GALATI 1,11-19 -COMMENTO BIBLICO
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GALATI 1,11-19 -COMMENTO BIBLICO
Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.
COMMENTO Galati 1,11-19 La vocazione di Paolo La lettera ai Galati inizia con un lungo prescritto (1,1-5) a cui fa seguito una severa ammonizione (1,6-10), da cui appare come siano giunti nella comunità dei nuovi predicatori che mettono in discussione l’autenticità del «vangelo» predicato da Paolo. Egli si sente perciò costretto a difendere anzitutto il suo ruolo di apostolo. Egli lo fa nella prima parte della lettera (1,11-2,21) in chiave autobiografica, raccontando gli inizi della sua attività apostolica, i suoi contatti con la chiesa di Gerusalemme e lo scontro avuto con Pietro ad Antiochia. Di questa sezione, nel testo liturgico viene ripresa la parte che riguarda la vocazione di Paolo. I fatti a cui allude sono narrati negli Atti degli apostoli (cfr. At 9,1-30; 22,5-16; 26,9-18), dove però la storia è riletta in base ai presupposti teologici di Luca. Paolo stesso ne parla anche in altri contesti (cfr. 1Cor 9,1; 15,8; 2Cor 12,1-6; Fil 3,4-7). Anche lui però non è un narratore neutrale, in quanto ricorda solo ciò che è utile alla sua tesi, sorvolando sugli aspetti che potrebbero disturbare la sua linea difensiva. Nel testo liturgico egli indica anzitutto l’origine del suo vangelo (vv. 11-12), poi ricorda ciò che egli era stato «prima» (vv. 13-14) e quello che è diventato «dopo» l’incontro con Cristo (vv. 15-17); infine descrive la sua prima visita a Gerusalemme (vv. 18-19).
Il vangelo di Paolo (vv. 11-12) Paolo inizia la sua difesa mettendo in luce l’origine divina del vangelo da lui predicato. Egli si era presentato all’inizio della lettera come «apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» (cfr. v. 1). Ora riprende questo argomento affermando che il suo vangelo non è «modellato sull’uomo», cioè non è formulato in modo tale da piacere agli uomini (cfr. v. 10). Egli infatti non l’ha ricevuto né imparato «da uomini» (v. 11). Da queste parole si arguisce facilmente che, per controbattere le sue tesi, i suoi avversari lo presentavano come un semplice ripetitore di cose udite, che adattava a piacimento per far venire incontro alle attese dei suoi ascoltatori: in ogni caso egli sarebbe un predicatore qualsiasi, suscettibile di errori e di deviazioni. Per togliere ogni base a questa insinuazione, egli afferma di non aver ricevuto o imparato il suo vangelo da uomini, ma «per rivelazione di Gesù Cristo» (v. 12). Ciò non significa certo che egli abbia ricevuto per una rivelazione speciale tutti gli insegnamenti contenuti nel vangelo: in realtà egli stesso afferma più volte la sua stretta dipendenza dalla tradizione (cfr. 1Cor 15,1-11), ed è chiaro che moltissimo materiale contenuto nelle sue lettere riflette la primitiva predicazione apostolica. Ciò che Paolo vuole qui affermare è che egli ha ricevuto per rivelazione il nucleo centrale del suo vangelo, e cioè il fatto che a Cristo compete il ruolo di mediatore unico della salvezza, ad esclusione di qualsiasi altra mediazione, non ultima quella della legge mosaica.
Il Paolo precristiano (vv. 13-14) Egli presenta se stesso come uno che, prima dell’incontro con Cristo, perseguitava fieramente la chiesa di Dio, in quanto superava nel giudaismo la maggior parte dei suoi coetanei, essendo un accanito sostenitore (zêlôtês) delle tradizioni dei padri (vv. 13-14). Non senza una certa esagerazione, Luca lo descrive come un violento persecutore dei cristiani (At 8,3; 9,1-2). In realtà dalle parole di Paolo sembra piuttosto che egli portasse avanti un’accesa polemica nei loro confronti. Non è escluso che in casi particolari egli abbia fatto applicare ai cristiani le sanzioni previste dalla sinagoga nei confronti di coloro che trasgredivano la legge. Il motivo dello scontro è la «tradizione dei padri», di cui Paolo era un acerrimo sostenitore. Questa espressione potrebbe riferirsi alla pratica della legge mosaica oppure, forse più probabilmente, il principio della sottomissione all’autorità romana, in vista di un evento escatologico che avrebbe introdotto il regno di Dio. Secondo questa interpretazione Paolo avrebbe voluto difendere Israele da derive messianiche che potevano provocarne la rovina. Circa la località in cui egli ha svolto la sua azione di persecutore, Paolo non dice nulla, ma non è sicuro che essa sia iniziata, come racconta Luca, a Gerusalemme: secondo lo stesso Luca infatti la comunità della città santa non aveva più subìto persecuzioni dopo l’allontanamento degli ellenisti (cfr. At 8,1). È possibile quindi che Paolo sia venuto a contatto con il cristianesimo proprio a Damasco, perché è lì che egli ritornerà dopo il periodo trascorso in Arabia (cfr. v. 17; 2Cor 11,32); con ogni probabilità in quella città si erano rifugiati alcuni di quei cristiani ellenisti che erano fuggiti da Gerusalemme in seguito all’uccisione di Stefano (cfr. At 8,1-4). In questo periodo Paolo, in quanto persecutore, non ha certo potuto ricevere il suo vangelo dagli apostoli o da qualcuno della loro cerchia: ma proprio allora, nel corso delle discussioni sostenute con i cristiani, egli ha certo avuto una prima conoscenza, anche se frammentaria e imperfetta, della vita e degli insegnamenti di Gesù.
La vocazione (vv. 15-17) Nella vita di Paolo è però accaduto un evento che ne ha mutato radicalmente il corso. Egli non si sofferma a descriverlo nei suoi dettagli, come fa Luca negli Atti degli apostoli (At 9,1-19), ma si limita ad alludervi in una frase subordinata, facendo ricorso al linguaggio tipico dell’AT. Fin dal seno materno egli era stato «scelto», come Geremia (cfr. Ger 1,5) e il Servo di JHWH (cfr. Is 49,1.5), ed era stato «chiamato» da Dio «con la sua grazia», cioè per una sua decisione libera e gratuita. A un certo punto Dio gli ha «rivelato» (apocalyptô) il suo Figlio perché lo «annunziasse» (euangelizô) in mezzo ai gentili (vv. 15-16a). Nel linguaggio biblico il verbo apocalyptô significa la manifestazione escatologica del piano salvifico di Dio, la cui conoscenza è per definizione irraggiungibile dalla mente umana: Paolo ha dunque ricevuto direttamente da Dio una illuminazione interiore, in forza della quale ha riconosciuto in modo certo il ruolo unico e definitivo di Cristo nel piano salvifico di Dio. Questa esperienza, che non consiste necessariamente in una visione esterna, ha avuto come effetto non solo la fede, ma anche l’invio ai gentili, per annunziare loro la salvezza operata da Cristo. Il modo in cui Paolo allude all’evento di Damasco mostra che egli lo ha vissuto non tanto come una «conversione», quanto piuttosto come una «vocazione» alla sequela e alla missione, analoga a quella dei profeti e dei primi discepoli di Gesù. È proprio in forza di questa illuminazione interiore che egli ha potuto interpretare correttamente ciò che già prima sapeva e quanto in seguito avrebbe più dettagliatamente conosciuto circa il «vangelo di Cristo». L’esperienza di Damasco spinge immediatamente Paolo, senza «consultare carne e sangue», cioè senza venire a contatto con nessuno dei primi discepoli e senza ricevere da nessuno un mandato, e in modo specifico senza recarsi a Gerusalemme dagli apostoli, a lasciare il luogo in cui si trovava e a recarsi in Arabia; da lì poi è ritornato a Damasco (v. 16b). Il termine «Arabia» designa la zona della Transgiordania allora abitata dai nabatei. Stando al contesto risulta che si è recato in questa regione per svolgervi un’attività di evangelizzazione. Non si sa quali siano stati i risultati di questa sua prima attività missionaria, della quale non è stata conservata memoria negli Atti degli apostoli: è probabile però che non abbia avuto molto successo, dal momento che in quella regione non esistono comunità che facciano risalire a lui la loro fondazione. Non si sa neppure quanto tempo egli si sia fermato in Arabia, ma si può supporre che le difficoltà incontrate lo abbiano consigliato a ritornare ben presto sui suoi passi. Di questa sua prima attività Paolo non dà nessuna notizia dettagliata perché ciò che gli preme soprattutto sottolineare è che egli ha cominciato ad essere apostolo prima che potesse incontrare gli apostoli di Gerusalemme e senza alcuna investitura da parte loro.
Il primo viaggio a Gerusalemme (vv. 18-19) Il primo incontro di Paolo con i capi gerosolimitani è avvenuto solo dopo tre anni: egli non specifica se questo lasso di tempo debba calcolarsi a partire dall’evento di Damasco o dal suo ritorno in quella città dopo la permanenza in Arabia. Da altri testi risulta che l’abbandono di Damasco ha avuto luogo in seguito alla persecuzione scatenata contro di lui dai giudei: in quella occasione egli, per sfuggire al governatore del re Areta, era stato fatto calare dalle mura della città in un cesto (cfr. 2Cor 11,32-33; At 9,22-25). Negli Atti Luca racconta che a Gerusalemme Paolo, dopo un momento di diffidenza da parte dei cristiani, è stato introdotto da Barnaba nella comunità, di cui è diventato membro a tutti gli effetti. Anche a Gerusalemme egli avrebbe iniziato un’intensa attività di evangelizzazione, interrotta solo dal profilarsi di una persecuzione nei suoi confronti (At 9,26-30). Paolo invece sottolinea che lo scopo della sua visita era semplicemente quello di «consultare» (historesai) Cefa (Pietro), il capo dei primi dodici discepoli di Gesù. Il significato esatto del verbo historesai è dibattuto: in questo contesto però è chiaro che esso indica non una semplice visita di cortesia e neppure una consultazione vera e propria circa il nucleo centrale del vangelo, che Paolo aveva ricevuto direttamente da Dio e tanto meno circa i dettagli della vita di Gesù o del suo insegnamento. Più che di una consultazione si è trattato di un confronto circa quello che per Paolo era un aspetto qualificante del vangelo, cioè la sua validità a prescindere dall’osservanza della legge mosaica. Diversamente da quanto racconta Luca, Paolo afferma che si è fermato a Gerusalemme per un periodo molto breve (quindici giorni) e che per di più non ha incontrato, al di fuori di Pietro, nessun altro apostolo, se non Giacomo, il fratello del Signore. Questa affermazione per lui è tanto importante che la convalida con un giuramento, cioè chiamando Dio come testimone. (v. 20). Giacomo non apparteneva al gruppo dei dodici, ma faceva parte di una cerchia più ampia di missionari a cui veniva allora esteso l’appellativo di apostoli (cfr. 1Cor 15,5.7). Paolo non dice qual è stato il risultato di questo incontro; nel complesso egli tende a diminuirne l’importanza affinché non appaia che egli sia andato da Pietro con l’intento di ottenere particolari riconoscimenti o investiture. Aggiunge invece che dopo la sua prima visita a Gerusalemme si è recato in Siria (Antiochia) e in Cilicia (Tarso) e sottolinea che personalmente continuava ad essere sconosciuto alle chiese della Giudea, le quali però erano a conoscenza del suo lavoro missionario e glorificavano Dio a causa sua (vv. 20-24; cfr. At 11,25-26).
Linee interpretative La svolta che si è verificata nella vita di Paolo è descritta dall’apostolo stesso in termini religiosi come conseguenza di una chiamata che gli è venuta direttamente da Dio. Egli si serve di questo schema interpretativo per indicare il carattere esperienziale della sua fede cristiana. Anche lui, come i primi discepoli, ha avuto il privilegio di venire direttamente a contatto con Gesù. Nulla gli manca di quanto essi hanno imparato nel periodo che hanno trascorso con il Signore. Ciò giustifica la sua sicurezza di possedere il messaggio autentico di Gesù e al tempo stesso la sua indipendenza nei confronti di quelli che l’avevano preceduto. A questa percezione profonda si deve il suo impegno come missionario e fondatore di comunità e il coraggio con cui ha affrontato tutte le difficoltà, non escluse quelle che gli venivano da predicatori cristiani che, proprio appellandosi ai primi discepoli, annunziavano il vangelo in un modo diverso dal suo. Implicitamente egli afferma che senza questa esperienza personale del Cristo nessuno potrà mai annunziare in modo efficace il suo vangelo. Tuttavia per Paolo autonomia non significa indipendenza. Egli è portatore di tradizioni che risalgono a Cristo, ma che egli ha ricevuto mediante i primi discepoli. Ma soprattutto si sente profondamente legato alla chiesa madre di Gerusalemme, e ai suoi leaders in quanto si rende conto che, senza una forte comunione con loro, rischia di lavorare invano. La comunione all’interno di una singola comunità infatti non è sufficiente per attuare la salvezza portata da Gesù. Egli sente fortemente il rischio di una rottura all’interno del movimento cristiano e cercherà in tutti i modi di scongiurarlo. L’unione tra le sue chiese e la comunità di Gerusalemme non è vista però in chiave istituzionale, ma come un’esigenza che deriva dal concetto stesso di «regno di Dio»: per le comunità cristiane sparse nel mondo la salvezza è veramente tale solo se rappresenta e porta in sé, almeno allo stato germinale, una vera riconciliazione tra nazioni e culture diverse.
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