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TEMA 16. CREDO NELLA RISURREZIONE DELLA CARNE E NELLA VITA ETERNA

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TEMA 16. CREDO NELLA RISURREZIONE DELLA CARNE E NELLA VITA ETERNA

Questa verità afferma la pienezza della vita immortale alla quale è destinato l’uomo. Ci ricorda la dignità della persona, e in particolare del suo corpo.

1. La risurrezione della carne La Chiesa ha avuto molte occasioni per proclamare la sua fede nella risurrezione di tutti i morti alla fine dei tempi. Si tratta in qualche modo della “estensione” della Risurrezione di Cristo, «il primogenito tra molti fratelli» ( Rm 8, 29) a tutti gli uomini, vivi e morti, giusti e peccatori, che avrà luogo quando Egli verrà alla fine dei tempi. Con la morte l’anima si separa dal corpo; con la risurrezione corpo e anima si ricongiungono, e per sempre (cfr. Catechismo , 997). Il dogma della risurrezione dei morti, mentre parla della pienezza della immortalità alla quale è destinato l’uomo, ci ricorda la sua grande dignità, anche del suo corpo. Ci parla della bontà del mondo, del corpo, del valore della storia vissuta giorno dopo giorno, della vocazione eterna della materia. Per questo, contro gli gnostici del II secolo, si è parlato della risurrezione della carne , vale a dire della vita dell’uomo nel suo aspetto più materiale, temporale, mutevole e apparentemente caduco. San Tommaso d’Aquino pensa che la dottrina sulla risurrezione è naturale in ciò che riguarda la causa finale (perché l’anima è fatta per stare unita al corpo, e viceversa), però è soprannaturale in ciò che riguarda la causa efficiente (che è Dio) [1] . Il corpo risuscitato sarà reale e materiale; però non terreno, né mortale. San Paolo si oppone all’idea di una risurrezione come trasformazione che avviene all’interno della storia umana, e parla del corpo risuscitato come “glorioso” (cfr. Fil 3, 21) e “spirituale” (cfr. 1 Cor 15, 44). La risurrezione dell’uomo, come quella di Cristo, avverrà, per tutti, dopo essere morti. La Chiesa non promette agli uomini, in nome della fede cristiana, una vita di successo su questa terra; non ci sarà un mondo utopico , perché la nostra vita terrena sarà sempre segnata dalla Croce. Allo stesso tempo, avendo ricevuto il Battesimo e l’Eucaristia, il processo della risurrezione è già cominciato in qualche modo (cfr. Catechismo, 1000). Secondo San Tommaso, nella risurrezione l’anima informerà il corpo così profondamente che in esso saranno riflesse le sue qualità morali e spirituali [2] . In questo senso la risurrezione finale, che avrà luogo con la venuta di Gesù Cristo nella gloria, renderà possibile il giudizio definitivo dei vivi e dei morti. Riguardo alla dottrina della risurrezione, si possono aggiungere quattro riflessioni: – la dottrina della risurrezione finale esclude le teorie della reincarnazione , secondo le quali l’anima umana, dopo la morte, emigra verso un altro corpo, ripetute volte se occorre, fino a rimanere definitivamente purificata. A tal riguardo il Concilio Vaticano II ha parlato de «l’unico corso della nostra vita» [3] , perché «è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta» (Eb 9, 27); – una manifestazione chiara della fede della Chiesa nella risurrezione dei corpi è la venerazione delle reliquie dei Santi; – anche se la cremazione delle salme non è illecita, a meno che non sia fatta per motivi contrari alla fede (CIC, 1176), la Chiesa consiglia vivamente di conservare la pietosa consuetudine di seppellire i morti. Infatti, «i corpi dei defunti devono essere trattati con rispetto e carità nella fede e nella speranza della risurrezione. La sepoltura dei morti è un’opera di misericordia corporale; rende onore ai figli di Dio, tempi dello Spirito Santo» ( Catechismo , 2300);

- la risurrezione dei morti concorda con quello che la Sacra Scrittura chiama la venuta dei «nuovi cieli e una terra nuova» ( Catechismo , 1042; 2 Pt 3, 13; Ap 21, 1). Non solo l’uomo raggiungerà la gloria, ma l’intero universo, in cui l’uomo vive e agisce, sarà trasformato. «La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità – leggiamo nella Lumen Gentium (n. 48) –, non avrà il suo compimento se non nella gloria del cielo, “quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose” ( At 3, 21), e quando col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo». Certamente ci sarà una certa continuità tra questo mondo e il mondo nuovo, ma anche una grande discontinuità. L’attesa della definitiva instaurazione del Regno di Cristo non deve indebolire, bensì ravvivare per la virtù teologale della speranza, l’impegno per promuovere il progresso di questo mondo (cfr. Catechismo , 1049).

2. Il senso cristiano della morte L’enigma della morte dell’uomo si comprende soltanto alla luce della risurrezione di Cristo. Infatti la morte, la perdita della vita umana, si presenta come il male più grande nell’ordine naturale, proprio perché è qualcosa di definitivo, che sarà superato in modo completo solo quando Dio risusciterà gli uomini in Cristo. Per un certo verso, la morte è naturale nel senso che l’anima si può separare dal corpo. Da questo punto di vista la morte segna il termine del pellegrinaggio terreno. Dopo la morte l’uomo non può più meritare o demeritare. «Con la morte, la scelta di vita fatta dall’uomo diventa definitiva» [4] . Non avrà più la possibilità di pentirsi. Subito dopo la morte andrà in paradiso, all’inferno o in purgatorio. Per questo, c’è ciò che la Chiesa chiama il giudizio particolare (cfr. Catechismo , 1021-1022). Il fatto che la morte segna il termine del suo periodo di prova serve all’uomo per indirizzare la propria vita, per utilizzare bene il tempo e gli altri talenti, per comportarsi con rettitudine, per spendersi nel servizio agli altri. La Scrittura insegna che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato originale (cfr. Gn 3, 17-19; Sap 1, 13-14; 2, 23-24; Rm 5, 12; 6, 23; Gc 1, 15; Catechismo , 1007). Pertanto dev’essere considerata come un castigo: l’uomo che voleva vivere facendo a meno di Dio, deve accettare il dolore della rottura con la società e con se stesso come frutto del suo allontanamento. Tuttavia Cristo «assunse [la morte] in un atto di totale e libera sottomissione alla Volontà del Padre suo» ( Catechismo , 1009). Con la sua obbedienza vinse la morte e ottenne la risurrezione per l’umanità. Per chi vive in Cristo grazie al battesimo, la morte continua ad essere dolorosa e ripugnante, però non è più una conseguenza del peccato, ma una preziosa possibilità di essere corredentori con Cristo, mediante la mortificazione e la donazione agli altri. «Se moriamo con Lui, vivremo anche con Lui» (2 Tm 2, 11). Per questa ragione, «grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo» ( Catechismo , 1010).

3. La vita eterna nella comunione intima con Dio Nel creare e redimere l’uomo, Dio lo ha destinato all’eterna comunione con Lui, a quella che san Giovanni chiama la “vita eterna” o a quello che si suole chiamare “il paradiso”. Così Gesù comunica ai suoi la promessa del Padre: «Bene, servo buono e fedele […], sei stato fedele nel poco […], prendi parte alla gioia del tuo padrone» ( Mt 25, 21). La vita eterna non è «un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia» [5] . La vita eterna è ciò che dà un senso alla vita umana, all’impegno etico, alla donazione generosa, al servizio abnegato, allo sforzo per comunicare la dottrina e l’amore di Cristo a tutte le anime. La speranza cristiana nel cielo non è individualistica, ma si riferisce a tutti [6] . In base a questa promessa il cristiano può essere fermamente convinto che “vale la pena” vivere pienamente la vita cristiana. «Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva» ( Catechismo , 1024); così ne parla sant’Agostino nelle Confessioni : «Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te» [7] . La vita eterna, in definitiva, è l’oggetto principale della speranza cristiana. «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono “così come Egli è” ( 1 Gv 3, 2), “faccia a faccia” ( 1 Cor 13, 12)» ( Catechismo , 1023). La teologia ha denominato questo stato “visione beatifica”. «A motivo della sua trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando Egli stesso apre il suo Mistero alla contemplazione immediata dell’uomo e gliene dona la capacità» ( Catechismo , 1028). Il paradiso è la massima espressione della grazia divina. D’altra parte il paradiso non consiste in una pura, astratta e immobile contemplazione della Trinità. In Dio l’uomo potrà contemplare tutte le cose che in qualche modo si riferiscono alla sua vita, godendo di esse, e in particolare potrà amare quelli che ha amato nel mondo con un amore puro e perpetuo. «Non dimenticatelo mai: dopo la morte vi accoglierà l’Amore. E nell’amore di Dio ritroverete tutti gli amori limpidi che avete avuto sulla terra» [8] . Il godimento del paradiso raggiunge il culmine pieno con la risurrezione dei morti. Secondo sant’Agostino, la vita eterna consiste in un riposo eterno e in una deliziosa e suprema attività [9] . Che il paradiso duri eternamente non vuol dire che là l’uomo non è più libero. Nel cielo l’uomo non pecca, non può peccare, perché, vedendo Dio faccia a faccia, vedendolo fra l’altro come sorgente viva di tutta la bontà creata, in realtà non vuole peccare. Liberamente e filialmente, l’uomo salvato resterà in comunione con Dio per sempre. Con ciò, la sua libertà ha raggiunto la sua piena realizzazione. La vita eterna è il frutto definitivo della donazione divina all’uomo. Per questo ha qualcosa di infinito. Tuttavia la grazia divina non elimina la natura umana, né nel suo essere né nelle sue facoltà, né la sua personalità, né quello che ha meritato durante la vita. Per questo c’è distinzione e diversità fra quelli che godono della visione di Dio, non in quanto all’oggetto, che è Dio stesso, contemplato senza intermediari, ma in quanto alla qualità del soggetto: «chi ha più carità partecipa di più della luce della gloria, e più perfettamente vedrà Dio e sarà felice» [10] .

4. L’inferno come rifiuto definitivo di Dio Molte volte la Sacra Scrittura dice che gli uomini che non si pentono dei loro peccati perderanno il premio eterno della comunione con Dio, e finiranno invece nella dannazione eterna. «Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da Lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (Catechismo, 1033). Questo non vuol dire che Dio abbia predestinato alcuni alla condanna eterna; è l’uomo stesso che, cercando il suo fine ultimo al di fuori di Dio e della sua volontà, costruisce per sé un mondo a parte nel quale non può entrare la luce e l’amore di Dio. L’inferno è un mistero, il mistero dell’Amore respinto, e sta anche a indicare quale sia il potere distruttore della libertà umana quando si allontana da Dio [11] . È tradizionale distinguere, per ciò che riguarda l’inferno, tra la “pena di danno”, la più fondamentale e dolorosa, che consiste nella separazione perpetua da Dio, sempre anelato dal cuore dell’uomo, e la “pena dei sensi”, alla quale si allude spesso nei Vangeli con l’immagine del fuoco eterno. La dottrina sull’inferno è presentata nel Nuovo Testamento come un richiamo alla responsabilità nell’uso dei doni e dei talenti ricevuti, e alla conversione. La sua esistenza fa intravedere all’uomo la gravità del peccato mortale, e la necessità di evitarlo con tutti i mezzi, sopratutto, com’è logico, mediante la preghiera fiduciosa e umile. La possibilità della condanna richiama ai cristiani la necessità di vivere una vita interamente apostolica. Indubbiamente l’esistenza dell’inferno è un mistero: il mistero della giustizia di Dio nei confronti di quelli che si chiudono al suo perdono misericordioso. Alcuni autori hanno pensato alla possibilità dell’annichilimento del peccatore impenitente al momento della morte. Questa teoria è difficile da conciliare con il fatto che Dio ha dato per amore l’esistenza – spirituale e immortale – a ogni uomo [12] .

5. La purificazione necessaria per l’incontro con Dio «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo» ( Catechismo , 1030). Si può pensare che molti uomini, pur non avendo vissuto una vita santa sulla terra, non si siano neppure chiusi definitivamente nel peccato. La possibilità, dopo la morte, di essere mondati dalle impurità e dalle imperfezioni di una vita più o meno vissuta male si presenta allora come ulteriore manifestazione della bontà di Dio, come la necessaria preparazione per entrare in intima comunione con la santità di Dio. «Il purgatorio è una misericordia di Dio, per purificare i difetti di quanti vogliono identificarsi con Lui» [13] . Anche l’Antico Testamento parla della purificazione ultraterrena (cfr. 2 Mac 12, 40-45). Nella prima lettera ai Corinzi ( 1 Cor 3, 10-15) san Paolo presenta la purificazione cristiana, in questa vita e in quella futura, attraverso l’immagine del fuoco; un fuoco che in qualche modo emana da Gesù Cristo, Salvatore, Giudice e Fondamento della vita cristiana [14] . Anche se la dottrina del purgatorio non è stata definita formalmente fino all’Età Media [15] , l’antichissima e unanime pratica di offrire suffragi per i defunti, specialmente mediante il Sacrificio eucaristico, è un chiaro indizio della fede della Chiesa nella purificazione ultraterrena. Infatti non avrebbe senso pregare per i defunti se si trovassero o salvati nel cielo o condannati nell’inferno. La maggioranza dei protestanti nega l’esistenza del purgatorio, perché la ritengono frutto di una fiducia eccessiva nelle opere umane e nella capacità della Chiesa di intercedere per quelli che hanno lasciato questo mondo. Più che un luogo , il purgatorio deve essere considerato uno stato di temporanea e dolorosa lontananza da Dio, nel quale si perdonano i peccati veniali, si purifica l’inclinazione al male che il peccato lascia nell’anima e si soddisfa la “pena temporale” dovuta al peccato. Il peccato non solo offende Dio e danneggia lo stesso peccatore, ma, mediante la comunione dei santi, danneggia la Chiesa, il mondo, l’umanità. La preghiera della Chiesa per i defunti ristabilisce in qualche modo l’ordine e la giustizia: soprattutto per mezzo della Santa Messa, delle elemosine, delle indulgenze e delle opere di penitenza (cfr. Catechismo, 1032). I teologi insegnano che nel purgatorio si soffre molto, a seconda della situazione di ciascuno. Tuttavia si tratta di un dolore che ha un significato, di «un dolore beato» [16] . Per questo i cristiani sono invitati a cercare la purificazione dei peccati nella vita presente mediante la contrizione, la mortificazione, la riparazione e la vita santa.

6. I bambini che muoiono senza il Battesimo La Chiesa affida alla misericordia di Dio i bambini morti senza aver ricevuto il Battesimo. C’è motivo di pensare che Dio in qualche modo li accoglie, sia per il grande affetto dimostrato da Gesù verso i bambini (cfr. Mc 10, 14), sia perché ha inviato suo Figlio col desiderio che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm 2, 4). Allo stesso tempo, il fatto di confidare nella misericordia di Dio non è una ragione sufficiente per rinviare l’amministrazione del Sacramento del Battesimo ai bambini appena nati (CIC 867), che conferisce una particolare configurazione con Cristo: «significa e opera la morte al peccato e l’ingresso nella vita della Santissima Trinità attraverso la configurazione al Mistero pasquale di Cristo» ( Catechismo , 1239).

Paul O’Callaghan

Bibliografia di base Catechismo della Chiesa Cattolica , 988-1050.

Letture raccomandate

Giovanni Paolo II, Catechesi sul Credo: Credo nella vita eterna , Udienze generali dal 26-V-1999 al 4-VIII-1999, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXII, 1 e 2, Libreria Editrice Vaticana.

Benedetto XVI, Enc. Spe salvi , 30-XI-2007.

San Josemaría, Omelia La speranza del cristiano , Amici di Dio, 205-221.

NOTE – SONO MOLTE, SUL SITO

Publié dans:CREDO (TEMI DEL) |on 16 juin, 2016 |Pas de commentaires »

19 GIUGNO 2016 | 12A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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19 GIUGNO 2016 | 12A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Guarderanno a Colui che hanno trafitto » C’è un palese collegamento fra la prima e la terza lettura della presente Domenica, ambedue incentrate sul « mistero » del Cristo in quanto « segno di contraddizione », che gli altri emarginano e mettono al bando perché costituisce per tutti come la coscienza critica della falsità dei sentimenti e dei pensieri del cuore: « Perché siano svelati i pensieri di molti cuori », già preannunciava di lui il vecchio Simeone (Lc 2,35). La seconda lettura, proseguendo la proclamazione della lettera ai Galati, ci ricorda che in Cristo, e precisamente nel Cristo crocifisso, sono state abolite tutte le discriminazioni ed è stata restituita agli uomini l’unica e identica dignità di « figli di Dio »: « Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo » (Gal 3,28). È certo che l’uomo continuerà a essere uomo e la donna continuerà a essere donna: ma ognuno guarderà all’altro con occhio diverso, perché la « rinascita » in Cristo per il Battesimo, o meglio, come dice Paolo, il « rivestirci » di lui (v. 27), fa di tutti noi delle « creature nuove », eredi della stessa « promessa » (v. 29). Pur essendo tentati fortemente da questo discorso così stimolante e attuale di Paolo, concentreremo la nostra attenzione sulla prima e terza lettura per una certa rassomiglianza di contenuto, come già abbiamo accennato.

« Riverserò sopra la casa di Davide uno spirito di grazia e di consolazione » Incominciamo dal difficile brano del profeta Zaccaria (12,10-11). Questi versetti fanno parte di un oracolo più ampio che va da 12,9 a 13,1, in cui viene annunciata la rigenerazione spirituale ed escatologica della nazione, composta dalla casa di Davide e dagli abitanti di Gerusalemme. In contrapposizione alle nazioni pagane che verranno distrutte (v. 9), Dio promette una particolare « effusione » di amore e di benevolenza verso il suo popolo: « Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo » (Zc 12,10-11). L’oracolo profetico annuncia dunque che, mediante l’effusione dello « spirito di grazia e di consolazione » che viene da Jahvèh, Gerusalemme si convertirà e « guarderà » con atteggiamento spirituale diverso a un misterioso personaggio, che essa ha contribuito a sopprimere violentemente: « Guarderanno a colui che hanno trafitto » (v. 10). « Per identificare chi sia questo personaggio sconosciuto, è necessario tenere presente il contesto immediato, dal quale risulta, prima di tutto, che il pianto fatto sopra di lui è frutto dello spirito, come lo sguardo verso Jahvèh. Non si piange soltanto perché si tratta di un individuo caro e importante per la comunità, ma perché offeso e oltraggiato. Si tratta di un pianto di pentimento e di conversione. Questo personaggio si trova, dunque, nella stessa linea di Jahvèh, è qualcuno che si identifica con lui e lo rappresenta. Si potrebbe pensare al buon pastore di 11,4-14, impersonato dal profeta. Ma siccome c’è di mezzo il fatto della sua morte, il riferimento più vicino è quello del servo paziente di Jahvèh di Is 52,13-53,12. Per mezzo della sua morte Jahvèh opera la salvezza della nazione, la vittoria contro i popoli vicini, dona lo spirito e fa zampillare la perenne sorgente di purificazione (cf 13,1). Vanno perciò escluse tutte quelle interpretazioni che identificano questo grande anonimo o con una collettività (per es. la tribù beniaminita), o con i deportati pianti da Rachele, o con un individuo autorevole, mandato ingiustamente alla morte, come Zaccaria, figlio di Joiada, o perito tragicamente, come Giosia. In tutti questi casi, manca infatti la circostanza della natura penitenziale del pianto ». Un « pianto », quello che si farà in Gerusalemme per il « trafitto », che assume contorni di carattere « rituale », come sembra suggerire il versetto conclusivo: « In quel giorno si leverà un gran pianto in Gerusalemme, come quello di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo ». Forse si allude qui a una liturgia funebre in onore del Baal cananeo, conosciuto anche dai Giudei col doppio nome di Adad-Rimmon: dio della vegetazione, si riteneva che morisse alla fine dei raccolti per rivivere al ritorno delle piogge. Il suo culto doveva avere particolare rilevanza a Meghiddo, nella pianura fertile di Jezreel. Il riferimento al mito di Baal che muore, viene pianto e risuscita, evocava facilmente la figura del Servo sofferente di Jahvèh che, dopo la sua morte, avrà lui pure successo e « vedrà la luce » (Is 53,11). Proprio per questo Giovanni vede nel nostro passo una profezia della passione del Signore (19,37). Anche per esprimere lo stupore dei popoli davanti al Cristo, che ritornerà quale giudice escatologico, si farà riferimento al testo di Zaccaria: « Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà: anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno il petto » (Ap 1,7). Tutta la forza del testo, sia nel brano profetico originale sia nella rilettura che ne fa il quarto Evangelista, sta dunque nella scoperta veramente « sorprendente » che il misterioso personaggio che gli uomini hanno « trafitto », volendo disfarsene, in realtà è Colui che li salva e nello stesso tempo li giudica: « Qualcuno », dunque, a cui è appeso il nostro destino e che solo con occhi diversi, cioè illuminati dalla « fede », possiamo riconoscere come tale.

« Chi sono io secondo la gente? » Su questa tematica si muove, più o meno, il brano di Vangelo che ci riferisce, nella relazione lucana (9,18-24), la famosa confessione di Pietro a Cesarea di Filippo. Anche qui, infatti, ritroviamo una profonda divergenza di pareri riguardo a Cristo, la necessità di una « grazia » particolare per scoprirlo nel suo mistero, che è soprattutto mistero di sofferenza e di reiezione da parte degli uomini, precisamente come per il « trafitto » di Zaccaria. Vorrei prima far notare alcune « particolarità » del racconto di Luca, che influiscono sulla sua più completa interpretazione. Solo Luca ci dice che Gesù, prima di chiedere ai suoi Apostoli che cosa pensasse la gente di lui, si era ritirato « in un luogo appartato a pregare » (v. 18). Sappiamo che il terzo Evangelista collega volutamente certi momenti decisivi della missione di Cristo con la « preghiera »: è nella preghiera che egli riceve l’investitura dello Spirito nel Battesimo (3,21); è dopo aver pregato che egli sceglie i Dodici (6,12), ecc. Questo particolare sottolinea dunque l’importanza della richiesta di Gesù ai suoi: « Chi sono io secondo la gente? » (v. 18), ma anche la necessità, per la fede, di fiorire sul ramo della preghiera. La teologia ci ha abituati a considerare la fede quasi come una deduzione raziocinante e non ci ha aiutato sufficientemente a sentirla e a viverla come puro « dono » (cf Fil 1,29), e perciò bisognosa di essere sempre da capo ottenuta da Dio. Con il suo atteggiamento Gesù ci insegna ad aprirci alla fede con il cuore e la mente in ginocchio e in adorazione! Tenendo presente tutto questo, credo che sia più facile comprendere il senso globale dell’odierno brano del Vangelo: Cristo stesso si pone come « interrogativo » agli uomini del suo tempo e di tutti i tempi, perfino a quelli che gli sono più vicini come gli Apostoli, i quali neppure hanno penetrato fino in fondo il suo mistero. Anche la risposta di Pietro, infatti, che lo proclama « il Cristo di Dio » (v. 20), non esaurisce il suo mistero; ne è solo una parte, che ha bisogno di essere integrata con altri elementi e altre esperienze che verranno più tardi. È per questo che Gesù « ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno » (v. 21). Per conto proprio, egli aiuta i suoi Apostoli a conoscerlo più a fondo, rivelandosi spontaneamente come « il Figlio dell’uomo », che « deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte » (v. 22). Non era certo facile congiungere la fede nel « Cristo di Dio » glorioso, crede delle promesse fatte a Davide, con la fede nel « Figlio dell’uomo » riprovato dai capi del suo stesso popolo, anche se si preannuncia la gloria della sua risurrezione per « il terzo giorno » (v. 22): tutto questo era, comunque, da verificare!

« Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce ogni giorno » In questo processo di « purificazione » della fede dei suoi Apostoli Gesù va più avanti quando immediatamente li coinvolge nel suo stesso destino di passione, quasi a dire che non si può confessare Gesù come « Messia », senza percorrere la via stessa che egli ha percorso, che è via di umiliazione e di sofferenza: « Poi a tutti diceva: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà »" (vv. 23-24). È importante l’annotazione iniziale: « Poi a tutti diceva ». È indubbiamente una formula di transizione, che però presuppone altri destinatari, oltre ai Dodici che sono già presupposti dal testo: sono « tutti » i cristiani, per i quali Luca scrive il suo Vangelo, dunque anche noi. Orbene, a « tutti » egli ricorda che fa parte della nostra professione di fede il « seguire » Cristo per la via della croce. Forse per farci perdere il senso di asprezza e di ripugnanza davanti a simile prospettiva, egli solo aggiunge che questo è compito di « ogni giorno »; davanti a ciò che è, o può diventare, « quotidiano » ci si arrende più facilmente! Oltre a questo, però, credo che il riferimento alla « quotidianità » della croce voglia dire un’altra cosa: non c’è bisogno di andare noi incontro alla croce, perché è essa stessa che ci viene incontro nella misura in cui vogliamo rimanere fedeli alle esigenze del Vangelo. Il Vangelo stesso ci crocifigge per tutto quello che ci offre e per tutto quello che ci chiede: ma solo così potremo « salvarci », cioè « perdendoci ». Se il Cristo non avesse accettato la crocifissione, non sarebbe risorto dai morti: ha ritrovato la vita perché l’ha perduta! Tutto questo non è facile da accettare, soprattutto quando c’è bisogno di trasferirlo alla nostra vita. Proprio per questo incessantemente dobbiamo chiedere quello « spirito di grazia e di consolazione, di cui ci parlava Zaccaria (12,10), per saper « riguardare » con occhio diverso, cioè di fede, Colui che è stato « trafitto » prima di noi e per tutti noi.

Settimio CIPRIANI  (+)

CALLED BY CHRIST

CALLED BY CHRIST dans immagini sacre

http://stmarymysticalrose.org/the-twelve-apostles

Publié dans:immagini sacre |on 14 juin, 2016 |Pas de commentaires »

CATECHESI DI BENEDETTO XVI – GLI APOSTOLI, COLLABORATORI DI CRISTO

http://www.stpauls.it/coopera/0901cp/0901cp05.htm

CATECHESI DI BENEDETTO XVI – GLI APOSTOLI, COLLABORATORI DI CRISTO  

 a cura di OLINTO CRESPI

Nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto, ha ricordato il Papa nell’Udienza generale di mercoledì 10 settembre, Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo.   «Cari fratelli e sorelle quell’incontro segnò l’inizio della missione di Paolo: egli non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. È proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro « che erano stati apostoli prima » di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come apostolo in senso stretto…

Le caratteristiche dell’apostolo Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra « i Dodici » e « tutti gli apostoli », menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come « l’infimo degli apostoli », paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: « Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me » (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: « Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio » (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere « visto il Signore » (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui. La seconda caratteristica è di « essere stati inviati ». Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto « inviato, mandato », cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce « apostolo di Gesù Cristo » (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche « servo di Gesù Cristo » (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale. Il terzo requisito è l’esercizio dell’ »annuncio del Vangelo », con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di « apostolo », infatti impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: « Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? » (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: « La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente » (3,2-3).

Identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di « un’anima di diamante » (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: « Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più…, così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale » (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come « collaboratori di Dio » (1Cor 3,9; 2Cor 6, 1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia « scandalo e stoltezza » (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire « scandalo e stoltezza », partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: « Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi » (1 Cor 4,9-13). È un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.

L’amore di Cristo Paolo, peraltro, supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore » (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana. Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, « per salvare ad ogni costo qualcuno » (1 Cor 9,22). Ancora: « Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia » (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia>>.

L’APOSTOLO SOFFRE A VANTAGGIO DELLA CHIESA E RIVELA IL MISTERO (COL 1,21-29)

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L’APOSTOLO SOFFRE A VANTAGGIO DELLA CHIESA E RIVELA IL MISTERO (COL 1,21-29)

Sebastiano Pinto

Ci si sofferma sulla portata teologica della sofferenza di Cristo e, di rimando, delle tribolazioni dell’Apostolo, cercando di cogliere l’importanza della morte di Cristo «nella carne» e del ministero dell’annunciatore come sacrificio a favore della Chiesa.

Introduzione Dopo l’inno iniziale che canta il primato universale di Cristo (1,12-20) i versetti finali del primo capitolo della lettera ai Colossesi sottolineano la ricaduta comunitaria di quest’opera di riconciliazione (vv. 21-29). Soffermeremo la nostra attenzione su due temi principali: la carnalità della morte di Cristo che giustifica il nesso fede-redenzione additato alla comunità dall’Apostolo (vv. 21-23), e il ruolo e l’esperienza diretta di Paolo a favore dell’annuncio del Vangelo, con la sottolineatura del rapporto singolare che intercorre tra il sacrificio di Cristo e quello del cristiano (vv. 24-29).

La carne di Cristo e l’unicità della redenzione 21 Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; 22 ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui (1,21-22). La contrapposizione tra il passato vissuto nell’ignoranza o nell’errore e il presente che è carico di verità e coscienza, è quasi un leitmotiv nella letteratura battesimale del Nuovo Testamento e in particolare paolina (1Cor 6,9-11; Rm 6,17-22; Col 2,13-14; 3,5-8; Ef 2,1-10.11-12; 1Pt 1,14-16; 2,10). Questa opposizione si fondava sulla comune considerazione che i costumi pagani erano perversi, frutto di non piena consapevolezza, e che il momento presente, quello della fede cristiana, costituisca invece il massimo disvelamento della verità sull’uomo e su Dio. La nuova condizione positiva in cui il cristiano si trova è frutto della riconciliazione avvenuta mediante la carne (sarx) di Cristo; l’insistenza sull’elemento fisico si spiega con la volontà di non considerare Cristo alla stregua di un mito o di una “sofia”.

È da tenere presente il contesto sincretistico della regione di Colossi: la città era in una zona dove prosperavano culti pagani collegati alla dea Cibele (o Rea), madre di tutti gli dèi, mitica divinità terrestre, procreatrice di tutto; fioriva anche il culto a Isis (o Iside), dea egiziana dell’abbondanza […] e quello a un Dio locale, Men, che la religiosità popolare identificava con Dionisio […]. Le allusioni all’osservanza dei sabati e all’imposizione dei precetti (2,16.21) fanno supporre anche un influsso giudaico[1]. La comunità di Colossi, per diversi aspetti solida nella fede e nella carità, corre il rischio di diluire il messaggio cristiano e vanificarlo: da alcuni passaggi dello scritto emerge, infatti, l’attività di falsi predicatori che parlano della fede come di una filosofia: Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia (philosophías) e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo (2,8). In concreto si mette in guardia da un duplice pericolo. Il primo consiste nel considerare il cristianesimo uno tra i diversi sistemi di pensiero greci legati alle scuole e ai relativi maestri di saggezza. Per philosophía si può intendere anche una di quelle teosofie giudeo-elleniste che speculavano sul mondo, sulla sua origine, sui suoi movimenti e sulla sua evoluzione. Ma il secondo e più insidioso tranello che queste filosofie e i loro banditori portavano con sé consiste nella vanificazione della potenza salvifica dell’evento-Cristo. Se esso è solo frutto dell’ingegno umano che si applica alla scienza filosofica, non ha nulla di trascendente e di unico, rivelandosi incapace di un reale e radicale rinnovamento ontologico dell’uomo e dell’universo perché foriero di un sistema pratico e intellettuale effimero e passeggero: Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne (2,22-23). L’inganno che l’Apostolo smaschera sembra seguire questo ragionamento: svuotando il significato della sarx di Cristo e il legame con la carne degli essere umani, si vanifica il valore autentico del corpo e si smarrisce la capacità di un reale dominio su di esso: I cristiani di Colossi manifestavano una malsana curiosità per un movimento giudaico mistico-ascetico in voga in quel periodo nella valle del Lico […]; influenzati dalla speculazione giudaica, alcuni erano pervenuti a credere che l’astinenza dal cibo e dalle bevande unita a una stretta osservanza delle festività giudaiche potesse procurare un’ascesa mistica al vertice del cosmo, dove ognuno avrebbe potuto vedere gli angeli che rendevano culto presso il trono di Dio (cosa molto più gratificante dell’amore per il prossimo nel sacrificio di sé)[2]. Si scade, pertanto, in schizofreniche pratiche restrittive che, alla fine, non producono altro effetto se non l’accrescimento dell’orgoglio di chi è riuscito a sottomettere quella parte istintiva di sé che è spesso fuori controllo. Questo risultato non libera dalla schiavitù del corpo (considerato come componente secondaria rispetto all’anima/spirito perché soggetto alla corruzione e al disfacimento) elevando lo spirito ma lo strumentalizza per il proprio autocompiacimento. Il primato cosmico di Cristo dell’inno iniziale consiste nel superamento di tutte le potenze umane e di quegli elementi sovrumani che pretendono di portare una luce di verità sull’uomo e sul suo habitat. La differenza specifica tra il cristianesimo e questa “filosofia” risiede proprio della carnalità della salvezza che trasforma la morte da limite estremo di ogni creatura a porta attraverso la quale si accede alla profonda riconciliazione dell’uomo con se stesso e con il creato; solo in questo modo l’essere umano è definitivamente strappato all’autoreferenzialità e posto in relazione al “tu” di Cristo «per presentarsi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui» (v. 22b). La nuova condizione qui descritta richiama il contesto liturgico e rituale che permetteva agli Israeliti di non temere di comparire davanti Yhwh (Es 19,10.14-15; 29,37-38); ma evoca anche il contesto giuridico del giusto che si presenta in tribunale certo della sua innocenza (Gb 31). Quasi in polemica con questa visione del mondo Paolo traccia, dunque, una gerarchia ponendo Cristo al vertice del cosmo e individuando nella sua sarx il fulcro di quest’ultimo: È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza (pléroma) della divinità (2,9). È vinta l’ignoranza dei cristiani, dunque, perché è ormai palese che non esistono elementi complementari a Cristo e alla sua redenzione, né forze che ne possano surrogare l’azione potente e pienamente efficace.

Il Vangelo è la speranza Purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro (1,23). L’Apostolo illustra ai cristiani di Colossi che la riconciliazione di Cristo e la sua irradiazione cosmica si rendono disponibili e fruibili solo a determinate condizioni. La prima è la fede che costituisce il fondamento stabile e certo della vita del cristiano: come in 1Cor 16,13 la fede è dono dello Spirito (1Cor 12,9; 13,2) e radicamento in quelle convinzioni che nell’oggi generano il dinamismo salvifico della vita nuova in Cristo dettata dallo Spirito (Gal 5,22). Se la fede fonda la vita morale nell’oggi, la speranza la proietta nel futuro perché indica il compimento dell’itinerario al quale la fede introduce. Tale speranza non è il pio e vago desiderio di vedere la buona riuscita dei progetti o delle aspirazioni ma è una realtà che conferisce fermezza al pari della fede, perché la speranza è il Vangelo. Il genitivo «del Vangelo» può essere letto, infatti, come un genitivo oggettivo (il Vangelo è il contenuto della speranza) esplicitando che quanto Paolo ha già consegnato ai Colossesi – il primato di Cristo e della sua salvezza – è ciò che anima e proietta in avanti il cammino del credente abbracciando l’intero universo in questo processo di rigenerazione. Si inserisce, a questo punto della riflessione, il senso della missione dell’Apostolo qui descritta nei termini del servizio: egli è il diacono del Vangelo e non il padrone, come indicato anche altrove (1Cor 3,5; 2Cor 3,6; 6,4; 11,23). Il vero evangelizzatore sa trovare il giusto rapporto tra verità del Vangelo e partecipazione/appropriazione personale. Per questo nei versetti che seguono Paolo specificherà la sua personale adesione al mistero della croce di Cristo senza correre il rischio di sminuirne la portata oggettiva e universale.

Il completamento personale del sacrificio di Cristo Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa (1,24). Nella traduzione della Bibbia del 1971 operata della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), questo versetto veniva reso con qualche ambiguità: Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. A primo impatto sembrerebbe che il sacrificio di Cristo sia incompleto e che sia Paolo a dargli pieno compimento. Una simile impressione, seppur riduttiva, non è errata; è necessario, tuttavia, specificare il senso della frase al genitivo «patimenti di Cristo» (thlípseõn tou Christou) e contestualizzarla legandola alle «sofferenze» (pathémasin) dell’Apostolo. I due termini sembrano, infatti, richiamare la medesima realtà, quella, cioè, delle prove subite dai cristiani e dai missionari in unione alle prove di Cristo crocifisso. Nell’epistolario paolino o negli altri scritti del Nuovo Testamento il termine «tribolazione» (thlípsis) non designa le sofferenze di Cristo – associate, invece, a vocaboli quali «sangue», «croce», «morte» – ma l’angoscia che coinvolge gli uomini e il cosmo e che precede la venuta piena del regno e il giudizio definitivo (Mc 13,19-24; Rm 8,35; 2Cor 6,4; Ef 3,13; 2Ts 1,4). A conferma di quanto ora asserito si può leggere 2Cor 1,5 in cui Paolo chiama «sofferenze di Cristo» (pathémata tou Christou) le prove che come evangelizzatore deve sopportare a motivo della croce di Cristo. Alla luce di questa considerazione si comprende il senso del genitivo partitivo «patimenti di Cristo» (thlípseõn tou Christou) che, tra le varie tipologie di genitivo della lingua greca, indica la parte di un tutto: si specifica, nel nostro contesto, l’esistenza di una porzione riservata all’Apostolo all’interno del più ampio rimando alle sofferenze accettate in conformazione al mistero della croce. Il sacrificio di Cristo, infatti, è completo in sé e lo si afferma a chiare lettere più avanti nella lettera in 2,13: Con Cristo Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe. In conclusione, possiamo asserire che a dover fare ancora il suo corso è il cammino di Paolo (e del cristiano) che attraverso la sua croce è chiamato a conformarsi al Crocifisso in un sacrificio che, similmente a quello di Cristo, è finalizzato all’edificazione della Chiesa: La Chiesa diviene compimento del mistero di Cristo e realizza il suo divenire attraverso gli uomini: le loro tribolazioni sono per essa fermento di crescita (1,24); le loro comunità costituiscono la Chiesa locale (1,2; 4,16); le loro famiglie, la Chiesa domestica (4,15). La vita del Cristo che si dilata nel cosmo si manifesta ovunque: nel cristiano che ne accoglie l’annuncio per essere perfetto in lui (1,28) e che ha parte alla sua pienezza (2,10)[3]. In questo senso la traduzione della Bibbia CEI del 2008 esplicita correttamente il senso teologico della frase fugando ogni dubbio.

Conclusione Emerge, dalla riflessione sviluppata in queste pagine, che l’importanza della morte nella carne di Cristo, della conseguente riconciliazione e della partecipazione alle sue sofferenze si spiega oltre che in rapporto all’applicazione attuale e personalizzata dell’evento storico-salvifico, anche in ragione della preoccupazione fortemente pratica ed esistentiva dell’esortazione; lo scopo della riconciliazione è quello di dare ai cristiani la reale possibilità di una vita secondo il progetto di Dio[4]. Ci pare molto attuale questa sottolineatura esistenziale che getta una luce particolarissima e unica sul mistero della sofferenza di Cristo e del credente. Essa ha un valore positivo perché non solo assimila e incorpora a colui che mediante il suo sacrificio ha rinnovato l’universo, ma rende feconda anche la croce di ogni singolo uomo conferendo forza e efficacia proprio nel momento della debolezza e dell’apparante inutilità. Lo specifico del messaggio paolino ha, infatti, una forte impronta antropologica perché la persona di Cristo dischiude all’essere umano il mistero della propria vocazione. L’intuizione dell’Apostolo nelle sue esortazioni alla comunità di Colossi mira a saldare indissolubilmente l’umanità di Gesù – nato, morto e risorto nella sua sarx – con la debolezza di ogni singola sarx, perché è consapevole della posta in gioco: negando la prima si dissolve anche la seconda e, al contrario, riconoscendo il Dio-uomo si apre la strada per la reale divinizzazione dell’essere umano.

[1] E. Ghini, La Lettera ai Colossesi. Commento pastorale, EDB, Bologna 1990, 18. [2] J. Murphy-O’Connor, «Lettera ai Colossesi», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2010, 176. [3] Ghini, La Lettera ai Colossesi, 31. [4] Cf. R. Fabris, Le lettere di Paolo. Traduzione e commento, Borla, Roma 19902, 92.

Saint Anthony of Padua Holding Baby Jesus by Strozzi, c. 1625; the white lily represents purity

Saint Anthony of Padua Holding Baby Jesus by Strozzi, c. 1625; the white lily represents purity dans immagini sacre 800px-Saint_Antony_of_Padua_holding_Baby_Jesus_mg_0165
https://en.wikipedia.org/wiki/Anthony_of_Padua

Publié dans:immagini sacre |on 13 juin, 2016 |Pas de commentaires »

EGLI E’ LA NOSTRA PACE – di P. Raniero Cantalamessa

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/VITA%20CRISTIANA/eglielanostrapacecantalamessa.htm

EGLI E’ LA NOSTRA PACE – di P. Raniero Cantalamessa

“Immagina che non esiste paradiso, / è facile se provi./ Nessun inferno sotto di noi, / nient’altro che il cielo su di noi. Immagina tutta la gente / vivere per l’oggi, / immagina non ci sono patrie. /Non è difficile, vedrai. / Nulla per cui uccidere o morire / e nessuna religione più. (Imagine all the people / living for today./ Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do./ Nothing to kill or die for /and no religion too). Immagina tutta la gente / vivere la vita in pace. / Ti sembro un sognatore? /Non sono il solo. / Spero che un giorno ti unirai a noi / e il mondo sarà una cosa sola. (Imagine all the people / living life in peace. / You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one./ I hope someday you’ll join us / and the world will live as one)” .  

Mi pare sia di Platone la massima: “Agli anziani sono maestri i filosofi, ai giovani i poeti”.

Oggi, a dire il vero, maestri dei giovani non sono più neppure i poeti, ma i cantautori; non la poesia, ma la musica. Vi sono milioni di giovani la cui visione della vita è ricalcata su quella del cantautore (se non addirittura del canto) preferito. Nelle settimane agitate che abbiamo vissuto, quella canzone, scritta da uno dei grandi idoli della musica leggera moderna, su una melodia suadente, è risuonata con frequenza nei cortei e nei programmi radiofonici, come una specie di manifesto pacifista. Non possiamo lasciarla senza una risposta. Gesù, una volta, prese lo spunto per un suo insegnamento da quello che cantavano i ragazzi del suo tempo nelle piazze: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto” (Mt 11,16-17). Dobbiamo seguirne l’esempio. La prima domanda che ci poniamo è questa: Perché sforzarsi di ”immaginare” qualcosa che abbiamo avuto sotto gli occhi fino a ieri? Un mondo senza paradiso e inferno, senza religione, senza patrie, with no possessions, senza proprietà privata, dove si insegnava alla gente a vivere solo “per quaggiù”: non è esattamente la società che si erano proposto di realizzare i regimi totalitari comunisti? Il sogno dunque non è nuovo, ma il risveglio da esso non è stato allegro… “Non più paradiso, non più inferno”: anche queste parole non è la prima volta che sono risuonate nel mondo. “Se Dio esiste l’uomo è nulla. Dio non esiste! Felicità, lacrime di gioia! Non più cielo. Non più inferno! Nient’altro che la terra”. Sono parole che un noto filosofo e scrittore metteva in bocca a un suo personaggio negli anni ruggenti dell’esistenzialismo ateo . Lo stesso autore scrisse però anche un altro dramma, intitolato Porte chiuse. In esso si parla di tre persone -un uomo e due donne- introdotte, a brevi intervalli, in una stanza. Non ci sono finestre, la luce è al massimo e non c’è possibilità di spegnerla, fa un caldo soffocante, e non c’è nulla all’infuori di un canapè. La porta è chiusa, il campanello c’è, ma non dà suono. Di chi si tratta? Sono tre persone appena morte, e il luogo dove si trovano è l’inferno. Dopo che, a forza di frugare uno nella vita dell’altro, le loro anime sono diventate nude davanti a tutti e le colpe di cui più ci si vergogna sono venute a galla e sfruttate dagli altri senza pietà, uno dei personaggi dice agli altri due: “Ricordate: lo zolfo, le fiamme, la graticola Tutte sciocchezze. Non c’è nessun bisogno di graticole: l’inferno sono gli Altri” . Per questa via, l’inferno non viene dunque abolito; è solo trasferito sulla terra.

* * * Ma il canto che ho ricordato, a parte i suggerimenti sbagliati per realizzarlo, contiene un anelito giusto e santo che non si può lasciar cadere nel vuoto. Ascoltiamo un’altra “canzone” sulla pace e l’unità, scritta molto tempo prima:

“Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2, 14-18).

Anche qui viene presentato un mondo in cui si vive “in pace”, come fosse “una cosa sola”; ma la via per realizzarlo è assai diversa. “Ha fatto la pace, distruggendo in se stesso l’inimicizia”. Distruggendo l’inimicizia, non il nemico; distruggendola in se stesso, non negli altri! In quello stesso tempo un altro grande uomo proclamava al mondo l’avvenuta pace. In Asia Minore è stata ritrovata, tra le pietre di una moschea, copia del famoso “Indice delle proprie imprese” dell’imperatore Augusto. In esso egli celebra la pax Romana da lui stabilita nel mondo, definendola parta victoriis pax, una pace ottenuta mediante vittorie militari . Gesù non entra nel merito di questa pace, ma rivela che ne esiste un’altra di genere diverso. Dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27). Anche la sua è una “pace frutto di vittorie”. Ma vittorie su se stessi, non sugli altri, vittorie spirituali, non militari. “Ha vinto il leone della tribù di Giuda”, vicit leo de tribu Juda, esclama l’Apocalisse (5, 5), ma S. Agostino spiega: “Victor quia victima”, vincitore perché vittima . Gesù ci ha insegnato che non c’è nulla per cui uccidere, ma che c’è qualcosa per cui morire.   * * * La via alla pace del Vangelo non ha senso solo nell’ambito della fede; vale anche nell’ambito politico, per la società. È l’attuale assetto del mondo a esigere che si cambi il metodo di Augusto con quello di Cristo. Non è più accettata dalla coscienza moderna la vocazione che Virgilio additava ai suoi concittadini: “Tu regere imperio populos, Romane, memento” : “il tuo compito, ricordati, Roma, è esercitare l’impero dei popoli”. Ogni popolo rivendica il proprio diritto ad autogovernarsi. Oggi vediamo chiaramente che l’unica via alla pace è di distruggere l’inimicizia, non il nemico (distruggeremo metà della popolazione del mondo, scontenta del suo assetto? e come individuare il nemico nel terrorismo?). Senza contare che si applica anche ai nemici ciò che Tertulliano diceva del sangue dei cristiani: “Semen est sanguis christianorum”: anche il sangue dei nemici, purtroppo, è seme di altri nemici. Qualcuno rimproverò un giorno Abramo Lincoln di essere troppo cortese con i propri nemici e gli ricordò che il suo dovere di presidente era piuttosto di distruggerli. Al che egli rispose: “Non distruggo forse i miei nemici quando me li faccio amici?”. Troverà, il grande presidente degli Stati Uniti, qualcuno che raccolga questa formidabile sfida? I nemici si distruggono con le armi, l’inimicizia con il dialogo. Prima di additarlo alle nazioni, la Chiesa, guidata dal papa, si sta sforzando di realizzare questo programma nel rapporto tra le varie religioni.

* * * Ma non abbiamo raccolto che metà del messaggio cristiano sulla pace. Uno slogan oggi assai di moda dice: “Think globally, act locally”: pensa globalmente, agisci localmente. Esso vale soprattutto per la pace. La pace non si fa come la guerra. Per fare la guerra, occorrono lunghi preparativi: formare grossi eserciti, predisporre strategie, sancire alleanze e poi muovere compatti all’attacco. Guai a chi volesse cominciare per primo, da solo e alla spicciolata: sarebbe votato a sicura disfatta. La pace si fa esattamente al contrario: alla spicciolata, cominciando subito, per primi, anche uno solo, anche con una semplice stretta di mano. Miliardi di gocce d’acqua sporca non faranno mai un oceano pulito. Miliardi di uomini senza pace nel cuore – e di famiglie senza pace al loro interno – non faranno mai un’umanità in pace. Uno dei messaggi di Giovanni Paolo II per la giornata della pace, quello del 1984, portava come titolo: “La pace nasce da un cuore nuovo”. Che senso ha sfilare in corteo per le strade gridando “Pace!”, se si alza il pugno minaccioso e si sfondano vetrine? Si può essere dei “pacifisti a mano armata”? Anche esporre il drappo della pace fuori della propria finestra che senso avrebbe, se dentro casa si alza la voce, si impone tirannicamente la propria volontà ed si erigono muri di ostilità o di silenzio? Non sarebbe meglio, in questo caso, ritirare il drappo ed appenderlo dentro casa? Ma anche noi che siamo qui riuniti dobbiamo fare qualcosa per essere degni di parlare di pace. Gesù è venuto ad annunciare “pace ai lontani e pace ai vicini”. La pace con “i vicini” è spesso più difficile che non la pace con “i lontani”…Gesù ha detto: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24). Fra poco noi ci accosteremo a baciare il Crocifisso. Se non vogliamo che dall’alto della sua croce Gesù debba ripeterci: “Vai prima a riconciliarti con il tuo fratello!”, il nostro deve essere un bacio dato non solo a Lui che è il capo, ma anche alle membra del suo corpo, specialmente quelle che tendiamo a rifiutare. Un tempo, al termine della Quaresima o di Missioni popolari, si facevano i falò delle vanità. In un rogo acceso al centro della piazza principale della città, ognuno gettava gli strumenti del vizio o gli oggetti di superstizione che aveva in casa. Essi facevano un falò delle vanità, noi facciamo un falò delle ostilità! Gettiamo tra le braccia del Crocifisso e nella fornace ardente del suo cuore ogni odio, rancore, risentimento, invidia, rivalità, ogni desiderio di farci giustizia da soli.

* * * “Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito”. “Gli uni e gli altri” non sono più solo giudei e gentili; sono anche cristiani e musulmani, latini e greci, cattolici e protestanti, clero e laici, uomini e donne, bianchi e neri. Ecco la risposta del Vangelo al “sogno” della canzone: “e il mondo sarà una cosa sola”, and the world will live as one. Conosciamo l’obbiezione: “Sono passati duemila anni da allora e cosa è cambiato?” Ma non ci inganniamo. Il mondo riconciliato, divenuto una cosa sola in Cristo, esiste già. È ciò che vede Dio quando guarda questo nostro tormentato pianeta, lui che abbraccia con il suo sguardo passato, presente e futuro insieme. Vale anche per il mondo ciò che Francesco d’Assisi dice di ogni uomo: “L’uomo, ciò che è davanti a Dio, quello è, e non altro” . Il mondo, ciò che è davanti a Dio, quello è, e non altro. E agli occhi di Dio, già ora, “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti siamo uno in Cristo Gesù”(cf. Gal 3, 28). Il 13 Aprile 1997, nello stadio di Sarajevo, il Santo Padre Giovanni Paolo II elevò a Dio una preghiera per la pace. Ci uniamo al suo grido accorato, non meno attuale oggi di allora, dopo che una guerra si è appena consumata e altre continuano dimenticate: “Io, vescovo di Roma, mi inginocchio davanti a te, Signore, per gridare: Liberaci dal flagello della guerra. Venga il tuo regno; regno di giustizia, di pace, di perdono e di amore. Tu non ami la violenza e l’odio, tu rifuggi dall’ingiustizia e dall’egoismo. Tu vuoi che gli uomini siano fra loro fratelli e ti riconoscano come loro padre. La tua volontà è la pace”. Sia fatta la tua volontà!  

 

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