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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

Nel capitolo 22mo degli ATTI degli Apostoli, Paolo ricorda il suo incontro con il Signore Gesù sulla via di Damasco e così racconta:   “Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città, istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come lo siete voi tutti oggi. Io ho perseguitato a morte questa Via, mettendo in catene e gettano in prigione uomini e donne, come me ne fa testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il consiglio degli anziani. Da essi avevo anzi ricevuto lettere per i fratelli di Damasco e stavo andando per condurvi incatenati a Gerusalemme anche quelli che si trovavano là, perché vi fossero puniti. Or mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce venuta dal cielo mi sfolgorò tutt’intorno. Io caddi a terra e udii una voce che mi diceva. ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’ Io rsposi:’Chi sei, o Signore?’ E mi disse: ‘Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti’. Quelli che mi accompagnavano videro la luce, ma non udirono la voce di colui che parlava. Io ripresi: ‘Che debbo fare, Signore?’. E il Signore mi disse: ‘Alzati, và a Damasco e là ti sarà detto tutto ciò che è stabilito che tu faccia’. Ma poiché non potevo più vedere per lo splendore di quella luce, fui condotto per mano dai miei compagni di viaggio e giunsi a Damasco. Un certo Anania… mi disse: ‘ Saulo, fratello mio, torna a vedere!’ E io nella stessa ora riuscii a vederlo. Egli disse:‘Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il giusto e a udire una parola dalla sua bocca, poiché tu renderai testimonianza a suo favore presso tutti gli uomini di ciò che hai visto e udito’. (At 22,3-15) Comincio la mia presentazione con un’affermazione che risuona fortemente nella mia mente e più ancora nel mio cuore. Eccola: La ‘carta vincente’ della nostra vita è la conversione. Conversione: una parola che da diversi anni a questa parte, molti hanno avuto paura di pronunciare, forse perché è stata spesso confusa col proselitismo, o con il lasciare una religione per un’altra, o forse perché é stata intesa come un rinnegare, uno sconfessare necessariamente tutto il passato di una vita. Anche in occasione dell’Anno Paolino (2008-2009), mentre Benedetto XVI parlò così tanto della conversione di San Paolo, alcuni studiosi non vollero per nulla parlare di questa realtà. Ad ogni modo questa è la realtà su cui noi ci soffermeremo insieme: la conversione di Paolo e nostra. Perché?  Perché sono convinto che a fondamento della vita di ogni persona impegnata nella costruzione del Regno, a fondamento della vita di ogni apostolo e di ogni suo rinnovamento, c’è sempre una grande svolta, una profonda trasformazione nell’intimo della persona; c’è una conversione causata da una chiara illuminazione da parte dello Spirito di Dio e dall’azione di Cristo che attira a sé la persona. Nella vita dell’apostolo delle genti, Paolo di Tarso, vediamo in modo meraviglioso quanto ciò sia vero. E Paolo ci ispira e ci dice: Volete essere apostoli di Cristo? Volete rinascere come apostoli per avere un entusiasmo tutto nuovo? Se sì, lasciatevi afferrare da Lui, lasciatevi convertire, cioè trasformare da Cristo.  E’ così che il grande vescovo Mariano Magrassi a cui ero legato da amicizia, descriveva la conversione: come un essere afferrati da Cristo, come una illuminazione da parte dello Spirito, che poi diventa un processo di crescita; attraverso di esso il rivestirsi di Cristo diventa sempre più intenso e tende al compimento. Notiamo che l’illuminazione, inizio della conversione, può essere istantanea, la ‘crescita nella conversione’, richiede tempo.  Due autori che, oltre a Mons. Magrassi mi hanno ispirato tanto per quanto riguarda il significato del termine conversione in San Paolo e in noi, sono: il benedettino tedesco Anselm Grun e il gesuita italiano Francesco Rossi de Gasperi. E naturalmente, ho preso ispirazione anche da Papa Benedetto XVI. Nel suo libro intitolato ‘Paolo e l’esperienza religiosa cristiana’, Anselm Grun dice: “ Quando Paolo non vide più nulla, allora vide Dio… si aprì al vero Dio, al Padre di Gesù Cristo… fece l’esperienza decisiva della sua vita…quella di Gesù Cristo crocifisso e risorto… fece l’esperienza della morte e risurrezione di Gesù come capovolgimento di tutti i criteri umani…fece l’esperienza dell’iniziazione a una vita nuova… l’esperienza dell’invio in missione… l’esperienza mistica…” Se tutto ciò non è conversione. che cos’è la conversione?  Nel suo libro intitolato ‘Paolo di Tarso evangelo di Gesù’, il Gesuita Francesco Rossi de Gasperi, che si interessa alle radici ebraiche della fede cristiana e parla con maestria e concretezza di “continuità trasfigurata” tra Prima e Ultima Alleanza ( nel nostro linguaggio tradizionale: Vecchio e Nuovo Testamento ), parla della trasfigurazione operata in Paolo dalla sua ‘ora di Damasco’. Paolo viene presentato come il grande testimone di Cristo che ha colto luminosamente la continuità trasfigurata tra Prima e Nuova Alleanza e, allo stesso tempo, la novità di quest’ultima, mediante la “rottura” significata dalla croce di Cristo Gesù crocifisso e risorto.  Apprezzo molto la precisione e la delicatezza di P. Rossi de Gasperi nelle sue presentazioni che fanno capire la conversione come una realtà completamente nuova e come le radici ebraiche del Cristianesimo dovrebbero portare a estirpare ogni radice di antigiudaismo in ambiente cristiano.   E veniamo al Papa.  Papa Benedetto XVI ha descritto la conversione di Paolo così: “Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo.”  Citerò ancora il Papa. Intanto però a quanto di mio ho detto sopra, aggiungo questo pensiero: Il fatto che Paolo sia rimasto ebreo, lo prendo, per così dire, per scontato. Infatti la Grazia non distrugge il bene che trova nella persona, ma costruisce sulla realtà che trova, purificandola e facendola crescere. Su di essa poi costruisce una realtà che si presenta come completamente nuova e gratuita, come fu l’incontro di Paolo con Cristo Gesù.  In comunione con questo grande apostolo e con tutta la Chiesa, mettiamoci in cammino per un processo di crescita rinnovato, perché, lungo la strada, anche noi abbiamo a fare un’esperienza profonda del Cristo e abbiamo ad essere conquistati dal suo amore e veramente trasformati da Lui. Ma Cristo deve diventare un’esperienza per noi, con i tre aspetti costitutivi di questa esperienza: – la convinzione che Cristo non è soltanto un grande personaggio del passato, come lo è per molti. Cristo è vivo. E’ questa la nostra grande benedizione proclamata da Paolo in modo così forte: 1Cor 15:12-22 – la convinzione che la presenza di Cristo non è passiva. Cristo agisce per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo: Rm 8,31-39  – l’ospitalità, cioè l’accoglienza di Cristo e della sua azione salvifica a livello mentale, di cuore e viscerale: Fil 2,5-11   ALCUNE CONSEGUENZE FORTI DELL’INCONTRO CON CRISTO – Una grande umiltà che si traduce in obbedienza a Cristo Gesù nella consapevolezza che è Lui che dà la vita, è Lui che ci sostiene, è soltanto in Lui che troviamo salvezza. L’unica cosa che noi possiamo fare per la salvezza nostra e degli altri, è lasciarci amare da Lui ed è collaborare con Lui, mettendo tutta la nostra fiducia nella potenza dello Spirito. – La contemplazione di Cristo per rivestirci di Lui. Nel nostro ordine di valori e di realtà importanti, abbiamo tre elementi che presento secondo la loro importanza: la mistica (l’esperienza spirituale del lasciarci amare da Dio); l’etica (che indica ciò che è per la gloria di Dio e ciò che è bene per noi e per gli altri. A me piace mettere l’etica nel contesto di Mi 6,8: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare teneramente e camminare umilmente con il tuo Dio”; l’ascetica (disciplina spirituale, cammino di vita nello Spirito del Signore). – Il passaggio dalla prospettiva dell’autoreferenzialità, alla prospettiva ‘aperta’ che ci fa considerare prima di tutto Cristo e l’altro. Siamo strumenti vivi di salvezza nelle mani di Cristo Gesù per gli altri e con gli altri.  – Il bisogno di evitare ogni estraneità, ogni stile ‘assente’ nel relazionarci agli altri, valorizzando così il Vangelo e considerando le persone che incontriamo, come grandi doni di Dio e nelle situazioni concrete della loro vita. Ciò significa comunicazione e comunione.  – Il passaggio dall’atteggiamento di chi “lavora per Dio” – che presenta il pericolo dell’attivismo e dell’amare più la vigna del Signore che il Signore della vigna – a quello di chi “fa il lavoro di Dio” – che implica discernimento – e poi a quello di chi ha questo grande desiderio: lasciare che “Dio lavori in lui e per mezzo di lui”.  E’ quest’ultimo l’atteggiamento che ci fa essere contemplativi in azione e che fa sì che il nostro apostolato sia un condividere con gli altri ciò che Dio ci dona nella contemplazione (l’unico apostolato che è efficace!).   Paolo, apostolo per vocazione! E anche noi chiamati come lui. La vocazione di ogni apostolo: un dono di grazia e un impegno esigente. Ma niente paura! Ricordiamo la profonda convinzione  di Paolo: Quando ci fidiamo del Signore, non possiamo essere delusi.   L’INCONTRO DI CRISTO CON PAOLO E IL NOSTRO INCONTRO CON LUI (Da MISSIONE COME INCONTRO di Nicoletta Gatti in COMUNIONE E MISSIONE, della diocesi di Trento)   Riporto questo testo perché, nella sua semplicità e chiarezza – così mi sembra -, fa sentire l’incontro di Cristo con Paolo non solo come missione, ma anche come conversione:  «E avvenne che mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo, e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”» (At 9,3-4). C’è un incontro nella vita di Paolo che costituisce un punto di non ritorno. Continuamente nelle sue lettere si riferisce a questo momento, come se la sua esistenza, la sua preghiera e il suo annuncio fossero una continua e crescente interiorizzazione dell’esperienza vissuta (Gal 1,15-17; Fil 3,7-13). Ma cosa accade lungo la strada? Paolo sperimenta la vicinanza di Dio, incontra il Messia a lungo atteso, l’Emmanuele annunciato dai profeti. Lo incontra come il Figlio crocifisso e Risorto, il Figlio dato per la salvezza del mondo. Da questo momento Paolo vive per Lui: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore manifestato nella croce diviene la forza trainante della sua esistenza: «…l’amore di Cristo ci spinge» (2Cor 5,14). Nella lettera ai Romani (8,35-37), leggiamo parole che deve aver ripetuto a se stesso migliaia di volte: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la per­secuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati». Persecuzione e sofferenza sono accolte come partecipazione alla passione di Cristo (1Tes 2,8; 2Cor 4,10), come immersione nella sua morte (Rom 6,4-6), perché una cre­atura nuova possa venire alla luce: una persona che ha come proprio io, l’io di Gesù. In Lui, Paolo può vivere persino la prigio­nia e la morte come un’occasione per crescere nella «piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), ed imparare a condividere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5): lo svuotamento, l’incarnazione, l’umiltà, l’obbedienza, il farsi «tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).  Dall’intimità con Gesù, nasce la missione. La passione bruciante per l’annuncio, la gelosia materna verso le Chiese da Lui fondate, i viaggi continui, i pericoli affrontati… tutto scaturisce dall’amore sovrabbondante che sperimenta nella relazione con Cristo. Da questa relazione parte ed a questa relazione vuole ricondurre le comunità da lui fondate.  Luca ha compreso bene questo: nel libro degli Atti, l’at­tività di Paolo è descritta come «testimonianza» (cfr. 18,5; 20,21.24; 23,11) e «servizio» (cfr. 20,19; 26,16). Afferrato e posseduto da Cristo è posto come segno della potenza di Dio dinanzi alle nazioni (cfr. 13,47):… Paolo è «servo del Dio Altissimo» (At 16,17), un Dio che lo ha conquistato (Fil 3,12), trasformando il suo cuore nel cuore di Cristo. Credo che questo sia il segreto di Paolo. Egli ripete anche a noi che la Missione nasce, cresce e respira a tu per tu con una persona: Cristo…”   “O Dio che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi a noi di essere testimoni della tua verità e di camminare sempre nella via del Vangelo. Per Cristo nostro Signore.” (dalla liturgia)

Salvador Dali, The Ascension of Christ

Salvador Dali, The Ascension of Christ dans immagini sacre

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BRANO BIBLICO SCELTO – EBREI 9,24-28; 10,19-23

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BRANO BIBLICO SCELTO – EBREI 9,24-28; 10,19-23

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. E invece una volta sola, ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Avendo dunque, fratelli, piena fiducia di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero in pienezza di fede, con il cuore purificato dalla cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso.

COMMENTO Ebrei 9,24-28; 10,19-23 L’efficacia del sacerdozio di Cristo Il brano è situato nella parte centrale dello scritto in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo (Eb 5,11 – 10,39). Il centro di questa sezione consiste nella proclamazione di Cristo come Sommo sacerdote dei beni futuri (Eb 9,11). Essa è preceduta da un invito all’attenzione e alla generosità (5,12-6,20)  e da un approfondimento su Gesù sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek (7,1-28). Per illustrare la perfezione di questo sacerdozio, esso viene confrontato con quello antico, terrestre prefigurativo (8,1-6), espressione di un’alleanza imperfetta e provvisoria (8,7-13) e dotato di istituzioni inefficaci (9,1-10). Il sacerdozio di Gesù invece comporta nuove istituzioni da lui rese efficaci (9,11-14), una nuova alleanza capace di operare la purificazione (9,15-23) e un nuovo culto che apre l’accesso al santuario celeste (9,24-28), causa di salvezza eterna (10,1-18). Questa sezione termina con un invito alla fedeltà e all’impegno (10,19-39) Il testo proposto dalla liturgia è preso dal brano che descrive efficacia del sacerdozio di Cristo in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste; ad esso è aggiunta una parte dell’esortazione finale.

Ingresso di Cristo nel «santuario» celeste (9,24-28) Nella prima parte del brano liturgico (vv. 24-26) la «perfezione» del sacrificio di Cristo viene identificata nel fatto che egli ha avuto accesso a Dio nel santuario «celeste». Ispirandosi a Es 25,9, l’autore dello scritto ritiene infatti che il vero santuario si trovi in cielo, dove risiede Dio, mentre il Santo dei santi, cioè la parte più sacra del tempio di Gerusalemme, ne era solo una «figura». Inoltre egli afferma che Cristo ha offerto non il sangue degli animali, ma se stesso a Dio «una volta sola, alla pienezza dei tempi». Siccome egli è il Figlio, incaricato di portare a compimento il piano salvifico di Dio (cfr. 4,8), la sua offerta volontaria ha avuto un’efficacia infinita, eliminando una volta per tutte i peccati. Ciò gli toglie la necessità di entrare nel santuario ogni anno, come era costretto a fare l’antico sommo sacerdote. Infine l’accesso definitivo al Padre consente a Cristo di essere continuamente «presente» al suo cospetto «in nostro favore». Proprio per questo il suo sacerdozio è ancora in funzione: Cristo non solo ci ha salvato, ma continua a salvarci. L’autore ribadisce in forma ancora più sintetica quanto in precedenza aveva già detto contrapponendo il sacerdozio di Cristo a quello levitico: «Quelli sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo; egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,23-25). L’affermazione riguardante il carattere unico e definitivo del sacrificio di Cristo viene poi ribadita mediante un’analogia ripresa dall’esperienza umana (vv. 27-28). La morte, strettamente collegata con il «giudizio», è presentata qui come un evento definitivo in quanto, da una parte, chiude l’esperienza terrena dell’uomo e, dall’altra, rappresenta il momento cruciale in cui viene fatta una valutazione inappellabile della vita ormai conclusa. Secondo l’autore tutto ciò si verifica, a un livello più alto, in Cristo: la sua morte è definitiva soprattutto perché comporta la liberazione di tutti gli uomini dal peccato. E appunto per questo quando «apparirà una seconda volta» per il giudizio, la sua venuta non avrà più a che fare con il peccato. Il suo «giudizio» servirà solo a separare coloro che «lo aspettano per la loro salvezza» da coloro che l’hanno respinto. Implicitamente dunque si mettono in guardia i credenti dal trascurare la «salvezza» che egli ha offerto loro «una volta per tutte». In seguito l’autore li avvertirà che, se peccheranno dopo aver ricevuto la verità, rimarrà loro solo «una terribile attesa del giudizio» (10,27): infatti «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» (10,31). La salvezza, guadagnata a così caro prezzo da Cristo, è troppo grande perché possa essere sottovalutata o respinta.

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08 MAGGIO 2016 | 7A DOMENICA: ASCENSIONE – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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08 MAGGIO 2016 | 7A DOMENICA: ASCENSIONE – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Uomini di Galilea,perché state a guardare in cielo?

La festa dell’Ascensione non è certo esauribile in un gioco di « traslazione geografica », per cui Gesù abbandona la terra e viene assunto in cielo, come forse certe espressioni del linguaggio biblico e liturgico potrebbero a prima vista indurci a credere. Se questo fosse, essa sarebbe più un avvenimento di tristezza che di gioia, come invece tutta la Liturgia mette festosamente in evidenza a incominciare dalla Colletta, fino al Salmo responsoriale (Sal 47,2-3.6-8), al Prefazio. Quest’ultimo, infatti, così canta: « Per questo mistero, nella pienezza della gioia pasquale, l’umanità esulta su tutta la terra ». L’umanità non potrebbe « esultare », se Cristo si fosse in qualche maniera « allontanato », salendo al cielo! La Colletta ribadisce il motivo della gioia, dandone anche la motivazione teologica: « Esulti di santa gioia la tua Chiesa, Signore, per il mistero che celebra in questa Liturgia di lode, poiché in Cristo asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del tuo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere il nostro capo nella gloria ». Come si vede, la ragione è duplice: la prima è che, in virtù della legge di solidarietà che lega le membra al capo, anche il « corpo » della nostra umanità è stato sublimato con Cristo nel giorno della sua Ascensione; la seconda è che, di fatto, questa sublimazione si realizza già in questa fase terrena, « nella speranza » però del suo perfezionamento ultimo. Tutto questo sta a dire che l’Ascensione di Cristo al cielo è solo una immagine spaziale-geografica per esprimere una realtà più profonda: e cioè l’ingresso definitivo del Risorto nella « gloria » del Padre, alla quale ormai anche noi abbiamo « fiducia » di « accesso » nella potenza dello Spirito Santo (cf Ef 3,12; 2,18). Dopo l’Ascensione il « cielo » è più vicino alla « terra », nel senso che ormai i cristiani sono anch’essi immersi nella « gloria » di Dio, che non è più confinata in un luogo, ma riluce dovunque ci sia un credente che porta Cristo nel proprio cuore.

« Avrete forza dallo Spirito che scenderà su di voi e mi sarete testimoni… »

Luca è lo scrittore del N.T. più interessato al mistero dell’Ascensione. Infatti ce ne parla due volte: nella finale del suo Vangelo (24,46-53) e all’inizio degli Atti degli Apostoli, dove riprende il tema, ampliandolo (1,1-11). Dato il maggior rilievo che ha l’Ascensione nel libro degli Atti, incominciamo da questo racconto. I primi due versetti riassumono il contenuto del Vangelo di Luca e, nello stesso tempo, lo agganciano a tutta la tematica che egli intende sviluppare nel suo nuovo libro: « Nel mio primo libro ho già trattato, o Teofilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli Apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo… » (1,1-2). L’ »assunzione » di Cristo al cielo, ad opera del Padre, in realtà non è una conclusione, ma un inizio: l’inizio del tempo dello Spirito, che guiderà gli Apostoli e i credenti di tutti i tempi a rendergli « testimonianza » davanti a tutti gli uomini, « fino agli estremi confini della terra » (v. 8), formando così il nuovo « regno d’Israele » (cf v. 6) che è la Chiesa. Proprio perché segna l’inizio di una storia così grandiosa, di cui Luca nel suo libro ci darà soltanto alcune linee di abbozzo primordiali, l’Ascensione per lui è molto importante: essa non è perciò un addio, ma un « coinvolgimento » più profondo, anche se misterioso, di Cristo nella vita dei credenti. « Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre, « quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni »" (vv. 3-5). Il prolungato contatto del Cristo risorto (« quaranta giorni »: v. 3) con i suoi Apostoli è inteso a stabilirli nella convinzione che non c’è « frattura » fra l’esperienza che essi hanno avuto di lui prima di Pasqua e quella che stanno avendo adesso; così come non ci sarà frattura con l’esperienza che essi faranno dello Spirito a incominciare dalla Pentecoste « fra non molti giorni » (v. 5), proprio perché è lui che con la sua stessa bocca lo ha loro « promesso » da parte del Padre (v. 4). Di nuovo, si vede anche meglio come l’Ascensione non è un abbandono, ma una « presenza » più intima e corroborante di Cristo ai suoi. In parte sembra che gli Apostoli questo abbiano intravisto, quando gli chiedono: « Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele? » (v. 6). Più d’uno interpreta questa domanda come espressione di un’attesa messianica ancora terrenistica. A nostro parere essa esprime, invece, qualcosa di più profondo: la convinzione che con il dono dello Spirito siano venuti gli « ultimi » tempi e perciò si instauri davvero il « regno » di Dio. Cristo nella sua risposta non lo nega, soltanto invita gli apostoli a non perdersi in calcoli da astrologhi perché il « regno » ha da venire proprio anche per la loro opera di annunzio e di « testimonianza » davanti al mondo: « Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra » (vv. 7-8). Il « regno » non si esaurisce dunque nello spazio limitato di qualche giorno o di qualche anno, ma si coestende a tutta la storia, se è vero che gli Apostoli, e quelli che a loro succederanno, dovranno portare la « testimonianza » evangelica « fino agli estremi confini della terra » (v. 8). E a questo contribuirà precisamente l’Ascensione di Cristo, il quale entra così nella pienezza della sua « potenza » salvifica presso il Padre. È quanto risulta dal tratto che segue, il quale sembra fotografare gli ultimi momenti dell’esperienza umana del Cristo: « Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo »" (vv. 9-11). Effettivamente gli Apostoli avvertono il lento « svanire » di Cristo nell’aria come una separazione; e perciò lo seguono « fissando » il cielo con tristezza e con nostalgia, fino a che i due Angeli, apparsi « in bianche vesti », come già presso la tomba vuota (cf Lc 24,4), non li richiamano alla realtà. E la realtà è che Cristo « tornerà » ancora nella sua gloria come « giudice » ultimo degli uomini e della storia. Però in questo frattempo gli Apostoli e tutti « coloro che per la loro parola avranno creduto in lui » (cf Gv 17,20) dovranno « testimoniarlo » davanti al mondo. La fede non consuma la storia e neppure ci sottrae alla storia! In fin dei conti, ognuno di noi desidera nel fondo del proprio cuore che il « regno » si maturi proprio nel nostro « tempo »: avremmo la vittoria già assicurata! Gli Angeli dell’Ascensione ci rimandano invece alla storia e ci dicono che è proprio lì, in questo campo aperto dove il bene e il male si affrontano, che il regno di Dio si costruisce giorno per giorno anche con la nostra collaborazione. È quanto ci ricorda il Concilio Vaticano II: « Certo, siamo avvertiti che « niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso » (cf Lc 9,25). Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo ». L’Ascensione, perciò, più che un invito a evadere dalla terra è un invito ad assumerla come luogo di salvezza, dove già risplende, sia pure parzialmente, la luce dei « cieli nuovi » e della « terra nuova », « nei quali avrà stabile dimora la giustizia » (2 Pt 3,12).

« Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo »

Il brano finale del Vangelo di Luca coincide sostanzialmente con il racconto degli Atti, però con alcune peculiarità di notevole interesse teologico. Prima di tutto, si dà il « contenuto » dell’annunzio che gli Apostoli devono portare e « testimoniare » a « tutte le genti », per comando di Cristo: « Così sta scritto: Il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto » (Lc 24,46-49). Il kérigma apostolico abbraccia, dunque, il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore con in più l’annunzio del « perdono dei peccati » offerto a « tutti » gli uomini. Ma dove troveranno la « forza » gli Apostoli per annunziare un messaggio così incredibile e per renderne « testimonianza » anche con la morte, se sarà necessario? Solo nella « potenza » dello Spirito (v. 49) che Cristo, attuando le sue promesse », invierà su di loro « dall’alto » (v. 49) il giorno di Pentecoste. Anche il dono dello Spirito, perciò, è il frutto dell’Ascensione di Cristo al cielo, in quanto presa di possesso definitiva della sua « gloria » e della sua « potenza » salvifica, come abbiamo già detto. In secondo luogo, è interessante l’atteggiamento « liturgico » di Gesù, che ascende al cielo « benedicente »: esso è ricalcato su quello del sommo sacerdote ebraico che penetra nel Santo dei santi (vv. 50-51), mentre l’assemblea, rappresentata qui dai discepoli, si prostra in adorazione e continua la sua lode nel tempio: « Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio » (vv. 50-52). La celebrazione liturgica, soprattutto quella eucaristica, abolisce le distanze fra Cristo e i suoi: il cielo e la terra si toccano quando rinnoviamo i gesti « sacramentali » che ci salvano! Cristo asceso al cielo ci è più vicino di quando era in mezzo a noi.

« Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo… ma nel cielo stesso »

La seconda lettura, ripresa dalla lettera agli Ebrei (9,24-28; 10,19-23), per essere ben compresa va inquadrata nella tematica liturgico-sacerdotale che essa porta avanti con ampia e coerente trattazione. Volendo esaltare il sacerdozio di Cristo, l’Autore lo mette a confronto con quello dell’Antico Testamento e ne dimostra l’infinita trascendenza. Quello che certi riti, anche solenni, dell’Antico Testamento intendevano significare, ma non riuscivano ad attuare, Cristo l’ha invece realizzato. Così, ad esempio, l’ingresso una volta all’anno nel « Sancta Sanctorum » da parte del sommo sacerdote, in occasione della festa dell’Espiazione, voleva certamente esprimere la riconciliazione di tutto il popolo con Dio e la sua « accessibilità ». Ma il fatto di dover ripetere questo rito « ogni anno », non significava pure che in realtà Dio rimaneva sempre l’Impenetrabile, l’Irraggiungibile? Applicando tutti questi « simboli » liturgici a Cristo, l’Autore intende dimostrare che Cristo mediante il suo « ingresso » nella gloria celeste, dopo il sacrificio della croce, ha aperto « per sempre » e « per tutti » l’accesso a Dio: egli è entrato per primo là dove « tutti », e non solo il sommo sacerdote come nell’Antico Testamento, sono ormai invitati ad entrare. « Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui… E come è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza » (Eb 9,24-25.27-28). Le ultime espressioni vogliono dire la « definitività » della morte salvifica di Cristo, che lo ha introdotto « per sempre » nella gloria del « cielo »: di là ritornerà solamente per il « giudizio » finale. I versetti che seguono ribadiscono lo stesso pensiero, ma nello stesso tempo esortano i lettori ad avanzare con « cuore sincero » e con « pienezza di fede » per la « via nuova », che Cristo medesimo ha « inaugurato » nel suo ingresso nella gloria: « Avendo dunque, fratelli, piena fiducia di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, in pienezza di fede, con il cuore purificato da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura… » (10,19-23). Il Cristo, che è salito al cielo, ci dà piena garanzia che anche noi potremo ascendere al « santuario » celeste, anche in mezzo alle difficoltà della vita presente, alle tentazioni e alle seduzioni del peccato. L’importante è mantenersi « fedeli » alle promesse del nostro Battesimo (« il corpo lavato in acqua pura »: v. 22) ed avere piena fiducia in Gesù, « sacerdote grande sopra la casa di Dio » (v. 21), che anche in cielo intercede « in nostro favore » (9,24). Con una « via » così luminosa da percorrere, che poi è Cristo stesso che ci trascina dietro di sé, perché dovremmo aver paura? L’Ascensione di Gesù è anche la nostra « ascesa » verso la vita che non tramonta.

Settimio CIPRIANI  (+)

I MEDITAZIONE – I CONTESTI EVANGELICI DEL PADRE NOSTRO – CARLO MARIA MARTINI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/martini_padrenostro2.htm

I MEDITAZIONE – I CONTESTI EVANGELICI DEL PADRE NOSTRO – CARLO MARIA MARTINI

La prima meditazione che vi propongo sarà piuttosto breve, direi introduttiva e anche un po’ esegetica, formale, pur restando valido quanto abbiamo detto. La dividerò in tre parti. Una prima parte di lectio, dove ci fermeremo sui versetti di Lc 11 e di Mt 6 riferiti al Padre Nostro. Poi una seconda parte di meditatio, in cui proporrò qualche riflessione sintetica sui contesti del Padre Nostro, sull’occasione in cui viene insegnato. Per concludere con una contemplatio nella quale vorrei mettere a fuoco quali atteggiamenti ci sono suggeriti per questi giorni dai brani evangelici. Sappiamo che i vangeli in cui il Padre Nostro è riportato sono due. E c’è da stupirsi, perché vorremmo che fossero tre, vorremmo che pure in Marco ci fosse il Padre Nostro. Gli esegeti discutono se non l’ha riferito perché non lo conosceva oppure perché non era preoccupato di tramandare tutte le parole di Gesù.

Il Padre Nostro nel vangelo di Luca Leggiamo anzitutto Lc 11. Il contesto in cui il Padre Nostro viene insegnato si situa durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme che inizia in 9,51, quindi già abbastanza avanti nella sua biografia. Ricordiamo che a Gerusalemme c’è una tradizione, testimoniata dalla basilica del Pater noster, secondo cui la preghiera sarebbe stata insegnata là, sul monte degli Ulivi, verso la fine della vita di Gesù. In ogni caso, per Luca l’insegnamento del Padre Nostro è tardivo. – «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare» (11, 1a). Questo è avvenuto molte volte nella vita di Gesù: per esempio la notte precedente la scelta dei dodici apostoli (cf Lc 6, 12); la notte seguente la moltiplicazione dei pani, sempre presso il lago («Salì sul monte, solo, a pregare» – Mt 14,23); la mattina dell’inizio del suo ministero a Cafarnao, quando si alza presto e va in un luogo appartato a pregare («Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» – Mc 1,35); al Getsemani, sul Tabor e in altre circostanze ancora. – E proprio in una di queste occasioni, «quando ebbe finito» – nessuno ha voluto interromperlo, vedendolo molto raccolto e concentrato – «uno dei discepoli gli disse: « Signore, insegnaci a pregare »» (11, 1b). È interessante che la domanda sia posta da uno dei discepoli, non da tutti e non da un discepolo qualificato come Pietro o Giacomo o Giovanni. Egli esprime il desiderio comune, che gli altri non osavano manifestare. – E continua: «Come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (11,1c). Noi non sappiamo nulla della preghiera insegnata dal Battista ai suoi discepoli, ma è probabile che egli, come avveniva nella comunità di Qumran, desse indicazioni in proposito. Qui comunque si suppone che il Battista insegnava a pregare. Non è facile capire che cosa il discepolo chiedeva veramente. Potremmo rivolgerci a lui e domandargli: spiegaci che cosa volevi. Volevi che Gesù ti insegnasse con quale contenuto bisogna pregare? Lo si dedurrebbe dalla risposta; e tuttavia ci stupisce, perché di contenuti gli Ebrei ne avevano già tanti, basti pensare all’immensa ricchezza dei salmi. Oppure la tua domanda era sul modo di pregare, quel modo che Gesù indica in Mt 6, 6: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto»? Era dunque sull’atteggiamento esteriore: in ginocchio, con gli occhi chiusi, in un luogo appartato? Oppure era sull’atteggiamento interiore, che sviluppa distesamente Luca quando raccomanda la perseveranza dell’ orazione (11,5-8) e afferma: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete» (v. 9)? Quale delle tre ipotesi interpreta la richiesta del discepolo? Probabilmente tutte e tre. In ogni caso Gesù prende la domanda come riferita al contenuto. – «Ed egli disse loro: « Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, / venga il tuo Regno; / dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, / e perdonaci i nostri peccati, / perché anche noi perdoniamo ogni nostro debitore, / e non ci indurre in tentazione» (11,2-4). L’istruzione viene poi prolungata nel riferimento all’ atteggiamento interiore con cui pregare, piuttosto ampio mentre la preghiera è di per sé brevissima – tre versetti, cinque domande espresse in modo lapidario. Cerchiamo di capire le parole di Gesù. – Comincia da un esempio concreto: «Poi aggiunse: « Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti, e se quegli dall’ interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzèrà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza »» (vv. 5-8). È un esempio concreto più lungo del Padre Nostro. Gesù passa quindi all’esortazione diretta, triplice: «Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (vv. 9-10). E ancora un esempio molto incisivo: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?» (vv. 11-12). Infine la conclusione: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono!» (v. 13). È interessante che non sia ripresa nessuna delle domande del Padre Nostro, ma si parla dello Spirito santo. Forse per questo una variante di manoscritti molto antichi aggiunge, dopo la richiesta del pane quotidiano: «Il tuo Spirito santo venga su di noi e ci purifichi». Gesù inizia da un contesto concreto, dalla sua preghiera, e risponde a una domanda, prima con un contenuto, poi esplicando a lungo gli atteggiamenti di perseveranza instancabile nell’ orazione. Atteggiamenti di perseveranza che saranno ripresi anche altrove nel vangelo secondo Luca, come nella parabola del giudice iniquo e della vedova importuna: «Disse loro una parabola stilla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: « C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi. E il Signore soggiunse: Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? »» (18,1-8). È questo l’atteggiamento di cui Gesù sottolinea l’importanza.

Il Padre Nostro nel vangelo di Matteo Il contesto matteano del Padre Nostro si colloca nel quadro del Discorso della montagna, che comprende i capitoli da 5 a 7 del vangelo. Dopo le antitesi del c. 5, Gesù passa, nel c. 6, a descrivere tre atti di culto, di religione: elemosina, preghiera e digiuno. Di ciascuno insiste che non vanno compiuti per essere visti dagli uomini. In tale contesto, a proposito del secondo atto di culto, è inserito il Padre Nostro. – Anche in questo caso la descrizione è assai ampia. Dapprima Gesù stigmatizza la preghiera per così dire dei religiosi ipocriti del suo popolo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini». Segue il giudizio negativo: «In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa» (6,5); a dire: ciò che hanno fatto non serve a niente. In un secondo momento sottolinea l’atteggiamento positivo: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (v. 6). È un’istruzione anzitutto sull’atteggiamento esteriore, e successivamente interiore, della preghiera: nel silenzio, nel raccoglimento, nel nascondimento. – Riprende quindi l’esortazione riferendosi ai pagani: «Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di essere ascoltati a forza di parole» (v. 7). Accenna probabilmente alle monotone invocazioni nei templi che venivano recitate all’infinito. Ricordo di aver visto in qualche rappresentazione o in qualche film, e anche visitando monasteri o templi orientali, la ruota della preghiera che viene girata ininterrottamente, così che l’invocazione sia sempre ripetuta davanti a Dio. «Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (v. 8). Viene perciò criticata la preghiera che pretende di far conoscere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno. Notiamo che c’è una certa tensione rispetto al passo di Luca che affermava: insistete nella preghiera. Gesù ammonisce: non pensate che la vostra insistenza sia magica. – Proprio in tale contesto insegna il Padre Nostra «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli / sia santificato il tuo nome; / venga il tuo Regno; / sia fatta la tua volontà, / come in cielo così in terra. / Dacci oggi il nostro pane quotidiano, / e rimetti a noi i nostri debiti / come noi li rimettiamo ai nostri debitori, / e non ci indurre in tentazione, / ma liberaci dal male» (vv. 9-13). Preghiera più lunga di quella di Luca che comprende due domande più tre; in Matteo sono tre più tre e addirittura, secondo alcuni, se si calcola l’ultima sdoppiandola, sono tre più quattro cioè sette. Gesù continua parafrasando la penultima richiesta: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (vv. 14-15).

Qualche osservazione esegetica Passando al momento della meditatio, possiamo domandarci: quale dei due contesti è il più originario? Quale delle due formule la più antica? – Gli esegeti ritengono – penso con buone ragioni- che il contesto lucano è il più antico: non siamo all’inizio dell’attività pubblica, in un primo discorso programmatico, ma forse già un po’ avanti nel ministero. E si tratta di un’occasione concreta, la preghiera di Gesù, immersa nell’ esperienza vissuta. In Matteo invece l’insegnamento sembra inserito all’interno di un discorso: «Non sprecate parole… ma dite così» (cf 6,7-9). Riteniamo perciò più probabile il contesto di Luca, pur se la questione non disturba molto l’esegesi. Anche sull’ antichità della formula si è discusso: è più antica la formula breve o la formula lunga? Oggi ci si accorda su una specie di compromesso: è più antica la formula breve di Luca, ma è più originaria la formula matteana; Matteo ha parole più arcaiche, Luca ha il contenuto più antico. Noi useremo dell’una e dell’altra delle formule; mi è sembrato tuttavia utile introdurvi alla complessità della ricerca. – Gli esegeti fanno inoltre notare che la preghiera in Luca è la terza di tre pericopi successive: la parabola del samaritano – la carità – (10, 29-37); il dialogo con Marta e Maria – l’ascolto della Parola – (10,38-42); la preghiera del Padre Nostro (11,1-4). Quasi a mettere in luce che carità, ascolto della Parola e preghiera sono inscindibili. – Nel Padre Nostro di Matteo c’è poi una peculiarità interessante. Un’ analisi attenta mostra infatti che il Padre Nostro sta esattamente al centro del Discorso della montagna. È un insegnamento per noi, perché siamo ammoniti che il Discorso della montagna non lo vive se non chi prega.

Indicazioni per la preghiera In conclusione, vi suggerisco qualche applicazione per la preghiera personale. Tutti noi, come il discepolo inno minato, abbiamo detto tante volte: «Signore, insegnaci a pregare!». Che cosa chiedevamo? – Penso che molta gente, quando pone tale domanda, non di rado desidera anzitutto raggiungere quell’unità interiore, quel raccoglimento, quel possesso di sé, quella gioia di tenersi bene in mano che è caratteristica di una preghiera profonda. Si tratta di atteggiamenti positivi e utili, ma siamo ancora nell’ambito di una preghiera psicologica, tesa a ottenere alcuni benefici: imparare a essere calmo, tranquillo, raccolto, pacificato, coordinato, senza una sarabanda di pensieri che mi frulla per la testa . Di fatto coloro che si dedicano alle pratiche yoga o zen imparano simili cose: il raccoglimento, il dimenticare tutto, l’astrarsi dal mondo esteriore, il concentrarsi su un unico punto, magari sul nulla, l’eliminare ogni pensiero per vivere nella calma più assoluta. Forse noi pure abbiamo bisogno di tali atteggiamenti per pregare bene. Ci vuole un minimo di concentrazione e unità, proprio perché la preghiera è anche salute psicologica. – Noi vogliamo tuttavia chiedere a Gesù di insegnarci a pregare nello Spirito, soprattutto di insegnarci la disposizione interiore e quali siano le richieste da presentare. Spesso quando iniziò la preghiera apro il testo della lettera ai Romani, là dove si dice che nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare (cf 8,26a) e dico: Signore, vedi che non so pregare. Però tu hai promesso lo Spirito in aiuto alla mia debolezza e lo Spirito intercede per me «con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (8, 26b-27). Quindi per me, per noi imparare a pregare vuol dire imparare ad affidarci allo Spirito che ci muove a recitare il Padre Nostro, fino a raggiungere quel bellissimo stato d’animo su cui ho meditato molte volte, in tanti momenti della mia vita: «Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,19-20). – Oltre a questa disposizione fondamentale di abbandono allo Spirito, per il cammino degli esercizi, vorrei suggerirne qualche altra che Gesù ha messo in luce. Abbiamo visto che ne ha evidenziate soprattutto quattro: il nascondimento, la sobrietà delle parole, la perseveranza e la fiducia filiale. Pregando davanti a Dio, ognuno può scegliere quale di questi atteggiamenti gli è più necessario. Certamente è necessaria la fiducia filiale: il Padre non mi lascerà mancare il pane quotidiano quando glielo chiedo. Altrettanto necessaria è la perseveranza: in questi giorni proveremo fatica, caldo, sonno, nervosismo, aridità. Donaci, Signore, di perseverare! E naturalmente abbiamo bisogno del nascondimento, perché gli esercizi sono la preghiera nascosta per eccellenza, sconosciuta al mondo e conosciuta solo da Dio. Abbiamo inoltre bisogno di una certa sobrietà, che consiste non tanto nel pregare poco, bensì nell’imparare una preghiera distesa, non nervosa, che non cerca di forzare Dio, ma si affida amabilmente a Lui.

PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE – LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

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PAOLO APOSTOLO E TESSITORE DI TENDE – LA BOTTEGA COME LUOGO DI ATTIVITÀ MISSIONARIA

A CURA DELLA REDAZIONE  

L’articolo è tratto liberamente da una riflessione di Ronald F. Hock in The Social Context of Paul’s Ministry: Tentmaking and Apostleship, Philadelphia, Fortress 1980.  

In uno dei suoi trattati politici, Plutarco critica alcuni filosofi perché rifiutavano di conversare con le autorità nel timore di essere considerati ambiziosi o troppo ossequienti. Per evitare il diffondersi di una tale situazione, Plutarco suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da avere l’opportunità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento di Plutarco, che la bottega fosse un luogo che potesse ospitare discorsi intellettuali, è interessante e fa sorgere l’interrogativo se altre botteghe, specialmente quelle usate ai suoi tempi da Paolo, il tessitore di tende, nei suoi viaggi missionari, siano state utilizzate allo stesso modo nelle città della Grecia orientale. Questa tesi, pur avanzata dagli studiosi, non è mai stata studiata a fondo. Questo articolo è un tentativo di approfondire l’esame dei contesti sociali in cui si sono svolti la predicazione e l’insegnamento dei primi cristiani. È noto che Paolo era un tessitore di tende. Questo suo lavoro è sempre stato considerato come un’eredità della sua tradizione ebraica. L’attività lavorativa di Paolo è considerata come un residuo della sua vita di fariseo ed è spiegata nei termini di un ideale rabbinico che cerca di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere. Vorremmo ora portare il dibattito al di là dell’aspetto strettamente ebraico.   LA BOTTEGA DI PAOLO  Per una discussione sull’uso missionario della bottega da parte di Paolo, si deve sottolineare l’evidenza che lo colloca nelle botteghe delle città da lui visitate. Luca indica che  Paolo aveva lavorato come tessitore di tende solo in Corinto e Efeso (At 18,3; 20,34); ma le Lettere di Paolo aggiungono Tessalonica (1 Ts 2,9) e – più importante – afferma che in generale la pratica missionaria era di lavorare per potersi mantenere (1 Cor 9,15 – 18). E allora, il riferimento di Paolo al lavoro di Barnaba per sostenere se stesso (1 Cor 9,6) dovrebbe coprire i cosiddetti primi viaggi missionari e la sua permanenza in Antiochia (At 13,1 – 14,25; 14,26-28; 15,30-35), il tempo in cui Luca pone Barnaba come suo compagno di viaggio. Il riferimento di Paolo al suo lavoro a Tessalonica (1 Ts 2,9) e la sua conferma dell’affermazione di Luca riguardante Corinto (1 Cor 4,12) si applicherebbe anche al secondo viaggio missionario (At 16,1 – 18,22). Il riferimento al suo lavoro in Efeso (cfr. 1 Cor 4,11: « fino ad ora »), di nuovo conferma il ritratto di Luca e la sua insistenza nel mantenersi economicamente, durante un futuro viaggio a Corinto (2 Co 12,14), confermerebbe questa pratica anche nel terzo viaggio missionario (At 18,23 – 21,16). In At 28,30 vediamo Paolo presumibilmente lavorare in seguito anche a Roma. In breve, le Lettere e gli Atti mettono in evidenza l’Apostolo nelle botteghe dove predicava e insegnava. Ma che cosa faceva Paolo nella bottega, oltre al suo lavoro di tessitura? Di cosa parlava? Sfruttava l’occasione per una predicazione missionaria? Una risposta affermativa sembra verosimile, dato il suo impegno nella predicazione del Vangelo. Però né le Lettere, né gli Atti dicono esplicitamente che Paolo utilizzava la bottega per la predicazione. Il silenzio delle Lettere in proposito non è un problema, perché Paolo è di solito silenzioso o vago sulle circostanze della sua predicazione missionaria (cfr. per esempio 1 Cor 2,1-5). Con gli Atti tuttavia la situazione è diversa. Il silenzio di Luca negli Atti può essere parzialmente spiegato perché l’evangelista era interessato a raccontare le esperienze di Paolo nella sinagoga. Solo in Atene, il centro della cultura greca e della filosofia, questo interesse è lasciato da parte in deferenza alle esperienze di Paolo al mercato (At 17,17) e specificatamente alle sue conversazioni con i filosofi stoici ed epicurei (ver.18) che portarono al discorso dell’Apostolo  all’Aeropago (22-31). Qui Luca si avvicina molto nel menzionare le conversazioni della bottega, ma non lo fa, poiché le discussioni con i filosofi sono probabilmente da collocarsi sotto i portici della città, forse la Stoà di Attalos ad Atene. La possibilità di fare conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle Lettere di Paolo: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica (1 Ts 2,1-12). Al versetto 9, il lavoro e la predicazione sono accennati insieme: « Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio ».   L’ATTIVITÀ MISSIONARIA  Se questi sei passi scelti dagli Atti e dalle Lettere parlano di Paolo che utilizzava le botteghe come contesti sociali per la sua predicazione missionaria, bisogna interpretare questi contesti come entità a sé, oppure confrontarli con la vita intellettuale delle città che egli ha visitato. Se la bottega è stata un contesto sociale dell’attività missionaria, per Luca questa era solo uno dei tanti luoghi in cui l’Apostolo predicava. Più frequentemente egli indica la sinagoga. Paolo predica nelle sinagoghe di Damasco (At 9,20), Gerusalemme (At 9,29), Salamide (At 13,5), Antiochia di Pisidia (At 13, 14, 44), Iconio (At 14,1), Tessalonica (At 17,1), Berea (At 17,10), Atene (At 17,17), Corinto (At 18,4) e Efeso (At 18,19; 19,8). Un altro contesto missionario importante è la casa, specialmente quelle di Lidia a Filippi (At 16,15, 40), di Tizio Giusto a Corinto (18,7) e di un cristiano non identificato a Triade (20,7-11) e di parecchie persone a Efeso (20, 20). Altre case devono essere incluse, anche se Luca non vi fa menzione di attività missionaria: la casa di Giasone a Tessalonica (17, 5-6), di Aquila e Priscilla a Corinto (18, 3), di Filippo a Cesarea (21, 8), di Mnasone di Cipro, presumibilmente a Gerusalemme (21, 16-17) e forse quelle di parecchi altri (cfr. 16,34; 21, 3-5, 7). Ulteriori segni che indicano la varietà dei contesti sociali nella missione di Paolo sono la residenza del proconsole di Cipro, Sergio Paolo  (13, 6-12), la porta della città in Listra (14, 7, 15-18), la scuola di Tiranno a Efeso (19, 9-10) e il pretorio a Cesarea (24, 24-26; 25, 23-27). Insomma, se la bottega era un contesto sociale per l’attività missionaria di Paolo, era solo uno dei tanti.   IL PULPITO, LA PIAZZA E LA BOTTEGA  La pratica dei filosofi sopra descritta può aiutarci a capire anche ciò che avveniva nella bottega di Paolo. Lo possiamo immaginare nelle lunghe ore al tavolo di lavoro mentre taglia e cuce le pelli per fare tende. Egli si rende autonomo economicamente, ma ha anche possibilità di portare avanti il suo impegno missionario (cfr. 1 Ts 2, 9). Seduti nella sua bottega troviamo i suoi compagni di lavoro o qualche visitatore, clienti e forse qualche curioso che aveva sentito parlare di questo « filosofo » tessitore di tende appena arrivato in città. In ogni caso sono tutti là ad ascoltare e a discutere con lui, che porta il discorso sugli dei ed esorta i presenti ad abbandonare gli idoli e a servire il Dio dei viventi (1, 9-10). In questo modo, certamente qualcuno degli ascoltatori, un compagno di lavoro, un cliente, un giovane aristocratico o forse anche un filosofo cinico, sarebbe stato curioso di sapere di più di Paolo, delle sue chiese, del suo Signore e sarebbe tornato per  un colloquio privato (2, 11-12). Da queste conversazioni di bottega alcuni avrebbero accolto le sue parole come Parola di Dio (2, 13). Per Paolo, il missionario, quindi, il pulpito della sinagoga non bastava, ma usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. « Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).      

A CURA DELLA REDAZIONE   Il contesto storico Esaminiamo la pratica paolina nel contesto della vita intellettuale della Grecia orientale dei suoi tempi. Ad Atene, nel quinto e quarto secolo a. C., alcuni contesti specifici, inclusa la bottega, erano diventati normali per l’attività intellettuale ed ancora esistevano ai tempi di Paolo. Senofonte descrive Socrate mentre discute di filosofia in varie botteghe, tra cui quelle di un pittore, di uno scultore, di un fabbricante di armature. Platone menziona le bancarelle del mercato come abituale ritrovo di Socrate. Naturalmente la bottega non era il suo solo ritrovo: lo si poteva trovare in altre parti del mercato, come la stoà o altri edifici pubblici, nel ginnasio o nelle case di amici. In un certo senso la pratica di Socrate era tipica dei suoi giorni, data l’abitudine della gente di frequentare i negozi e i banchi del mercato. Ma, in un altro senso, l’abitudine di Socrate era molto atipica, non solo a causa dell’alto contenuto intellettuale delle sue conversazioni, ma anche per l’effetto limitato che questa sua pratica ebbe sui filosofi che lo seguirono. A giudicare da quanto riferisce Diogene Laerzio, i discepoli di Socrate non discutevano di filosofia nella bottega, anche se alcuni di essi da studenti lo avevano accompagnato, per esempio, alla bottega del sellaio.  I seguaci di Socrate, scegliendo il ginnasio o altri edifici, praticavano una filosofia meno pubblica rispetto al loro maestro. Il numero delle persone che partecipava a queste discussioni nelle botteghe non poteva essere grande. Spesso erano solo in due, Socrate con Simone e Crate con Filisco. Gli argomenti trattati erano molti: dalle discussioni che riguardavano i commerci degli artigiani a temi più interessanti: gli dei, la giustizia, la virtù, il coraggio, la legge, l’amore, la musica, ecc.

Moses Breaking the Tables of the Law (1659) by Rembrandt. (Gemäldegalerie, Berlin)

Moses Breaking the Tables of the Law (1659) by Rembrandt. (Gemäldegalerie, Berlin) dans immagini sacre 800px-Rembrandt_Harmensz._van_Rijn_079

https://en.wikipedia.org/wiki/Ten_Commandments#/media/File:Rembrandt_Harmensz._van_Rijn_079.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 4 mai, 2016 |Pas de commentaires »
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