato menzogne, invitandoli a non circoncidersi. Perciò così incomincia: «Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo» (Gal 1, 6). Con questo esordio ha voluto fare un riferimento discreto alla controversia. Così nello stesso saluto, proclamandosi apostolo, «non da parte di uomini, né per mezzo di uomo» (Gal 1, 1), – notare che una tale dichiarazione non si trova in nessun’altra lettera – mostra abbastanza chiaramente che quei banditori di idee false non venivano da Dio ma dagli uomini. Non bisognava trattare lui come inferiore agli altri apostoli per quanto riguardava la testimonianza evangelica. Egli sapeva di essere apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre (cfr. Gal 1, 1).

 

2 GIUGNO 2016 | 11A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/2016/05-Ordinario_C/Omelie/11a-Domenica/14-11a-Domenica-C_2016-SC.htm

2 GIUGNO 2016 | 11A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Le sono perdonati i suoi molti peccati,  perché ha molto amato »

È veramente un messaggio di gioia e di liberazione quello che si sprigiona da tutti i testi liturgici di questa Domenica: la « gioia » di sentirsi liberati dal peccato, piccolo o grande che sia, che ci opprime, ci tormenta, ci chiude in noi stessi, logora le nostre energie, sta sempre lì a dimostrarci che siamo un abbozzo mal riuscito, oppure un uccello dalle ali ferite. Vorremmo volare in alto, verso il cielo, ma siamo come schiacciati verso la terra, e questo ci reca enorme tristezza, direi quasi rabbia e disperazione. Sentirci allora dire come Davide dal profeta Natan: « Il Signore ha perdonato il tuo peccato: tu non morirai » (2 Sam 12,13), oppure: « Ti sono perdonati i tuoi peccati », come fece Gesù con la peccatrice (Lc 7,48), è provare un senso di liberazione come da un peso opprimente, che ci riempie il cuore di felicità. È come un tornare a rinascere o a rivedere la luce dopo una lunga, oscura prigionia. Questo senso di gioia lo esprime mirabilmente il Salmo responsoriale: « Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa / e perdonato il peccato… / Ti ho manifestato il mio peccato, / non ho tenuto nascosto il mio errore. / Ho detto: « Confesserò al Signore le mie colpe » / e tu hai rimessa la malizia del mio peccato » (Sal 32,1-5). Anche se il perdono è gratuito, come ci dimostrerà anche meglio il racconto evangelico, rimane vero che l’uomo deve almeno supplicarlo, « confessandosi » peccatore. Da questo incontro fra l’amore perdonante di Dio e il gemito dell’uomo esplode la felicità di sentirsi « riaccettati » da Dio e dagli altri, come canta il ritornello: « Ridonami, Signore, la gioia del perdono » (cf Sal 51,14).

« Un creditore aveva due debitori… » Il brano di Vangelo, riportato dal solo Luca, è il commento parlante di quanto veniamo dicendo: esso non ci descrive soltanto la « gioia del perdono » in una povera creatura, ma ci dimostra, la forza « creatrice » di un gesto di perdono, che Dio soltanto può compiere perché in realtà attinge i confini dalla onnipotenza. È l’episodio della « peccatrice » a cui Gesù rimette i peccati, da non confondersi con l’analogo episodio di cui è protagonista Maria, sorella di Lazzaro. Essendo stato invitato Gesù a pranzo, nella casa di un fariseo, ecco che « una donna, una peccatrice di quella città… venne con un vasetto di olio profumato; e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugò con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: « Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice »" (Lc 7,37-39). Si noti l’animo cattivo del fariseo: egli coinvolge in un unico giudizio denigratorio Gesù e la donna. Quest’ultima è subito bollata con l’appellativo di « peccatrice », che dovrebbe indicare l’infamante mestiere della prostituta; Gesù viene sospettato di una certa connivenza, perché si lascia addirittura « toccare » da una simile persona. Per dei formalisti come i farisei, c’è una specie di contagio fisico anche del male morale! Non pensano per niente che Dio può compiere il prodigio di « rinnovare » il cuore dell’uomo e che ognuno può essere occasione di salvezza per il fratello caduto nel peccato. È quanto Gesù cerca di far capire con un’incantevole parabola al fariseo Simone: « Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta… » (vv. 41-43). La parabola è trasparente e vi si trova benissimo anche il fariseo, il quale però non avverte che essa non è detta solo per la donna ma anche per lui: anche lui è un « debitore » verso Dio, cioè uno che ha peccato, ma che non vuole riconoscersi tale. Per questo nel suo cuore non c’è amore, o ce n’è pochissimo! Lo stesso invito a pranzo, rivolto a Gesù, è più un gesto formalistico che di vera amicizia, come farà notare subito il Signore confrontando il suo atteggiamento con quello della « peccatrice »: « Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli… Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco » (vv. 44-47). Gesù riassume tutti i gesti della donna e ne fa vedere il significato di accoglienza ospitale (gli ha lavato i piedi, glieli ha profumati ecc.), di generosità, di amore: lei, più che il fariseo, gli ha fatto « spazio » nella sua casa, cioè nella sua vita. E questo è segno che Dio è già presente nel suo cuore. Ma dove Dio è presente, il peccato è già distrutto.

« Ti sono rimessi i tuoi peccati » Si sarà notato che la conclusione, che Gesù ricava dall’atteggiamento della donna, sembra capovolgere i termini della parabola: « Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato » (v. 47). Per maggiore coerenza si sarebbe dovuto dire: « Poiché le è stato perdonato molto (i cinquecento denari), per questo ama molto ». L’amore, che qui esprime soprattutto la gratitudine, viene prima o dopo il perdono, ne è causa od effetto? Direi che Gesù va oltre questa casistica teologica ed afferma una cosa infinitamente più grande: l’amore sta alla radice di tutto, all’inizio e al termine di ogni incontro dell’uomo con Dio, proprio perché « Dio è amore » (1 Gv 4,8.16) ed egli lo dispensa gratuitamente ad ognuno che ne ha bisogno. Per una creatura che ha « molto peccato », come la donna del Vangelo, che sente disagio della sua situazione, che desidera di rompere le catene del male, che sente il fascino di Cristo, gli si muove incontro, gli offre in omaggio i frantumi della sua vita, significata dalla rottura di quel vaso di olio profumato, perché egli li ricomponga insieme, non è necessario che venga « prima » il perdono perché essa ami, in contraccambio, di più: l’amore è già nella ricerca appassionata del perdono, così come il perdono viene offerto solo perché c’è l’amore. Amore e perdono si incontrano e, in un certo senso, si identificano. Quello che dirà subito dopo Gesù alla donna: « Ti sono rimessi i tuoi peccati… La tua fede ti ha salvata; va’ in pace » (vv. 48.50), è solo la registrazione di qualcosa che è già avvenuto nell’intimo della sua coscienza. Ed è detto ad alta voce, per tutti i presenti, perché si guardino dentro e vedano se nel loro cuore c’è un minimo di amore per ottenere il perdono, o come « segno » del perdono già ottenuto. Dal modo con cui essi hanno osservato, quasi scandalizzati, ciò che faceva la peccatrice, c’è da pensare che ci fosse poco amore in loro. Ed è proprio per loro e per Simone il fariseo che Gesù ha detto quella frase terribile: « Quello a cui si perdona poco, ama poco » (v._47). L’amare « poco » è segno che c’è il peccato dentro di noi: la prostituta, che si china a baciare i piedi del Signore, è già liberata dal suo male. I pretesi « giusti », che la condannano, sono sotto il segno del peccato, mentre lei è « giustificata » per mezzo della fede e dell’amore. Cristo capovolge tutto: l’unica « santità » è quella di riconoscere che « lui solo è il Santo », perché « lui solo è il Signore » che ha il potere di trasformare il nostro cuore cancellando così il nostro peccato.

« Tu sei quell’uomo! » L’episodio di Davide, riferitoci nella prima lettura, conferma mirabilmente quanto ci ha detto fin qui il Vangelo. Davide aveva commesso adulterio con Betsabea e per non avere recriminazioni da parte del marito, anzi per possedere definitivamente la donna, aveva ordinato al generale Joab di collocarlo nel punto più pericoloso della battaglia che egli stava conducendo contro gli Ammoniti, in modo che venisse ucciso: ciò che di fatto avvenne (cf 2 Sam 11). All’adulterio si aggiunsero, dunque, il tradimento e l’assassinio. Qualcosa di incredibile in un uomo come Davide, che Dio si era « scelto » fra tutti i figli di Israele per farlo capo del suo popolo! È a questo punto che Dio inviò il profeta Natan per rimproverare apertamente il re dei suoi crimini banditeschi. Ciò che egli fece raccontando la parabola del povero che aveva una sola pecora, che amava come fosse « una figlia », e del ricco prepotente che, per imbandire un pranzo ad un ospite che nel frattempo era venuto da lui, non prese dal suo numeroso gregge, ma ordinò che fosse uccisa l’unica pecora del vicino (cf 2 Sam 12,1-4). Allo scoppio di collera di Davide, che voleva subito far punire il colpevole, il Profeta risponde che il colpevole era proprio lui: « Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele, e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo tra le tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa di Israele e di Giuda… Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Uria l’Hittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti… » (2 Sam 12,7-10). La colpa di Davide è tanto più grande non solo perché Dio lo aveva colmato di benefici, ma soprattutto perché non mancava di nulla, neppure di donne da prendere in moglie, senza « rubarne » una che già apparteneva al proprio marito, che poi bisognava far fuori per regolarizzare la propria posizione davanti alla gente. A Davide interessava più in quel momento apparire « pulito » di fronte ai suoi sudditi che non di fronte a Dio, che pur « scruta il cuore e le reni ». Era davvero un abisso di male quello in cui stava piombando « l’eletto di Dio »! Ma proprio l’orrore dell’abisso e soprattutto il richiamo sferzante della « parola » hanno salvato all’ultimo momento Davide: egli ha visto il suo male, ne ha sentito pentimento e dolore, lo ha confessato davanti al profeta di Dio, e Dio lo ha perdonato. « Allora Davide disse a Natan: « Ho peccato contro il Signore! ». Natan rispose a Davide: « Il Signore ha perdonato il tuo peccato; tu non morirai »" (v. 13). È a questo punto che il re d’Israele si è sentito come « rinnovato » nel suo cuore: il suo passato più non esisteva, tutto ricominciava da quel momento, come una nuova « creazione ». Il più meraviglioso e consolante fra tutti i Salmi, il « Miserere », sembra sia stato composto in questa occasione. È proprio lì che si parla del perdono come di una « creazione » e di una immensa fonte di « gioia »: « Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo… / Rendimi la gioia di essere salvato… » (Sal 51,12.14). Con un precedente così clamoroso, che doveva essergli ben noto, come poteva Simone il fariseo scandalizzarsi del perdono concesso da Gesù alla « peccatrice » e del senso di « festa », espresso proprio durante un banchetto, con cui la donna aveva voluto esprimere la sua gratitudine al Signore? Contrariamente a quello che pensavano Simone e i suoi amici farisei, dal cuore dell’uomo, fosse pure grande e generoso come quello di Davide, non viene che il male: Dio solo ci salva con il suo amore!

« L’uomo non è giustificato dalle opere della legge, ma soltanto dalla fede in Gesù Cristo » È quanto ci dice S. Paolo nel brano della lettera ai Galati, che si riferisce al suo scontro con Pietro ad Antiochia, allorché quest’ultimo era ondeggiante nel suo comportamento relativamente a certe pratiche giudaiche, creando disagio nei cristiani di quella comunità e persino a Barnaba. L’Apostolo reagisce, richiamando l’assoluta priorità della « fede » nell’opera della salvezza, così come era stato stabilito nell’assemblea di Gerusalemme. E la priorità della « fede » significa, in concreto, accettare di essere salvati esclusivamente per l’opera di Cristo, abbandonandosi al suo amore e imitandone i gesti. Proprio come era avvenuto per la « peccatrice », di cui ci parla Luca, e tutto il contrario di quanto presumevano i farisei, che rivendicavano la « giustizia » proveniente dalle loro opere: essendo, anzi, « orgogliosi » di queste! « Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge, ma soltanto dalla fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno… Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,16.19-20). Qui abbiamo il nucleo della più caratteristica dottrina paolina, che affida solo a Dio, per la mediazione di Cristo, l’opera della salvezza, di modo che nessuno possa « gloriarsi » davanti a lui; ma qui non abbiamo il tempo di approfondirla. Vorrei solo far notare la forza dell’ultima espressione: mediante la « fede » Paolo è stato come calamitato in Cristo, di modo che ne ripercorre l’esperienza di « crocifissione » e di « vita » conseguente alla prima. La « fede » che salva, perciò, non è una fede teorica, accademica, da scuola di teologia; ma una fede che afferra la vita, inchiodandola alla « croce » di Cristo, e agganciandola alla sua « risurrezione ». Una fede che ha bisogno di realizzarsi, dunque, di produrre frutti: perciò una fede rischiosa, dinamica, « compromissoria ».

Settimio CIPRIANI  (+) Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflesisoni biblico-liturgiche, Elledici, Torino

 

1. LA LIBERTÀ SECONDO SAN PAOLO: DIVENTARE «NUOVA CREATURA»

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IN QUARESIMA CON SAN PAOLO

Come ogni anno, Toscanaoggi propone ai suoi lettori durante le domeniche di Quaresima un itinerario di meditazione. In occasione dell’Anno Paolino, indetto dal Papa per il bimillenario della nascita di San Paolo, il percorso di quest’anno è incentrato intorno all’«Apostolo delle Genti». Ad illustrare, secondo alcune prospettive particolari, l’opera e la predicazione paolina è monsignor Benito Marconcini, noto biblista e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale

25/02/2009 di Archivio Notizie

Come ogni anno, Toscanaoggi propone ai suoi lettori durante le domeniche di Quaresima un itinerario di meditazione. In occasione dell’Anno Paolino, indetto dal Papa per il bimillenario della nascita di San Paolo, il percorso di quest’anno è incentrato intorno all’«Apostolo delle Genti». Ad illustrare, secondo alcune prospettive particolari, l’opera e la predicazione paolina è monsignor Benito Marconcini, noto biblista e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. di Benito Marconcini

1. LA LIBERTÀ SECONDO SAN PAOLO: DIVENTARE «NUOVA CREATURA»

Paolo sperimenta la libertà incontrando Cristo che gli «appare», lo «afferra», lo «ama e per lui si consegna». Da questa esperienza attinge le risposte per risolvere i problemi delle comunità di Tessalonica, Corinto, Galazia, Roma, Filippi e scopre verità capaci di liberare l’uomo dal male per farlo  camminare in una vita nuova. Il tema della liberazione è quasi un’esclusiva di Paolo, comparendo 24 volte nelle lettere autentiche, solo 2 volte in quelle di tradizione paolina e 12 negli altri scritti neotestamentari. I termini usati indicano sia il processo di liberazione, cioè il superamento di una situazione di schiavitù, sia il fine e la fine di questo sviluppo, cioè il godimento della libertà: il contesto aiuta a comprendere se prevale l’aspetto dinamico (liberazione) o finale (libertà). Alla parola libertà/liberazione Paolo dà un senso diverso da quello comune che intende abbattimenti di dittature, superamento di discriminazioni, acquisizione di diritti. Queste libertà, anche se ottenute, spariscono facilmente, senza la libertà interiore, la quale attraverso Cristo rende l’uomo «nuova creatura» (2Cor 5,17). Drammatica è la situazione della persona senza Cristo, incapace di fare il bene, rappresentata nell’«io» di Rm 7. «Io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me». Il peccato rende schiavo l’uomo (Rm 6,17.20). È possibile ritrovare tre livelli di peccato nei diversi elenchi dell’epistolario. In superficie appaiono i sintomi del peccato, radicato nel cuore dell’uomo. Tra un elenco breve di manifestazioni qualificanti le persone (1Cor 6,9b-10: ne conta 10) e uno lungo e ampiamente spiegato (Rm 1,24-32: oltre 20 termini) riportiamo quelli che la lettera ai Galati (5,19-20) chiama «desideri o opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordie, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere». La spinta a queste azioni deriva da un duplice sentimento e cioè il desiderio interiore di agire egoisticamente, denominabile bramosia (o epithymia: Rm 1,24) e l’atto esterno che porta a compimento quanto desiderato, identificabile con cupidigia cattiva, la voglia di possedere di più, cose o persone che siano (Rm 1,29: pleonexia kakia). Bisogna scendere più in profondità, nel cuore per trovare la radice, l’origine di ogni male, il peccato nel senso più vero chiamato comunemente amartia: in Rm 7 il termine compare 14 volte e nell’intera lettera 45 volte. Amartia è capovolgimento dell’istinto religioso fino a servirsi di Dio, anziché servirlo e orientamento di fatti e persone a proprio vantaggio. È una situazione permanente che si contrappone alla giustizia (diakiosyne), dono di Cristo. È l’amore di sé fino al disprezzo di Dio: è un egoismo totale. Il peccato è come un tumore che sgretola l’organismo spirituale e porta all’incapacità di fare il bene. «È una forza personale, ma personificata, sopraindividuale e anteriore a ogni trasgressione, a cui l’uomo è tendenzialmente asservito» (R. Penna).   In presenza del peccato, anche la Legge (tôrah) osservata scrupolosamente non rende buono l’uomo. Essa certamente è «santa e santo, giusto e buono è il comandamento» (Rm 7,12). Dà la conoscenza del bene che, se non fatto, accresce la responsabilità dell’uomo. Anche quando le azioni appaiono buone non hanno da sé la capacità di salvare. Anzi, in presenza del peccato, possono condurre o all’esaltazione o alla depressione. La Legge comanda di fare il bene, ma non dà la forza per compierlo. In definitiva essa rende tutti colpevoli davanti a Dio: «quelli che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione» (Gal 3,10). La sua funzione di far conoscere il peccato contribuisce ad accrescerne la responsabilità: «la Legge sopravvenne, perché abbondasse la caduta» (Rm 5,20). La Legge è solo un pedagogo, conduce a Cristo che rende gli uomini figli di Dio mediante la fede (Gal 3,24). Anche attraverso la Legge il peccato conduce alla morte spirituale (thanatos), entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24). Essa ha regnato nella storia, finchè «per l’opera giusta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita» (Rm 5,18). Nasce così la vita secondo lo Spirito, oggetto del prossimo argomento.

2. La vera libertà viene dallo Spirito Lo Spirito è il mistero nel mistero di Dio. Non ha volto ed è descritto nella Bibbia, per la sua capacità trasformante, attraverso immagini quali il vento, l’acqua, il fuoco, la potenza, la colomba. Conosciuto dagli effetti, rende l’uomo suo tempio («naos»: 1Cor 6,19). La sua presenza nella persona rivela e qualifica la vita cristiana, distinguendola da ogni altra forma di vita religiosa o spirituale. La forte immagine secondo la quale l’uomo abitato dallo Spirito ne diventa tempio e casa, permette di individuare le quattro colonne di questa costruzione che è l’uomo nuovo. La prima è la giustizia che senza obbligo per Dio  trasforma il peccatore in  amico. Essa è pura gratuità, misericordia (Rm 5,9), amore (5,5; 8,39), grazia (3,24; 5,2) ed è offerta a tutti gli uomini. Ciò comporta la figliolanza che secondo la concezione giuridica dell’adozione, costituisce figli (Rm 8,15) con tutti i diritti degli altri membri della famiglia e rende la persona abitazione divina, luogo sacro o tempio. La seconda colonna dell’edificio spirituale, la speranza, considerata un tempo sorella minore della sacra triade, ha oltrepassato le altre. Essa «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5). Fondata su Dio già definito «speranza di Israele» (Ger 14,8), questa virtù teologale (cioè che riguarda Dio) rende certi del compimento delle promesse divine, anche se la realtà attorno sembra smentire l’avveramento. Questo implica nell’oggi la certezza del superamento delle limitazioni e della trasformazione della sofferenza in gioia sulla base della morte di Cristo cambiata in vita e nel futuro la partecipazione alla sua gloria e al suo regno nella fase definitiva: ha i suoi luoghi nella preghiera, nella sofferenza e nella fiducia del superamento del giudizio finale. La speranza trova fondamento nella fede, in quello che Dio ha detto e fatto e si configura come «risposta integrale dell’uomo a Dio che si rivela come suo salvatore e include l’accettazione del messaggio salvifico e la fiduciosa sottomissione alla sua parola» (J. Alfaro). Questa fede quale coscienza dell’impossibilità di raggiungere la salvezza da soli e certezza di riceverla come dono è un atto libero e un voler fidarsi e affidarsi a Dio e trova compimento nell’amore/agape. Questo, brillantemente espresso nell’inno di 1Cor 13, è manifestazione dello Spirito, è vincolo di unione tra Dio e l’uomo e tra gli uomini, centro della rivelazione, segno efficace della presenza di Dio nel mondo: «chi ama l’altro ha adempiuto la legge» (Rm 13,8.10). Quest’amore divino permette a Paolo di delineare la vita diretta dallo Spirito in cinque momenti. «Quelli che da sempre Dio ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo [?] quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati, quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8,29-30). L’azione dello Spirito che accompagna l’uomo dal momento in cui Dio lo pensa, nella fase terrena e nella gloria infonde una certezza: «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28). Le due considerazioni fatte donano alla persona un sentire profondo (phronema: Rm 8,6.7.27) che oltrepassa la razionalità, reso dalla Bibbia Cei prima come«desideri», ora come un «tendere», da altri «pensiero»: effetti sono la vita e la pace. Questo pensiero è presente attraverso la forma verbale (phronein) che introduce l’inno centrato su Cristo che «svuotò e umiliò se stesso, assumendo una condizione di servo [?] per cui Dio lo esaltò, perché ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore» (Fil 2,5-11). Lo Spirito fa sperimentare alla persona la realizzazione di sé attraverso il servizio, conducendola alla libertà (2Cor 3,17): risulta così capovolta una mentalità diffusa che spinge a dominare gli altri per riuscire nella vita. La quarta colonna dell’edificio spirituale è la percezione interiore e sicura che tutti i doni dello Spirito costituiscono solo un pegno (arrabon: 2Cor 1,22), una primizia (aparche: Rm 8,23). La certezza che il meglio deve ancora venire assume quasi la forma di un diritto donato che troverà compimento nell’eternità. Unità e varietà dei doni trovano qui una sintesi: «il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). La persona così costruita ha raggiunto la libertà e vive di libertà.

3. Dalla libertà alla «koinonia» La liberazione realizzata dal dono di Gesù nel mistero pasquale e partecipata nel battesimo svuota il cuore da ogni negatività e lo riempie dello Spirito, facendo emergere una «nuova creatura» (2Cor 5,17). Questa non vive da sola la ricchezza ricevuta, è spinta ad allacciare legami, a interessarsi, a partecipare alla comunità. Essa vive la koinonia o comunione, considerata una definizione dinamica della vita cristiana. Più di altri termini, koinonia pone in evidenza l’unione verticale con Dio e orizzontale con i fratelli nelle 13 ricorrenze dell’epistolario autentico (compare 6 volte nel resto del NT).  Essa indica l’unione di mente, volontà, cuore dell’uomo. Cinque sono i testi più importanti sul duplice orientamento dell’essere con, del dare e ricevere partecipazione. «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro» (1Cor 1,9). La comunità di Corinto, nota  per la dissolutezza dei costumi, la litigiosità e la presenza di partiti contrapposti, è rassicurata da Paolo che la fedeltà di Dio  prevarrà alla fine su tutte le divisioni: Dio realizzerà la vocazione dei Corinti a restare uniti a Gesù, Messia (Cristo), salvatore (Gesù), risorto, Signore glorioso o Kyrios. Ancora ai Corinti Paolo, all’interno di una formula trinitaria, augura, o meglio, rende certi dell’unione allo Spirito. «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo (sono) con tutti voi» (2Cor 13,13). La koinonia dello Spirito comporta sia l’unione realizzata dal frutto dello Spirito (cfr Gal 5,22), sia quella con la persona stessa dello Spirito. Koinonia è associata al Padre soltanto nella Prima Lettera di Giovanni (1,3), ma è equivalentemente presente quando la comunità è fonte per i credenti di ogni dono che unisce. «La chiesa è in Dio Padre» (1Ts 1,1), elargitore di «grazia e pace, misericordioso, fonte di ogni consolazione» (2Cor 1,2-3), desideroso di reciproca intimità e familiarità che autorizza i credenti a «gridare: ‘Abba! Padre!» (Rm 8,15), così come fece Gesù nel Getsemani (Mc 14,36) e per noi fa continuamente lo Spirito (Gal 4,6). L’autentica unione al Padre, Figlio e Spirito si allarga ai fratelli. È quanto afferma il discepolo di Paolo, Luca, negli Atti degli Apostoli, specialmente nei tre sommari di vita comunitaria (At 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16), il primo dei quali contiene la parola koinonia. «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42). Qui «comunione» è chiave interpretativa di tutti gli episodi seguenti, non solo della prima parte degli Atti, dove guida è Pietro, ma anche della seconda parte, che presenta Paolo intento a fondare nuove comunità. «Comunione» infatti, assieme all’esperienza del Risorto, include l’elemento interiore, l’essere «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). Questa espressione racchiude il massimo grado di unione attraverso la formula greca (essere una sola anima) e quella biblica, evocativa dello ?ema’ (Dt 6,4) dell’amore di Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, esteso da Gesù al prossimo (Mt 22,39): Luca qui ha «fuso totalmente l’eredità veterotestamentaria ricevuta dai LXX col patrimonio greco» (E. Haenchen). Il passaggio dalla comunione con la Trinità all’unione con gli uomini e tra loro avviene per Paolo attraverso la presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia. «Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo;    tutti infatti partecipiamo all’unico pane»  (1Cor 10,16-17). La comunione reale con Gesù, efficacemente espressa come unione al sangue e al corpo di Cristo, si estende a tutti i credenti che formano il corpo totale di Cristo. Essi sono uniti non principalmente attraverso una solidarietà etnica, storica e culturale, ma per una necessaria estensione dell’unione a Gesù, presente e nascosto sotto le specie eucaristiche. È la chiesa che nasce dall’Eucarestia e vive dell’Eucarestia. «L’espressione ?un solo corpo? e ?un solo pane? non si riduce a una formula simbolica per tradurre in modo pregnante la comunanza di vita di quelli che condividono la commensalità? c’è una relazione strettissima tra il corpo di Cristo eucaristico e quello ecclesiale. Il primo non è solo segno, ma centro dinamico e vitale del secondo» (R. Fabris).   Quest’ultima affermazione pone una stretta relazione con 1Cor 11,23-30 che contiene il «vangelo dell’Eucarestia», ricco di due verità. I partecipati al banchetto eucaristico diventano un unico « corpo », sono la visibilità di quel « mistico » organismo di cui Gesù è il capo, gli uomini le membra (cfr 1Cor 12; Rm 12). Inoltre 1Cor 11,25 «questo calice è la nuova diatheke», cioè impegno solenne, nel mio sangue (cfr Lc 22,20; Ger 31,31-34) esprime  la volontà irreversibile del Padre e di Gesù di essere sempre compagnia dell’uomo: è il trionfo della divina misericordia.

4. La morale paolina: l’amore come dono La dimensione etica della vita cristiana scaturisce dalla  persona, divenuta «nuova creatura». Per questo spesso Paolo unisce strettamente la narrazione dell’evento Cristo e l’esortazione a viverlo quotidianamente nella fedeltà alle norme, quali segni del cambiamento interiore. La complementarietà tra motivazioni e impegni pratici risalta anche dai modi dei verbi, che alternano indicativo e imperativo. Fondamento della nuova etica è il mistero pasquale partecipato all’uomo nel sacramento del battesimo che rende figli di Dio e il dono dello Spirito propulsore dell’agire morale fino al compimento della storia. «Tutti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo [?] tutti quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, questi sono figli di Dio» (Gal 3,27-28; Rm 8,14). «Senza il legame con il kerigma, l’etica cristiana rischia di livellarsi a semplice moralismo situazionale e senza l’etica, il kerygma del vangelo corre il pericolo di essere mutato in una forma di gnosi disincarnata: tra lo Scilla del moralismo e il Cariddi del agnosticismo transita l’attualità dell’etica paolina» (A. Pitta, Lettera ai Romani, Paoline, 494). La parte pratica  presente in elenchi di virtù da incrementare e vizi da sradicare, trova l’esempio più completo in Rm 12. Questo capitolo da una parte, attraverso l’espressione «vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio», conclude la densa dottrina centrata sulla «giustizia» riflessa nella vita di Abramo e sull’«agape» che osa sperare perfino nella conversione di Israele, e dall’altra inizia l’esposizione di un ampio progetto di vita (Rm 13,1-15,13). Ottimo per un esame di coscienza, Rm 12 si snoda in tre parti, paragonabili a un albero che affonda le radici nella «misericordia» presentata come «giustizia» (capp. 1-4) e «agape» (capp. 5-11) e si sviluppa nel tronco e nei rami e giunge a dare i frutti. «Vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (12,1-2). Questa sintesi dei principi dell’agire morale o di morale generale è centrata su Dio, nominato due volte, come avveniva per il kerygma (1,16-17). Per esprimere il dono di sé a Dio, Paolo usa il linguaggio sacrificale e parla di offrire i «corpi», cioè la persona in quanto si manifesta, abolendo ogni sacrificio di animali non più gradito al Signore. Questa novità cristiana di rivolgersi in alto ha una sua logica, acquista senso davanti a Dio. «Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia» (Rm 6,13). Paolo ritorna su un pensiero precedente, parlando dei credenti come tempio (1Cor 3,16; 6,19), riallacciandosi a Gesù presentato come agnello pasquale (1Cor 5,7) e strumento di espiazione (Rm 3,25). Il dono di sé al Signore si esplica in un retto comportamento che esige di rifiutare il male presente in questo mondo, nell’ambiente cioè non ancora permeato dal vangelo e rinnovare la propria mentalità che si concretizza nel «discernere» (dokimazein). Ogni situazione racchiude un volete divino: per scoprirlo necessita un’attività mentale, una valutazione, una scelta. Anche quando la scelta di Dio è definitiva e convalidata dal tempo, il credente è chiamato ogni giorno a scegliere quel dettaglio per far crescere in sé un Cristo inedito. Tre aggettivi aiutano a fare la scelta giusta. Preferire ciò che è buono per gli altri, ciò che piace a Dio specialmente quando crea armonia e non dare occasione al diavolo di danneggiare, come avviene nella discordia e infine quanto facilita il proprio cammino verso la perfezione. Una seconda parte (12,3-8) invita ad avere un giusto concetto di sé (ripreso al v.16) e a svolgere il compito assegnato nella comunità con semplicità, diligenza, gioia, in modo che il cammino di perfezione diventi spedito nel tendere all’unità nella diversità. La terza parte (12,9-21) costituisce una dettagliata analisi dell’agape (v.9), nelle manifestazioni interne (vv.9-13) ed esterne alla comunità (vv.14-20) conclusa con un forte invito: «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (12,21): utile sarebbe un confronto con l’inno all’agape di 1Cor 13. Rm 12 presenta una morale obiettiva che trova il suo modello nel dire e fare di Cristo; dinamica sia per il richiamo all’attività del credente, sia per la necessità di lasciarsi guidare dallo Spirito, come detto ampiamente in Rm 8; concreta perché lascia intendere un esercizio quotidiano; comunitaria per la verifica quale emerge dalla risposta dei fratelli; missionaria, perché si configura per i non credenti come proposta senza imposizione. Una frase di S. Agostino fa emergere la diversità tra persone e comunità che si ispirano a questa morale e altre che si lasciano guidare dall’egoismo. «Gli uomini privi di speranza, quanto meno badano ai propri peccati, tanto più si occupano di quelli altrui. Infatti cercano non che cosa correggere, ma che cosa biasimare. E siccome non possono scusare se stessi, sono pronti ad accusare gli altri».

5.L’Attesa dei tempi ultimi L’escatologia o eventi ultimi è l’orizzonte nel quale Paolo considera la vita umana dell’individuo, della comunità e del cosmo; è la dimensione del futuro in tutti gli aspetti del credere e del riflettere; colta nella speranza  è il compimento di una storia che è un fine più che una fine: essa ha trovato il vertice e un senso nuovo in Cristo Risorto. La risurrezione di Gesù Cristo, fondata su molteplici testimoni che lo hanno «visto» (cfr 1Cor 15,3-8) e riflessa in titoli, quali Cristo Signore (cfr Fil 2,11; 1Cor 16,22), Figlio di Dio (Rm 1,9) è partecipata ai credenti nel battesimo. Attraverso questo «siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinchè, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova [?] anche voi consideratevi viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,4.11). L’essere in Cristo e con Cristo  è già esperienza di risurrezione e garanzia di giungere alla risurrezione dei morti (Fil 3,10-11). Per convincere i Corinti, che la ritengono impossibile (cfr At 17,32), Paolo dà qualche spiegazione su «come risorgono i morti» e «con quale corpo verranno» (1Cor 15,35). Intanto con il termine sôma, «corpo», diverso da sárx «carne», legata alla debolezza e alla peccaminosità (cfr 1Cor 15,50), Paolo indica l’uomo intero nel suo manifestarsi. Tra il corpo terreno e quello glorificato c’è diversità e continuità, da conservare in una tensione equilibrata. Si contrappongono (cfr 1Cor 15,42-44) corruzione e incorruttibilità, umiliazione e gloria, debolezza e potenza. Con forza è affermata l’identità della persona nella trasformazione del corpo, illustrata mediante l’immagine del seme (cfr 1Cor 15,43) e fondata sulla potenza divina. L’intervento di questa dà luogo a un evento ultimo, che pone fine al tempo presente e cioè la venuta gloriosa di Gesù Cristo: il ritorno sarà diverso dalla prima comparsa nel mondo. Il termine parousía compare 14 volte nell’epistolario paolino su un totale di 24 ricorrenze neotestamentarie. Nel primo scritto Paolo considera i tessalonicesi sua speranza, gioia, corona di gloria «davanti al Signore nostro Gesù Cristo alla sua parusia» (1Ts 2,19) e auspica che essi siano conservati irreprensibili davanti a Dio «nella venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1Ts 3,13). La speranza di incontrare Cristo rende i tessalonicesi sicuri dinanzi al giudizio finale (cfr 1Ts 1,10), riservato invece agli uccisori di Cristo (cfr 1Ts 2,16): i credenti saranno «irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,23). Questa certezza risolve il problema di quei fedeli che si preoccupavano per coloro che erano già morti. Alla parusia – si chiedevano – i morti potranno godere dell’incontro con il Signore? I viventi – risponde Paolo – non avranno alcun vantaggio in quel giorno rispetto ai già defunti (cfr 1Ts 4,15). Alla venuta finale ci sarà la risurrezione di quelli che sono di Cristo (cfr 1Cor 15,23). Ambedue gli eventi, parusia e risurrezione, costituiranno il compimento (télos) della storia. Questo comporterà anche l’annientamento di ogni negatività (principato, potestà, potenza, morte) e la consegna del regno al Padre (cfr 1Cor 15,24). La parusia pertanto può essere descritta come lo svelamento definitivo di una storia salvifica del singolo, dei popoli e del mondo al momento della venuta gloriosa di Gesù Cristo. Allora avrà compimento l’intero sviluppo della storia. È corretto allora parlare di «escatologia realizzata»? L’escatologia non è solo quella finale, ma inizia con la venuta sulla terra del Figlio di Dio che dà «pienezza» al tempo (Gal 4,4) e inaugura il regno definito «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). È possibile già oggi vivere la koinonia (comunione) che caratterizza l’autentica vita cristiana. Il credente partecipe «della potenza della risurrezione» (Fil 3,10) diviene  «nuova creatura» (2Cor 5,17; cfr Rm 6,4; 7,6) vivendo ogni giorno in Cristo (Fil 1,21), finchè «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). È questa la «caparra» (2Cor 1,22; 5,5) e la primizia (1Cor 15,23) ricevuta dal cristiano nel tempo dell’«escatologia che si realizza» o del «già e non ancora». Questa certezza rende spedito e gioioso il cammino verso il futuro. «Niente e nessuno può togliermi l’amore di Cristo. È certezza di Paolo. Noi possiamo perderlo. Lui non ci perde mai. È questo il Patto sottoscritto con il Sangue della Croce. Un patto per sempre. Il che vuol dire che se lo perdiamo lo possiamo ritrovare. Egli viene sempre all’appuntamento. Per questo la fede diventa ogni giorno, dovunque e in ogni circostanza, speranza. Poter ricominciare senza aver mai finito di incontrarlo» (G. Pattaro).

 

MOSES LOOKING OVER THE PROMISED LAND

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Publié dans:immagini sacre |on 7 juin, 2016 |Pas de commentaires »

LA MISTICA DI SAN PAOLO CONTRO LA CULTURA DEL DIAVOLO

http://www.cesnur.org/2012/mistica.htm

LA MISTICA DI SAN PAOLO CONTRO LA CULTURA DEL DIAVOLO

di Massimo Introvigne

All’udienza generale del 13 giugno 2012, continuando nella sua «scuola della preghiera» dedicata a san Paolo, Benedetto XVI ha commentato l’esperienza narrata nel  capitolo 12 della Seconda Lettera ai Corinzi, una delle due esperienze fondamentali che segnano tutta la vita dell’Apostolo insieme a quella del primo incontro con il  Signore sulla via di Damasco. Si tratta dell’esperienza sconvogemente del rapimento in Cielo. Nella Seconda Lettera ai Corinzi,  «di fronte a chi contestava la legittimità del suo apostolato, egli non elenca tanto le comunità che ha fondato, i chilometri che ha percorso; non si limita a ricordare le difficoltà e le opposizioni che ha affrontato per annunciare il Vangelo, ma indica il suo rapporto con il Signore, un rapporto così intenso da essere caratterizzato anche da momenti di estasi».  San Paolo dunque ricorda che, quattordici anni prima dall’invio della Lettera, «fu rapito – così dice – fino al terzo cielo» (v. 2), fino al «giardino» stesso di Dio. «Con il linguaggio e i modi di chi racconta ciò che non si può raccontare», san Paolo afferma che l’evento è stato talmente sconvolgente che egli «non ricorda neppure i contenuti della rivelazione ricevuta, ma ha ben presenti la data e le circostanze in cui il Signore lo ha afferrato in modo così totale, lo ha attirato a sé, come aveva fatto sulla strada di Damasco al momento della sua conversione». Il Papa ha dedicato la sua catechesi soprattutto a un dettaglio del racconto. San Paolo avrebbe potuto insuperbirsi dopo una tale esperienza. Perché questo non accada, egli porta nella sua carne  una «spina» (2 Cor 12,7), e per tre volte ha supplicato il Signore di esserne liberato. Alla fine, in una contemplazione nella quale «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare» (v. 4),  il Signore si è manifestato e ha risposto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (v. 9). Con un commento che, nota il Pontefice, «può lasciare stupiti», nel riferire questo episodio ai Corinzi l’Apostolo aggiunge: «Mi vanterò quindi ben volentieri  delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (vv. 9b-10). Qui vi è qualcosa di «fondamentale anche per la nostra preghiera e per la nostra vita, per la nostra relazione a Dio e alle nostre debolezze». Benché si siano fatte varie speculazioni, che cosa fosse davvero questa «spina» nella carne noi «non lo sappiamo e [san Paolo] non lo dice». Quello che invece sappiamo con certezza è che «ogni difficoltà nella sequela di Cristo e nella testimonianza del suo Vangelo può essere superata aprendosi con fiducia all’azione del Signore». Non superata attraverso una nostra presunta forza. Al contrario, «nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza». Certo, «Paolo avrebbe preferito essere liberato da questa « spina », da questa sofferenza; ma Dio dice: « No, questo è necessario per te. Avrai sufficiente grazia per resistere e per fare quanto deve essere fatto »». E  «questo vale anche per noi. Il Signore non ci libera dai mali, ma ci aiuta a maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni». Come spiega lo stesso testo della Seconda Lettera ai Corinzi, quando ci affidiamo a Dio, «se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ci sono tante difficoltà, quello interiore invece si rinnova, matura di giorno in giorno proprio nelle prove» (cfr v. 16). L’Apostolo ci assicura che «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (v. 17). Non dobbiamo però credere che si trattasse solo di piccole difficoltà: «umanamente parlando, non era leggero il peso delle difficoltà, era gravissimo; ma in confronto con l’amore di Dio, con la grandezza dell’essere amato da Dio, appare leggero».  È l’umiltà la chiave di tutto: «non è la potenza dei nostri mezzi, delle nostre virtù, delle nostre capacità che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico. Dobbiamo, quindi, avere l’umiltà di non confidare semplicemente in noi stessi, ma di lavorare, con l’aiuto del Signore, nella vigna del Signore, affidandoci a Lui come fragili « vasi di creta »». Questo episodio relativo a san Paolo sembra riguardare solo lui – chi infatti potrebbe essere rapito fino al Terzo Cielo? -, ma invece riguarda tutti noi e trova il suo posto logico in una «scuola della preghiera» come quella che il Papa sta proponendo. «Nella preghiera noi apriamo, quindi, il nostro animo al Signore affinché Egli venga ad abitare la nostra debolezza, trasformandola in forza per il Vangelo». San Paolo, per indicare la presenza di Dio in lui, usa il vero greco «episkenoo», letteralmente «porre la propria tenda». Sì, «il Signore continua a porre la sua tenda in noi, in mezzo a noi: è il Mistero dell’Incarnazione. Lo stesso Verbo divino, che è venuto a dimorare nella nostra umanità, vuole abitare in noi, piantare in noi la sua tenda, per illuminare e trasformare la nostra vita e il mondo». L’esperienza di San Paolo, parallela a quella degli Apostoli nella Trasfigurazione, c mostra che «contemplare il Signore è, allo stesso tempo, affascinante e tremendo: affascinante perché Egli ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore; tremendo perché mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra carne». Il richiamo del Pontefice alla presenza del Maligno richiama quello, parallelo, nella «lectio divina» sul Battesimo dello scorso 11 giugno in San Giovanni in Laterano, per il Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma. Qui il Papa aveva detto che i riferimenti nel rito del Battesimo a Satana non sono semplici metafore. Alludono a «una certa creatura che è dominante e si impone come se fosse questo il mondo, e come se fosse questo il modo di vivere che si impone». C’è una vera e propria cultura del Diavolo, una «cultura del male», spesso «dominante», una «cultura alla quale diciamo « no ». Essere battezzati significa proprio sostanzialmente un emanciparsi, un liberarsi da questa cultura. Conosciamo anche oggi un tipo di cultura in cui non conta la verità; anche se apparentemente si vuol fare apparire tutta la verità, conta solo la sensazione e lo spirito di calunnia e di distruzione. Una cultura che non cerca il bene, il cui moralismo è, in realtà, una maschera per confondere, creare confusione e distruzione. Contro questa cultura, in cui la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione, contro questa cultura che cerca solo il benessere materiale e nega Dio, diciamo « no »». Ma nella preghiera, ha spiegato all’udienza del 13 giugno, sconfiggere questa «cultura del male» diventa possibile. «In un mondo in cui rischiamo di confidare solamente sull’efficienza e la potenza dei mezzi umani, in questo mondo siamo chiamati a riscoprire e testimoniare la potenza di Dio che si comunica nella preghiera». Benedetto XVI ha voluto ricordare le parole del celebre teologo e missionario protestante Albert Schweitzer (1875-1965), secondo cui «Paolo è un mistico e nient’altro che un mistico». San Paolo è l’uomo che è stato rapito fino al giardino stesso di Dio. Ma nello stesso tempo «la mistica non lo ha allontanato dalla realtà, al contrario gli ha dato la forza di vivere ogni giorno per Cristo e di costruire la Chiesa fino alla fine del mondo di quel tempo. L’unione con Dio non allontana dal mondo, ma ci dà la forza di rimanere realmente nel modo, di fare quanto si deve fare nel mondo». Questo vale anche nei momenti di aridità spirituale, e qui il Papa ha richiamato la beata Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), che «nella contemplazione di Gesù e proprio anche in tempi di lunga aridità trovava la ragione ultima e la forza incredibile per riconoscerlo nei poveri e negli abbandonati, nonostante la sua fragile figura. La contemplazione di Cristo nella nostra vita non ci estranea – come ho già detto – dalla realtà, bensì ci rende ancora più partecipi delle vicende umane, perché il Signore, attirandoci a sé nella preghiera, ci permette di farci presenti e prossimi ad ogni fratello nel suo amore».

Publié dans:MISTICA IN SAN PAOLO |on 7 juin, 2016 |Pas de commentaires »
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