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ORIENTE E OCCIDENTE DI FRONTE AL MISTERO DELLA TRINITÀ – PADRE CANTALAMESSA

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ORIENTE E OCCIDENTE DI FRONTE AL MISTERO DELLA TRINITÀ – PADRE CANTALAMESSA

1. Mettere insieme quello che ci unisce La recente visita di papa Francesco in Turchia, terminata con l’incontro con il Patriarca Ortodosso Bartolomeo, e soprattutto la sua esortazione a condividere in pienezza la comune fede dell’oriente cristiano e dell’occidente latino, mi hanno convinto dell’utilità di utilizzare le meditazioni quaresimali di quest’anno per assecondare questo desiderio del papa che è anche quello di tutta la cristianità. Questo desiderio di condivisione non è nuovo. Già il Concilio Vaticano II, nella Unitatis redintegratio, esortava a una speciale considerazione delle Chiese orientali e delle loro ricchezze (UR, 14). San Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Orientale lumen del 1995, scriveva: “Poiché crediamo che la venerabile e antica tradizione delle Chiese orientali sia parte integrante del patrimonio della Chiesa di Cristo, la prima necessità per i cattolici e di conoscerla per potersene nutrire e favorire, nel modo possibile a ciascuno, il processo dell’unità”[1]. Lo stesso santo Pontefice ha formulato un principio che credo sia fondamentale per il cammino verso l’unità: “mettere in comune le tante cose che ci uniscono e che sono certamente di più di quelle che ci dividono”[2]. Ortodossia e Chiesa Cattolica condividono la stessa fede nella Trinità, nell’incarnazione del Verbo, in Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo in una sola persona, che è morto e risorto per la nostra salvezza, che ci ha donato lo Spirito Santo; crediamo che la Chiesa è il suo corpo animato dallo Spirito Santo, che l’Eucaristia è “la fonte e il culmine della vita cristiana”, che Maria è la Theotokos, la Madre di Dio, che abbiamo come destino la vita eterna. Che cosa vi può essere di più importante di questo? Le differenze intervengono nel modo di intendere e di spiegare alcuni di questi misteri, dunque sono secondarie, non primarie. In passato i rapporti tra teologia orientale e teologia latina erano contrassegnati da una evidente tinta apologetica e polemica. Si insisteva soprattutto (in tempi recenti, magari con toni più irenici) su ciò che distingue e che ognuno credeva di avere di diverso e di più giusto dell’altro. È venuto il tempo di rovesciare questa tendenza, smettendo di insistere ossessivamente sulle differenze (spesso basate su una forzatura, se non una deformazione, del pensiero altrui) e mettere invece insieme ciò che abbiamo in comune e ci unisce in un’unica fede. Lo esige perentoriamente il comune dovere di annunciare la fede a un mondo profondamente cambiato, con domande e interessi diversi da quelli del tempo in cui sono nate le divergenze, e che, nella sua stragrande maggioranza, non comprende più neppure il senso di tante nostre sottili distinzioni ed è anni-luce distante da esse. Finora, nello sforzo di promuovere l’unità tra i cristiani, ha prevalso una linea che si può formulare così: “risolvere prima le differenze, per poi condividere ciò che abbiamo in comune”; la linea che si fa sempre più strada negli ambienti ecumenici è: “condividere ciò che abbiamo in comune per poi risolvere, con pazienza e rispetto reciproco, le differenze”. Il risultato più sorprendente di questo cambiamento di prospettiva è che le stesse reali differenze dottrinali, anziché apparirci come un “errore”, o una “eresia” dell’altro, cominciano ad apparirci sempre più spesso come compatibili con la propria posizione e, spesso, addirittura come un necessario correttivo e un arricchimento di essa. Se ne è avuto un esempio concreto, su un altro versante, con l’accordo del 1999 tra la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale delle Chiese luterane, a proposito della giustificazione mediante la fede. Un saggio pensatore pagano del IV secolo, Quinto Aurelio Simmaco, ricordava una verità che acquista tutto il suo valore se applicata ai rapporti tra le diverse teologie dell’Oriente e dell’Occidente: “Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum”[3]: “a un mistero così grande non si può pervenire con una sola strada”. In queste nostre meditazioni cercheremo di mostrare non solo la necessità, ma anche la bellezza e la gioia di ritrovarci in vetta a contemplare lo stesso meraviglioso panorama della fede cristiana, anche se giunti da versanti diversi. I grandi misteri della fede, nei quali cercheremo di verificare l’accordo di fondo, pur nella diversità delle due tradizioni, sono il mistero della Trinità, la persona di Cristo, quella dello Spirito Santo, la dottrina della salvezza. Due polmoni, un unico respiro: sarà questa la convinzione che ci guiderà nel nostro cammino di ricognizione. Papa Francesco parla in questo senso di “differenze riconciliate”: non taciute o banalizzate, ma riconciliate. Trattandosi di semplici prediche quaresimali, è evidente che toccherò problemi così complessi senza alcuna pretesa di completezza, con un intento pratico e orientativo, più che speculativo. Mi accingo a questa impresa con molta umiltà e quasi in punta di piedi, sapendo quanto è difficile spogliarsi delle proprie categorie, per assumere quelle degli altri. Mi conforta il fatto che i Padri greci, insieme con quelli latini, sono stati per anni il mio pane quotidiano di studio e molti autori ortodossi posteriori (Simeone il Nuovo Teologo, Cabasilas, la Filocalia, Serafino di Sarov) mi sono stati di costante ispirazione nel ministero di predicazione, per non parlare delle icone che sono le uniche immagini davanti alle quali riesco a pregare. 2. Unità e trinità di Dio Iniziamo la nostra scalata affrontando il mistero della Trinità, cioè la montagna più alta, l’Everest, della fede[4]. Nei primi tre secoli di vita della Chiesa, a mano a mano che veniva esplicitandosi la dottrina della Trinità, i cristiani si videro esposti alla stessa accusa che essi avevano sempre rivolto ai pagani: quella di credere in più divinità, di essere anch’essi dei politeisti. Ecco perché il credo dei cristiani che, in tute le sue varie redazioni, per tre secoli, cominciava con le parole “Credo in Dio” (Credo in Deum), a partire dal IV secolo, registra una piccola, ma significativa aggiunta che non sarà più omessa in seguito: “Credo in un solo Dio (Credo in unum Deum). Non è necessario rifare qui il cammino che portò a questo risultato; possiamo partire senz’altro dalla conclusione di esso. Verso la fine del IV secolo si concluse la trasformazione del monoteismo dell’Antico Testamento nel monoteismo trinitario dei cristiani. I latini esprimevano i due aspetti del mistero con la formula “una sostanza e tre persone”, i greci con la formula “tre ipostasi, una sola ousia”. Dopo un serrato confronto, il processo si concluse apparentemente con un accordo totale tra le due teologie. “Si può concepire – esclamava san Gregorio Nazianzeno – un accordo più pieno e dire più assolutamente di così la stessa cosa, anche se con parole diverse?”[5]. Una differenza, in realtà, rimaneva tra i due modi di esprimere il mistero. Oggi si è soliti esprimerla così: i Greci e i latini, nella considerazione della Trinità, muovono da versanti opposti; i greci partono dalle persone divine, cioè dalla pluralità, per giungere all’unità di natura; i latini, viceversa, partono dall’unità della natura divina, per giungere alle tre persone. “Il latino, ha scritto uno storico francese del dogma, considera la personalità come un modo della natura; il greco considera la natura come il contenuto della persona”.[6] Io credo che la differenza si possa esprimere anche in altro modo. Entrambi, latini e greci, partono dall’unità di Dio; sia il simbolo greco che quello latino comincia dicendo: “Credo in un solo Dio”. Soltanto che quest’unità per i latini è concepita ancora come impersonale o pre-personale; è l’essenza di Dio che si specifica poi in Padre, Figlio e Spirito santo, senza, naturalmente, essere pensata come preesistente alle persone. Nella teologia latina, il trattato “De Deo uno”, sul Dio uno, ha sempre preceduto il trattato “De Deo trino”, cioè sulla Trinità. Per i greci, invece, si tratta di un’unità già personalizzata, perché per essi “l’unità è il Padre, dal quale e verso il quale si contano le altre persone”.[7] Il primo articolo del credo dei greci suona anch’esso “Credo in uno solo Dio Padre onnipotente”, ma “Padre onnipotente” qui non è staccato da “un solo Dio”, come nel credo latino, ma fa un tutt’uno con esso. La virgola non è dopo la parola “ Dio”, ma dopo la parola “onnipotente”. Il senso è: “Credo in un solo Dio che è il Padre onnipotente”. L’unità delle tre divine persone è data, per loro, dal fatto che il Figlio è perfettamente (sostanzialmente) “unito” al Padre, come lo è anche lo Spirito Santo al Figlio” [8]. L’uno e l’altro modo di accostarsi al mistero è legittimo, ma oggi si tende sempre più a preferire il modello greco, in cui l’unità in Dio non è separabile dalla trinità, ma forma un unico mistero e scaturisce da un unico atto. In povere parole umane, possiamo dire quanto segue. Il Padre è la fonte, l’origine assoluta del movimento d’amore. Il Figlio non può esistere come Figlio se, anzitutto, non riceve dal Padre tutto ciò che egli è. “È a causa del Padre –cioè per il fatto che il Padre esiste – che esistono anche il Figlio e lo Spirito”, scrive il Damasceno[9] Il Padre è il solo, anche nell’ambito della Trinità, assolutamente il solo, a non aver bisogno di essere amato per poter amare. Solo nel Padre si realizza la perfetta equazione: essere è amare; per le altre persone divine, essere è essere amato. Il Padre è relazione eterna d’amore e non esiste al di fuori di questa relazione. Non si può, perciò, concepire il Padre anzitutto come l’essere supremo e successivamente riconoscere in lui un’eterna relazione d’amore. Si deve parlare del Padre, come eterno atto d’amore. Il Dio unico dei cristiani è dunque il Padre; non però concepito a se stante (come può chiamarsi “padre”, se non perché ha un “figlio”?), ma come il Padre sempre in atto di generare il Figlio e donarsi a lui con un amore infinito che li unisce entrambi e che è lo Spirito Santo. Unità e trinità di Dio scaturiscono eternamente da un unico atto e sono un unico mistero. Ho detto che oggi molti, anche in occidente, tendono a preferire il modello greco (e io stesso sono tra questi); dobbiamo però aggiungere subito che questo non significa rinnegare l’apporto della teologia latina. Se, infatti, la teologia greca ha fornito, per così dire, lo schema e l’approccio giusto per parlare della Trinità, il pensiero latino ha assicurato ad esso, con Agostino, il contenuto di fondo e l’anima, che è l’amore. Egli fonda il suo discorso della Trinità sulla definizione “Dio è amore” (1 Gv 4,16), vedendo nello Spirito Santo l’amore mutuo tra il Padre e il Figlio, secondo la triade amante, amato, amore, che i suoi seguaci medievali espliciteranno e renderanno quasi canonica[10]. Su di essa il teologo Heribert Mühlen ha fondato di recente la sua concezione dello Spirito Santo come il “Noi” divino, la koinonia personificata tra il Padre e il Figlio nella Trinità, e, in modo diverso, tra tutti i battezzati nella Chiesa[11]. Il primo degli orientali a valorizzare questo contributo della teologia latina fu san Gregorio Palamas che, nel secolo XIV, conobbe finalmente di persona il trattato sulla Trinità di sant’Agostino. Egli scrive: “Lo Spirito dell’altissimo Verbo è come l’amore ineffabile del Padre per il suo Verbo, generato in modo ineffabile; amore che questo stesso Verbo e Figlio diletto del Padre ha, a sua volta, per il Padre, in quanto possiede lo Spirito che insieme con lui proviene dal Padre e che riposa in lui, in quanto a lui connaturale” [12]. L’apertura di Palamas viene ripresa oggi, in un altro contesto, da un noto teologo ortodosso vivente, quando scrive: “L’Espressione ‘Dio è amore’ significa che Dio ‘esiste’ in quanto Trinità, come ‘persona’ e non come sostanza. L’amore non è una conseguenza o una ‘proprietà’ della sostanza divina…ma ciò che costituisce la sua sostanza”[13]. Mi sembra una spiegazione compatibile con la definizione che san Tommaso d’Aquino, sulla scia di Agostino, da delle persone divine come “relazioni sussistenti”[14]. La differenza e la complementarietà delle due teologie non si limita però solo al modo di concepire l’essere e le relazioni interne alla Trinità. Pur con qualche eccezione (tra i latini, quella di Agostino), è evidente che i greci sono più interessati alla Trinità immanente, fuori del tempo, mentre i latini sono più interessati alla Trinità economica, cioè come essa si è rivelata nella storia della salvezza. Gli uni, secondo il genio proprio, sono più interessati all’essere e all’ontologia, gli altri al manifestarsi, cioè alla storia. In questa luce, si comprende l’abitudine dei latini di iniziare il discorso su Dio con il trattato “Sul Dio uno”, anziché “Sul Dio trino” e si capiscono anche i motivi che ci sono di mantenere questa tradizione, come ricchezza per tutti. Nella storia della salvezza infatti –lo vedremo subito – la rivelazione del Dio uno ha preceduto quella del Dio trino. Il segno più evidente di questa differenza di approccio sono i due modi diversi di rappresentare la Trinità nell’iconologia greca e nell’arte occidentale. L’icona canonica dell’Ortodossia, che ha il suo vertice in Rublev, rappresenta la Trinità con le figure di tre angeli uguali e distinti, disposti intorno a una mensa. Tutto fa trasparire una sovrumana quiete e unità. La storia della salvezza non è ignorata, come dimostra il riferimento all’episodio di Abramo che accoglie i tre ospiti, e la mensa eucaristica intorno alla quale i Tre sono seduti, ma essa rimane nello sfondo. Nell’arte occidentale, dal medio evo in poi, la Trinità è rappresentata in tutt’altro modo. Si vede il Padre che con le braccia distese regge le due estremità della croce e, tra il volto del Padre e quello del Crocifisso, aleggia una colomba che rappresenta lo Spirito Santo. Gli esempi più noti sono la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze e quella di Dürer al museo di Vienna, ma se ne trovano innumerevoli esemplari, a livello sia popolare che artistico. È la Trinità come si è rivelata a noi nella storia della salvezza che ha il suo vertice nella croce di Cristo. 3. Due vie da mantenere aperte Facciamo ora un passo avanti e cerchiamo di vedere come la fede cristiana abbia bisogno di tenere aperte e percorribili entrambe le due vie al mistero trinitario fin qui delineate. Detto schematicamente: la Chiesa ha bisogno di accogliere in pienezza l’approccio dell’Ortodossia alla Trinità nella sua vita interna, cioè nella preghiera, nella contemplazione, nella liturgia, nella mistica; ha bisogno di tener presente l’approccio latino nella sua missione evangelizzatrice ad extra. Non c’è bisogno di dimostrare il primo punto. A suo riguardo, non c’è che accogliere con gioia e riconoscenza il ricchissimo patrimonio di spiritualità che viene dalla tradizione greca e bizantina e che diversi teologi ortodossi, in tempi recenti, hanno difeso e reso accessibile al pubblico occidentale.[15] Un testo di san Basilio esprime bene l’orientamento di fondo della visione ortodossa: “Il cammino della conoscenza di Dio procede dall’unico Spirito, attraverso l’unico Figlio, fino all’unico Padre; inversamente, la bontà naturale, la santificazione secondo natura, la dignità regale, si diffondono dal Padre, per mezzo dell’Unigenito, fino allo Spirito” [16]. In altre parole, sul piano dell’essere o dell’uscita delle creature da Dio, tutto parte dal Padre, passa per il Figlio e giunge a noi nello Spirito; nell’ordine della conoscenza, o del ritorno delle creature a Dio, tutto comincia con lo Spirito Santo, passa per il Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre. La prospettiva è sempre quella trinitaria. Spiego invece perché è necessario, oggi più che mai, sia all’Oriente che all’Occidente, conoscere e praticare anche l’approccio latino al mistero di Dio uno e trino. San Gregorio Nazianzeno, in un testo famoso, sintetizza così il processo che ha portato alla fede nella Trinità: “L’Antico Testamento annunciò in modo esplicito l’esistenza del Padre, mentre l’esistenza del Figlio fu annunciata in modo più oscuro. Il Nuovo Testamento manifestò l’esistenza del Figlio, mentre fece intravvedere la natura divina dello Spirito Santo. Ora lo Spirito è presente in mezzo a noi e ci concede più distintamente la propria manifestazione. Non sarebbe stato conveniente, allorquando non era ancora confessata la divinità del padre, proclamare apertamente quella del Figlio, né sarebbe stato sicuro porci addosso il peso della divinità dello Spirito quando non era stata ancora accettata quella del Figlio”[17]. La stessa pedagogia divina la vediamo attuata da Gesú. Egli dice di non poter rivelare agli apostoli tutto quello che sa di se stesso e del Padre suo, perché essi non sarebbero stati ancora “capaci di portarne il peso” (Gv 16,12). Ora, è vero che noi viviamo nel tempo in cui la Trinità si è pienamente rivelata e che perciò dobbiamo vivere costantemente sotto questa “luce trisolare”, come la chiamano certi Padri antichi, senza perderci nella contemplazione di un Dio “essere supremo”, più vicino al Dio dei filosofi che a quello rivelato da Gesù. Ma che dire del mondo non credente, secolarizzato, e comunque da rievangelizzare, che ci circonda? Non è esso nelle stesse condizioni del mondo prima della venuta di Cristo? Non dobbiamo, nei suoi confronti, usare la stessa pedagogia che Dio ha usato con l’umanità intera nel rivelarsi? Dobbiamo perciò anche noi aiutare i nostri contemporanei a scoprire, anzitutto, che Dio esiste, che ci ha creati per amore, che è padre buono e si è rivelato a noi in Gesù di Nazareth. Possiamo, onestamente, cominciare la nostra evangelizzazione parlando delle tre persone divine? Non sarebbe anche questo, per usare l’immagine di san Gregorio, mettere sulle spalle della gente un peso che non è capace di portare? Va notata una cosa importante. Il Padre che, secondo Gregorio Nazianzeno, si è rivelato per primo nell’Antico Testamento, non è ancora “il Padre del nostro Signore Gesú Cristo”, cioè un padre vero di un figlio vero; non è il Dio Padre della Trinità; questa rivelazione avviene soltanto con Gesú. È ancora padre in senso metaforico, nel senso di “padre del suo popolo Israele” e, per i pagani, “padre del cosmo”, “padre celeste”. Anche per san Gregorio, dunque, la rivelazione su Dio è cominciata con il “Dio uno”. C’è un senso in cui la parola “Dio” può e deve essere usata per designare ciò che le tre persone divine hanno in comune, cioè tutta la Trinità[18], sia che, con la Scrittura e i Padri antichi, intendiamo questo elemento comune come “natura”, sostanza, o essenza (2 Pt 1,4: “partecipi della divina natura”, theia physis), sia che, come propone Johannes Zizioulas, lo intendiamo come “essere in comunione”[19]. La Chiesa deve trovare il modo di annunciare il mistero di Dio uno e trino con categorie appropriate e comprensibili agli uomini del proprio tempo. Così fecero i Padri della Chiesa e i concili antichi, ed è in questo, soprattutto, che consiste la fedeltà ad essi. È difficile pensare di poter presentare agli uomini d’oggi il mistero trinitario nei loro stessi termini di sostanza, ipostasi, proprietà e relazioni sussistenti, anche se la Chiesa non potrà mai rinunciare a usarli nell’ambito della sua teologia e nei luoghi di approfondimento della fede. Se c’è qualcosa, del linguaggio antico dei Padri, che l’esperienza dell’annuncio dimostra essere ancora capace di aiutare gli uomini d’oggi, se non a spiegare, almeno a farsi un’idea della Trinità, questo è proprio quello di Agostino che fa perno sull’amore. L’amore è, per se stesso, comunione e relazione; non esiste amore meno che tra due o più persone. Ogni amore è il movimento di un essere verso un altro essere, accompagnato dal desiderio di unione. Tra le creature umane, questa unione rimane sempre incompleta e transitoria, anche negli amori più ardenti; solo tra le persone divine l’unione si realizza in modo così totale da fare dei Tre, eternamente, un solo Dio. Q uesto è un linguaggio che anche l’uomo d’oggi è in grado di capire. 4. Uniti nell’adorazione della Trinità Sant’Agostino ci suggerisce il modo migliore per concludere questa ricostruzione delle due vie di approccio al mistero della Santissima Trinità. Quando si vuole attraversare un braccio di mare, dice, la cosa più importante non è starsene sulla riva e aguzzare la vista per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva. Così per noi la cosa più importante non è speculare sulla Trinità, ma rimanere nella fede della Chiesa che è la barca che porta ad essa [20]. Noi non possiamo abbracciare l’oceano, ma possiamo entrare in esso; per quanti sforzi facciamo, non possiamo abbracciare il mistero della Trinità con la nostra mente, possiamo però fare qualcosa di più bello ancora, entrare in esso! C’è un punto in ci troviamo uniti e concordi, senza più alcuna differenziazione tra Oriente e Occidente, ed è il dovere e il bisogno di adorare la Trinità. Soltanto nell’adorazione pratichiamo davvero, non solo a parole ma nei fatti, l’apofatismo, cioè quella regola di umile restrizione nel parlare di Dio, di dire non dicendo. Adorare la Trinità, secondo uno stupendo ossimoro di san Gregorio Nazianzeno, è elevare ad essa “un inno di silenzio” [21]. Adorare è riconoscere Dio come Dio e noi stessi come creature di Dio. È “riconoscere l’infinita differenza qualitativa tra il Creatore e la creatura”[22]; riconoscerla però liberamente, gioiosamente, come figli, non come schiavi. Adorare, dice l’Apostolo, è “liberare la verità prigioniera dell’ingiustizia del mondo” (cf. Rom 1, 18). Concludiamo recitando insieme la dossologia che, fin dalla più remota antichità, sale identica alla Trinità, dall’Oriente e dall’Occidente: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, come era nel principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen. *

NOTE SUL SITO

22 MAGGIO 2016 | 8A DOMENICA: SS. TRINITÀ – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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22 MAGGIO 2016 | 8A DOMENICA: SS. TRINITÀ – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Tutto quello che il Padre possiede è mio » « O Dio Padre, che hai mandato nel mondo il tuo Figlio, Parola di verità, e lo Spirito Santificatore per rivelare agli uomini il mistero della tua vita, fa’ che nella professione della vera fede riconosciamo la gloria della Trinità e adoriamo l’unico Dio in tre persone ». Questa preghiera che apre l’odierna Liturgia mi sembra che contenga i motivi di fondo che giustificano e dànno significato alla festa della SS. Trinità: una « contemplazione », che i credenti sono invitati a fare, del disegno salvifico del Padre, che si manifesta a noi nel Figlio, alla luce e sotto l’impulso dello Spirito. E insieme la « celebrazione » adorante della « gloria » del mistero trinitario, che in qualche maniera diventa anche il mistero della nostra vita cristiana, che solo dalla Trinità attinge vitalità e come il suo sigillo. « Contemplazione », dunque, e « celebrazione » che diventano « vita »! È quanto ha messo in evidenza ultimamente anche Giovanni Paolo II, ricordando che l’obiettivo ultimo della celebrazione del grande Giubileo del Duemila è « la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia ».

« Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà alla verità tutta intera » La Trinità è la realtà immensamente ricca dell’unico Dio adorato dai cristiani: per questo essa potrà venire conosciuta solo per via di « rivelazione ». Siccome però il Dio-Trinità è una realtà « vitale » e non una entità astratta, egli si manifesta, più che a parole, con i gesti e direi con le articolazioni concrete dei suoi interventi salvifici. È dall’incontro con questi « fatti », che hanno preso corpo in certe concrete individualità (diciamo pure « persone »), che il mistero trinitario si disvela in tutta la sua luce e anche in tutta l’oscurità che l’avvolge. Per intenderci meglio, se gli uomini non avessero mai incontrato Cristo che si è presentato a loro come l’unico « Figlio di Dio », non saremmo mai stati introdotti al mistero trinitario! Una « rivelazione », dunque, quella della Trinità, che passa attraverso una esperienza « storica » e non è per niente dedotta o deducibile da astratte considerazioni teologiche. In questo senso mi sembra che sia molto istruttivo il breve tratto di Vangelo, ripreso dai « discorsi di addio » del Signore. In procinto di lasciare i suoi discepoli, Gesù assicura loro il dono dello Spirito che completerà la sua missione di salvezza, soprattutto « introducendoli » a una maggiore comprensione della « verità »: « Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annuncerà » (Gv 16,12-15). Per rimanere nel quadro della festa della SS. Trinità, è evidente nel testo il rimando al mistero così esaltante del Dio unico, che si esprime però in una « pluralità » di persone: il Padre che manda il Figlio, con cui ha tutto in comune (v. 15); « lo Spirito di verità » che verrà a completare l’opera del Figlio (v. 13), « prendendo » però del suo (v. 14) per annunciarlo agli uomini: « Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annuncerà » (v. 15). Queste ultime espressioni, pur mettendo in evidenza la « molteplicità » dei soggetti personali in Dio, rimandano sempre a una « unicità » primordiale: tutto fra il Padre, il Figlio e lo Spirito è comune, salvo l’essere quello che ognuno di essi è personalmente in « relazione » agli altri! Sappiamo che dicendo tutto questo balbettiamo il mistero, ma è tutto quanto il Vangelo ci permette di dire.

Lo Spirito « vi annuncerà le cose future » In ogni modo, da questo brano possiamo cogliere alcuni tratti caratteristici che meglio ci definiscono l’attività dello Spirito e, in un certo senso, anche i tratti della sua personalità, sempre in stretta « relazione con il Padre e con il Figlio ». Due funzioni deve egli in special modo assolvere: quella di « guidare » a tutta la verità (v. 13) e quella di « annunciare le cose future » (ib.). Per Giovanni la « verità » non è l’essenza dell’essere che si svela e si lascia contemplare, come nella concezione greca: è piuttosto il disegno salvifico di Dio che si è manifestato in Gesù di Nazaret, come offerta di salvezza agli uomini. Per questo Gesù potrà dire di se stesso: « Io sono la via, la verità e la vita » (14,6). Proprio per questo, l’unico modo per conquistare la « verità » non è l’intelligenza, ma la « fede », accompagnata dall’amore: chi è capace di accettare Gesù di Nazaret come colui che salva, anche se gli uomini lo appenderanno al legno della croce, questi è già entrato nel regno della « verità »! Si intravede, però, facilmente come sia molto arduo accettare questa « verità »: perciò Gesù può dire agli Apostoli che essi « per il momento non sono capaci di portare il peso » delle molte cose che egli avrebbe ancora da dire (v. 12). Non si dimentichi che siamo nel contesto della Passione e Morte del Signore! Di qui la necessità della « venuta » dello Spirito per « guidarli alla verità tutta intera » (v. 13). Non è tanto o solo un « rammentatore », lo Spirito, quanto uno che apre la strada e porta avanti, fa penetrare più profondamente nel mistero di Cristo, l’unica « verità », ce la fa « vivere », perché egli non è una verità astratta, come abbiamo sopra detto. In questo senso lo « Spirito della verità » diventa anche lo « Spirito della vita »: è qui che ogni cristiano può verificare in sé la presenza dello Spirito, dall’impegno cioè con cui si sforza di « vivere » il messaggio della salvezza. L’altra funzione dello Spirito è quella di « annunciare le cose future » (v. 13). Con tale frase Giovanni « non intende certo la cronaca dell’avvenire ma una lettura « escatologica » della storia, cioè una lettura del presente alla luce della sua conclusione. In altre parole, una lettura degli eventi alla luce della storia di Gesù che è lo svelamento del futuro. Se leggiamo la storia alla luce del presente, dovremmo concludere che la violenza è produttiva, fa storia, e che l’amore è invece sconfitto, inutile. Daremmo ragione al mondo e torto al Cristo! Ma se leggiamo la storia alla luce della sua conclusione – cioè alla luce del giudizio di Dio già avvenuto in Gesù – allora dobbiamo concludere che la carta vincente, anche se ora è smentita e crocifissa, è l’amore. Il crocifisso è risorto; l’amore, in apparenza sconfitto, è l’unica realtà vittoriosa ».

« L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori  per mezzo dello Spirito » Uno Spirito dunque, quello di Cristo, aperto al futuro, e perciò alla speranza. È quanto ricaviamo anche dalla seconda lettura in cui Paolo descrive i beni posseduti da chi è stato « giustificato per la fede » in Cristo: « pace con Dio » (v. 1), « accesso » al suo amore (v. 2) e specialmente la « speranza » della gloria (v. 2), garantita dalla presenza in noi dello Spirito Santo (v. 5). « Giustificati per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; per mezzo suo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,1-5). Non potendo illustrare tutto il brano che, pur nella sua brevità, è molto denso, vorrei richiamarne subito la dimensione trinitaria: « Noi siamo in pace con Dio Padre per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo » (v. 1); quest’amore del Padre e del Figlio trova poi espressione concreta nel « dono » dello Spirito Santo, che alimenta in noi la « speranza » della salvezza definitiva, oltre le stesse prove e incertezze della vita che ognuno esperimenta quotidianamente. Oltre all’evidente richiamo trinitario, si noti come anche qui l’attenzione dell’Apostolo sia rivolta soprattutto allo Spirito Santo in quanto artefice primo della « fedeltà » alla nostra vita di cristiani « giustificati » e salvati per la fede in Cristo. La « salvezza » però non è definitiva e la possiamo perdere da un momento all’altro: basta pensare alla tentazione dello scoraggiamento che ci può prendere davanti alle persecuzioni (nel testo si parla di « tribolazioni »: v. 3), alle difficoltà immancabili della nostra coerenza alle esigenze del Vangelo. Qui soprattutto si rivela la potenza dello Spirito che ci fortifica dal di dentro e ravviva la « speranza » della vittoria definitiva, fino a farci « vantare » perfino nelle « tribolazioni » (v. 3). E non potrebbe anche la nostra « speranza », come tante altre speranze, andare delusa? S. Paolo ci tiene a dichiarare che ciò non avverrà « perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (v. 3). Ciò che ci assicura da ogni fallimento è la garanzia della presenza dello Spirito nei nostri cuori come « dono » e « segno » dell’amore che Dio ha verso di noi. Possiamo perciò gridare anche noi con l’Apostolo: « Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? » (Rm 8,31). Prendendo possesso del nostro cuore, lo Spirito Santo esige però di diventare il principio interiore delle nostre azioni, le quali perciò non potranno non essere secondo Dio: « Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio » (Rm 8,14). Solo se « guidati » dallo Spirito in tutto il nostro pensare e agire, non saremo « delusi » nella nostra ferma « attesa » della salvezza. Come si vede, la scoperta del mistero trinitario è legata, ancora una volta, più che a una astratta conoscenza, a una esperienza di vita: non si saprà mai che cosa è lo Spirito, se non lasciandoci « guidare » dallo Spirito!

« Credo, o Dio, alla tua vita trinitaria. Per amor tuo la credo, perché questo mistero custodisce la tua verità. Appena esso è abbandonato, la tua immagine si dissolve nel mondo. Ma anche per motivi nostri io credo, o Dio, perché la pace della tua vita deve diventare la nostra patria. Questo è già la vita eterna, che ci fu promessa. Ad essa va la nostra speranza. Non si spenga per me questa luce che splende alta, lontana e pur così sacra; preservami, o Dio, dal suo estinguersi » (Romano Guardini).

Settimio CIPRIANI  (+)

Saints in Heaven

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GIOVANNI PAOLO II – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

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GIOVANNI PAOLO II – CANTICO CFR COL 1,3.12-20

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 maggio 2004

Cristo fu generato prima di ogni creatura, è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti Vespri del mercoledì della 1a settimana (Lettura: Col 1,3.12-15.17)

1. Abbiamo ascoltato il mirabile inno cristologico della Lettera ai Colossesi. La Liturgia dei Vespri lo propone in tutte le quattro settimane nelle quali essa si snoda e lo offre ai fedeli come Cantico, ripresentandolo nella veste che forse il testo aveva fin dalle sue origini. Infatti, molti studiosi ritengono che l’inno potrebbe essere la citazione di un canto delle Chiese dell’Asia minore, posto da Paolo nella Lettera indirizzata alla comunità cristiana di Colossi, una città allora fiorente e popolosa. L’Apostolo, però, non si recò mai in questo centro della Frigia, una regione dell’attuale Turchia. La Chiesa locale era stata fondata da un suo discepolo, originario di quelle terre, Epafra. Costui fa capolino nel finale della Lettera insieme all’evangelista Luca, «il caro medico», come lo chiama san Paolo (4,14), e con un altro personaggio, Marco, «cugino di Barnaba» (4,10), forse l’omonimo compagno di Barnaba e Paolo (cfr At 12,25; 13,5.13), divenuto poi evangelista. 2. Poiché avremo occasione di tornare a più riprese in seguito su questo Cantico, ci accontentiamo ora di offrirne uno sguardo d’insieme e di evocare un commento spirituale, elaborato da un famoso Padre della Chiesa, san Giovanni Crisostomo (IV sec. d.C.), celebre oratore e Vescovo di Costantinopoli. Nell’inno emerge la grandiosa figura di Cristo, Signore del cosmo. Come la divina Sapienza creatrice esaltata dall’Antico Testamento (cfr ad esempio Pr 8,22-31), «egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui »; anzi, «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,16-17). Si dispiega, dunque, nell’universo un disegno trascendente che Dio attua attraverso l’opera del Figlio. Lo proclama anche il Prologo del Vangelo di Giovanni quando afferma che «tutto è stato fatto per mezzo del Verbo e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3). Anche la materia con la sua energia, la vita e la luce portano l’impronta del Verbo di Dio, «suo Figlio diletto» (Col 1,13). La rivelazione del Nuovo Testamento getta una nuova luce sulle parole del sapiente dell’Antico Testamento, il quale dichiarava che «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5). 3. Il Cantico della Lettera ai Colossesi presenta un’altra funzione di Cristo: Egli è anche il Signore della storia della salvezza, che si manifesta nella Chiesa (cfr Col 1,18) e si compie nel «sangue della sua croce» (v. 20), sorgente di pace e di armonia per l’intera vicenda umana. Non è, quindi, soltanto l’orizzonte esterno a noi ad essere segnato dalla presenza efficace di Cristo, ma anche la realtà più specifica della creatura umana, ossia la storia. Essa non è in balía di forze cieche e irrazionali ma, pur nel peccato e nel male, è sorretta e orientata – per opera di Cristo – verso la pienezza. È così che per mezzo della Croce di Cristo tutta la realtà è «riconciliata» col Padre (cfr v. 20). L’inno traccia, in tal modo, uno stupendo affresco dell’universo e della storia, invitandoci alla fiducia. Non siamo un granello di polvere inutile, disperso in uno spazio e in un tempo senza senso, ma siamo parte di un sapiente progetto scaturito dall’amore del Padre. 4. Come abbiamo annunziato, passiamo ora la parola a san Giovanni Crisostomo, perché sia lui a coronare questa riflessione. Nel suo Commento alla Lettera ai Colossesi egli si sofferma ampiamente su questo Cantico. All’inizio egli sottolinea la gratuità del dono di Dio «che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (v. 12). «Perché la chiama « sorte »?», si domanda il Crisostomo, e risponde: «Per mostrare che nessuno può conseguire il Regno con le proprie opere. Anche qui, come il più delle volte, la « sorte » ha il senso di « fortuna ». Nessuno mostra un comportamento tale da meritare il Regno, ma tutto è dono del Signore. Per questo egli dice: « Quando avete fatto ogni cosa, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare »» (PG 62, 312). Questa benevola e potente gratuità riemerge più avanti, quando leggiamo che per mezzo di Cristo sono state create tutte le cose (cfr Col 1,16). «Da lui dipende la sostanza di tutte le cose – spiega il Vescovo -. Non soltanto le fece passare dal non essere all’essere, ma è ancora lui che le sostiene, cosicché, se fossero sottratte alla sua provvidenza, perirebbero e si dissolverebbero… Dipendono da lui: infatti, anche solo l’inclinare verso di lui è sufficiente a sostenerle e a rafforzarle» (PG 62, 319). E a maggior ragione è segno di amore gratuito quanto Cristo viene compiendo per la Chiesa, di cui è il Capo. In questo punto (cfr v. 18), spiega il Crisostomo, «dopo aver parlato della dignità di Cristo, l’Apostolo parla anche del suo amore per gli uomini: « Egli è il capo del suo corpo, che è la Chiesa », volendo mostrare la sua intima comunione con noi. Colui, infatti, che è così in alto e superiore a tutti, si unì a coloro che sono in basso» (PG 62, 320).

NELL’INNO CRISTOLOGICO, SAN PAOLO MOSTRA L’AMORE DI GESÙ FINO ALL’ESTREMO – FIL 2, 5-11

https://it.zenit.org/articles/nell-inno-cristologico-san-paolo-mostra-l-amore-di-gesu-fino-all-estremo/

NELL’INNO CRISTOLOGICO, SAN PAOLO MOSTRA L’AMORE DI GESÙ FINO ALL’ESTREMO – FIL 2, 5-11

Conferenza presentata da padre Enzo Bianchi a Roma

di Carmen Elena Villa

ROMA, mercoledì, 25 marzo 2009 (ZENIT.org).- “Una delle confessioni di fede più alte e profonde di tutto il Nuovo Testamento”. Così padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, ha definito il noto Inno Cristologico, incluso nella Lettera di San Paolo ai Filippesi. Lo ha affermato questo lunedì nel contesto della catechesi “San Paolo parla”, che si effettua ogni mese nella Basilica di San Paolo fuori le Mura in occasione dell’Anno Paolino, questa volta dedicata alla Lettera ai Filippesi. L’esegeta ha osservato che nel testo Paolo mostra “di essere stato afferrato da Cristo, conquistato da Cristo”, che “ha fatto di lui un missionario, un apostolo per eccellenza”.

Dio fatto uomo per amore Bianchi ha centrato il suo intervento sul brano di Fil 2, 5-11, che parla del processo di “abbassamento” e del desiderio di Dio di diventare uno con noi facendosi obbediente “fino alla morte, e alla morte di croce”, perché “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”. La ricchezza dell’Inno Cristologico, ha osservato, consiste nel fatto che “canta in sintesi tutto l’itinerario percorso da Cristo. Riassume tutta la sua vicenda: l’incarnazione, la vita terrena, la morte in croce, l’innalzamento della gloria”. In questo testo del Nuovo Testamento è contenuto “non solo il percorso dell’umanizzazione di Dio, ma anche lo stile di questo percorso”: “la kenosis”, ovvero “lo svuotamento di se stesso e poi l’innalzamento di tutta l’umanità”. Il priore della Comunità di Bose ha indicato che “nel paganesimo si narravano miti dell’incarnazione degli dei. Il faraone in tutta la sua potenza era creduto incarnazione del dio sole”, ma “nel cristianesimo c’è l’incarnazione fino all’abbassamento di colui che da Dio diventa schiavo. La parola di Dio, il logos, nell’incarnazione ha dovuto svuotare se stessa per resistere tra di noi e con noi”. Dio “ha fatto una parentesi nella sua forma divina per poter resistere come uomo totalmente come noi”, ha aggiunto, osservando che l’Inno “non narra la storia in linea retta della successione degli eventi, ma va dall’alto al basso, e poi dal basso in alto”. Dio “non poteva mantenere una condizione divina senza condividerla, senza provare il desiderio che anche gli uomini partecipassero a questa condizione divina”. Facendosi uomo, Dio “ha accettato la morte, la condizione limitata, quella della nostra carne. Era santo tre volte, ha accettato di essere tentato dal Diavolo nella sua carne umana”. “Se è vero che il peccato segna l’uomo, è vero che Cristo ha voluto diventare uomo, non ha commesso alcun peccato ma è stato provato in tutte le tentazioni”. “Ecco dove il figlio ha voluto andare. Si è fatto uomo, è stato riconosciuto come figlio di Giuseppe e Maria, ha fatto un movimento di abbassamento fino alla morte”, ha constatato Enzo Bianchi. Il punto più basso dell’Inno è quando San Paolo si riferisce alla croce, ricordando che questa era la morte più umiliante in quell’epoca, ma che la croce “non è il risultato di una casualità o di una fatalità”, ma “l’esito di una vita vissuta nella giustizia e nell’amore, avendo amato fino all’estremo”. L’esegeta ha concluso dicendo che per questo di fronte a Gesù “tutti gli uomini piegano le ginocchia”. “E’ la nostra fede: Gesù Cristo è il signore dell’universo. Gesù Cristo è anche il mio Signore!”.

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Passover

Passover dans STUDI DI VARIO TIPO

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QUELLA VERGOGNOSA « SPINA NELLA CARNE »

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QUELLA VERGOGNOSA « SPINA NELLA CARNE »

Giovedì 30 Gennaio 2014

Francesco di Maria 

L’essere umano vive nella carne, ovvero nella corporeità, nella psichicità, nella istintualità, nella sensorialità, nella sessualità, e al tempo stesso nella intellettività, nella sensibilità, nella affettività, nella moralità e nella spiritualità. L’uomo e la donna, sin dalla creazione divina, non sono esseri puramente spirituali ma esseri carnali in cui è stato impresso da Dio il dono della libertà e quindi anche il bisogno infrenabile di purificare e di elevare la loro condizione umana, a partire dai suoi dati biologici elementari e dalle sue costitutive e primarie necessità naturali, verso stadi esistenziali sempre meno caratterizzati da un naturale ed istintivo egocentrismo soggettivo e sempre più aperti alla dimensione della carità, dell’amore gratuito, del donarsi disinteressato sino all’estremo sacrificio di sé e quindi alla santità.   Dunque, l’essere umano che vuole spiritualizzare la sua vita in e per Cristo, non è una persona che debba mortificare se stesso in modo innaturale e ossessivo o che possa mettere da parte, anche volendo, la sua carne, ma piuttosto una persona che, attraverso la preghiera incessante e un continuo esercizio di intelligenza e volontà, cerca di spiritualizzare i suoi bisogni carnali, da quelli semplici a quelli complessi, cioè di viverli e di soddisfarli in modo sempre più misurato, più sobrio, più controllato, in funzione di un modo di essere nella carne in virtù del quale si avvertano sempre meno gli appetiti terreni e si faccia sempre più spesso ed intensamente offerta della parte o delle parti migliori della propria carnalità a favore non di sé ma degli altri e, al tempo stesso, ad majorem gloriam Dei. Pertanto, in questo senso, lo spirito non è il contrario della carne né la carne è il contrario dello spirito, ma lo spirito dell’uomo non può sussistere ed esplicarsi se non nella carne né elevarsi qualitativamente se non per mezzo di sane attitudini carnali quali un certo uso della mente, del sentire e del volere, al fine di neutralizzare le spinte carnali più pulsionali e passionalmente negative. La carne è il campo su cui si gioca la partita della nostra spiritualità: a seconda dell’uso che facciamo della nostra sensibilità carnale, noi avremo a che fare con una spiritualità vincente o con una spiritualità perdente. Dall’inizio alla fine della nostra vita noi viviamo nella nostra carne e nella carne e per mezzo della carne cerchiamo, chi più chi meno chi affatto, di liberarci dalle debolezze, dai difetti, dalle tentazioni peccaminose cui la carne è e sarà, nonostante ogni sforzo, sempre esposta o soggetta. Dio si incontra solo nel crogiolo della carne, nella tempesta dei sensi, nella lotta contro qualunque forma di concupiscenza possa frapporsi stabilmente e rovinosamente tra il nostro bisogno soggettivo di Dio e l’oggettiva e santificante grazia divina. Il battesimo ci libera dal peccato originale ma la nostra condizione umana resta ugualmente fragile, per cui tutta la nostra vita terrena è una lotta non contro la carne che il Cristo è venuto a salvare ma contro il peccato che, sebbene efficacemente contrastato e vinto dalla grazia divina, tende sempre ad insorgere e ad agire nella carne stessa puntando a trasformarla non in un tempio dello Spirito Santo, non in una santa dimora dove Dio abita e dove ha luogo l’incessante opera dello Spirito Santo che spinge tutte le nostre energie, ivi comprese quelle sessuali, al bene nel segno della verità, ma in una immonda e nauseabonda discarica in cui vengano accumulandosi solo i turpi prodotti della nostra condotta deliberatamente e reiteratamente licenziosa e peccaminosa. San Paolo, è vero, parla di desideri dello Spirito contrari ai desideri della carne: ma appunto nel senso che i primi consistano in un bisogno interiore di graduale e costante soddisfacimento delle necessità spirituali della nostra carne e non nella insana oltre che illusoria o ipocrita pretesa di poter condurre una irreprensibile vita spirituale comprimendo e neutralizzando una volta per tutte e a proprio piacimento istinti, passioni, desideri. San Paolo intende dire che, se i desideri della carne sono quelli che vorrebbero privilegiare il “piacere dei sensi”, e soddisfare o assecondare qualunque moto istintuale, qualunque desiderio di potere, di ricchezza o di gloria, i desideri dello Spirito evidentemente sono quelli che, senza negare astrattamente la concretezza di tali quotidiane sollecitazioni, portano, a seconda di specifiche situazioni di vita, a farne volontariamente a meno oppure a farne un uso limitato e appropriato non sotto l’influsso di una specie di furia repressiva, che comporti peraltro gravi disturbi della personalità, ma grazie ad un impegno severo e consapevole ad un tempo che risulti coerentemente finalizzato all’amore più integro o più santo possibile per il Signore e per il prossimo. Beninteso, però, questo processo di trasfigurazione spirituale della nostra vita di esseri carnali non è né semplice né lineare ma molto complesso e faticoso e chiunque tenda non velleitariamente alla santità non può esserne dispensato quali che siano il suo ruolo e la sua funzione nel mondo. Persino gli uomini migliori, le donne più virtuose, non hanno alcuna garanzia che l’esito di tale processo sia positivo e realmente salvifico; persino veri e non improvvisati maestri di sapienza e di spiritualità o autentici apostoli della fede e della carità possono incontrare seri ostacoli e ostacoli non già esterni ma interiori nel cammino verso la propria santificazione. Un caso come quello di san Paolo è al riguardo assai eloquente ed eclatante. Nessuno sarebbe portato a sospettarlo per uno dei testimoni più significativi di Cristo, per il teologo per antonomasia della carità cristiana, per un uomo che parlava di se stesso e della sua conversione in questi termini: «In seguito ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1Cor 15, 8-10). Tuttavia, l’apostolo delle genti confessa anche che, «affinché io non monti in superbia», per «la straordinaria grandezza delle rivelazioni…, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi…A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2Cor 12, 7-10). Questo è uno dei punti più controversi dell’esegesi paolina: cos’è questa dolorosa “spina nella carne”, perché un angelo cattivo lo percuote, perché Paolo, pur concretamente visitato da Cristo diverse volte, lo prega di liberarlo da quella spina e dal quel demonio, perché la risposta del Signore è incoraggiante e negativa ad un tempo? Benché molto si sia detto e scritto su ciò, benché in ambito cattolico ancora si ritenga di non poter stabilire esattamente la vera natura e il preciso significato della lamentela di Paolo, e benché l’interpretazione di natura sessuale fornita da sant’Agostino sembri oggi ai più infondata o non più legittima di altre interpretazioni, proprio Agostino, a mio avviso, fornisce la lettura esegeticamente più vicina al terribile cruccio di Paolo. Tra le interpretazioni più quotate c’è quella per cui dal contesto del discorso paolino si evincerebbe che la spina sarebbe costituita fondamentalmente dalle difficoltà che Paolo avrebbe trovato nel suo apostolato. Difficoltà esterne: persecuzioni, fraintendimenti, calunnie, e difficoltà interne, personali, di natura fisica: probabilmente una malattia o una debolezza di tipo fisico. A Paolo, che era stato inviato da Gesù a predicare il Vangelo dappertutto, i conti non sarebbero più tornati nel constatare che i suoi programmi apostolici venivano seriamente ostacolati dalle sue infermità fisiche, per cui avrebbe reiteratamente scongiurato il Signore di togliergli quella spina, di spianargli la strada, di consentirgli di annunciare il vangelo senza eccessivi ostacoli. Ma questa interpretazione risulta attendibile sino ad un certo punto. Infatti è inverosimile che Paolo, che, in base alla sua enorme, avventurosa e rischiosa esperienza di vita (si pensi non solo alla sua quasi quotidiana attività di predicatore ma anche ai suoi frequenti spostamenti, ai viaggi difficoltosi che dovette spesso affrontare, alle veglie e ai digiuni forzati cui dovette sottoporsi, alle esperienze umane traumatiche patite come flagellazioni e lapidazioni subíte dagli ebrei e fustigazioni corporali inflittegli dai romani, e infine ai periodi prolungati di prigionía che gli vennero imposti o ai drammatici naufragi da cui si salvò talvolta miracolosamente), doveva essere un uomo in buona o almeno discreta salute e dotato di una forte struttura psico-fisica che gli consentiva poi di essere sempre carico anche di energie mentali, affettive e spirituali, quali emergono indiscutibilmente dalle sue lettere, si lamentasse con il Signore per alcuni particolari disagi che il suo stesso apostolato comportava, o per qualche sia pur accentuato disturbo fisico e psicologico, o addirittura per forme talvolta anche gravi di incomprensione e ostilità che gli capitava di sperimentare presso alcune delle comunità cui si rivolgeva in qualità di evangelizzatore. E’ inverosimile cioè che Paolo si lamentasse apertamente, quasi platealmente, del fatto che Gesù gli avesse concesso di essere suo testimone in un contesto di stenti, di privazioni, di sofferenze e umiliazioni, di contrarietà di ogni genere, che egli sapeva benissimo essere il miglior contesto possibile per poter meritare alla fine l’abbraccio di Dio e l’agognata corona dell’immortalità. Non è che Paolo non pregasse il Signore di facilitargli il più possibile il suo compito, la sua missione: questa è una preghiera umanissima e del tutto normale che ogni essere umano è portato lecitamente a rivolgere al Signore. Ma sapeva anche che la fatica, la sofferenza di qualunque genere, le umiliazioni, erano parte integrante del viaggio spirituale verso Dio e verso la salvezza eterna, per cui non è pensabile che egli recriminasse contro qualunque pena e sacrificio fosse chiamato a sopportare per amore di Dio. Non è pensabile. Dunque, la spina nella carne, le beffarde percosse demoniache, l’insistente e angosciata richiesta di poterne essere liberato, di cui scrive, dovevano avere per oggetto non una qualche infermità, non una particolare privazione, non uno stato di debilitazione fisica o di generica sofferenza e frustrazione, ma qualcosa di molto particolare, di molto specifico, probabilmente anche di non completamente confessabile (e, infatti, Paolo allude a qualcosa di grave che lo affligge ma non lo descrive precisamente), che doveva metterlo in crisi moralmente e spiritualmente come uomo, come eletto e apostolo di Dio, come testimone e predicatore della santa parola di Dio. Da cosa poteva essere cosí colpito, cosí afflitto, cosí tormentato, un uomo cosí sincero, cosí onesto e generoso, cosí incurante di ogni umano pericolo e cosí fiduciosamente dedito e fedele alle cose e alla volontà divine? E’ pressoché certo che doveva trattarsi di qualcosa che incrinava ai suoi occhi la sua stessa dignità di uomo e di ministro di Dio, facendolo sentire non retoricamente ma realmente un uomo indegno della grazia ricevuta da Dio. Qual era questa “spina” conficcata nella sua carne molto più di qualunque altro tormento esistenziale? Qual era il vero problema umano e spirituale di Paolo? Qual era “il tumore” da cui chiedeva di essere liberato? Sant’Agostino offre una risposta attendibile: il “tumore” di Paolo era una cronica fragilità psico-fisico-sessuale che lo spingeva a peccare, era una tentazione sessuale ricorrente da cui si sentiva devastare i sensi, era un peccato persistente che, nonostante i suoi notevoli sforzi e le sue struggenti suppliche a Dio, non riusciva a superare completamente e da cui veniva gettato spesso in un indesiderato stato depressivo che finiva per alimentare in lui un acuto senso di colpa. In fondo, quando l’apostolo scriveva che “non faccio quel che vorrei”, cioè non faccio il bene che colgo con la mente e giudico degno di essere desiderato e perseguito, “ma faccio il male che detesto” (Rm 7, 18), vale a dire faccio il male costituito dai miei desideri perversi che anziché contrastare risolutamente finisco per assecondare con la mia volontà evidentemente debole o inferma, egli parlava soprattutto di se stesso, nota giustamente Agostino. La criticità di san Paolo era di natura sessuale e aveva per oggetto la sua concupiscenza che probabilmente non riusciva a tenere perfettamente a freno e che non poteva non angosciarlo, dal momento che, pur essendo stato capace di opporsi e resistere fieramente a qualunque avversità e di fare rinunce molto costose per amore di Cristo, rimaneva tuttavia troppo spesso in balía dei suoi istinti, delle sue pulsioni sessuali. Il suo sincero desiderio di bene veniva cosí in parte vanificato dalla sua incapacità pratica di attuarlo. Quella “spina nella carne” era pertanto una concupiscenza mal governata o imperfettamente governata, ed essa era fonte di profonda umiliazione per Paolo che avrebbe voluto sentirsi soggettivamente più degno dell’amicizia di Cristo e della missione apostolica da questi affidatagli. Ecco perché, egli racconta, “ho chiesto a Cristo di esaudire la mia supplica, di liberarmi da questo odiosissimo male”, ma mi sono sentito rispondere che “la sua grazia doveva bastarmi perché è nella umana debolezza che si manifesta veramente e pienamente la sua potenza”, con relativo implicito invito a considerare la persistenza, sia pure sinceramente odiata e in qualche modo avversata, di quell’ostinata forma di peccato, a fronte della sua comprovata grandezza morale e spirituale, come la migliore terapia per conservarsi perfettamente umile e riconoscente verso il Signore. Inutile sarebbe interrogarsi sulla specifica natura della relativa incontinenza sessuale di Paolo: sia che si tratti di una incontinenza eterosessuale o (come qualcuno maliziosamente sostiene) di natura omosessuale, sia che si tratti di una spinta all’adulterio o di generiche fantasie sessuali confinate nell’ambito della propria intimità, il vero problema è che si trattava di un peccato talmente odioso, umiliante e inconfessabile da costringere Paolo a limitarne l’esatta e compiuta descrizione. Succede spesso ai santi: di essere tetragoni e virtuosissimi su tutti i piani dell’esistenza tranne che su quello della sessualità su cui essi sono costretti ad impegnarsi, a soffrire e a lottare molto di più. Essere un vero campione di verità e di carità, sia pure esclusivamente per grazia divina, e scoprirsi poi miserabilmente impigliato nelle fitte e sottili reti della concupiscenza, per Paolo doveva essere motivo di amarezza e di sconforto, sebbene poi la sua fede gli consentisse di cogliere la ratio di quel suo dramma nella volontà stessa di Dio volta a renderlo spiritualmente umile nonostante la sua umana grandezza e a farne un semplice e piccolo esecutore della sua potenza. “Ti basti la mia grazia”, si sente dire Paolo da Gesù. Come dire: ti ho scelto come mio amico, come mio apostolo, come testimone e annunciatore della mia Parola di salvezza presso tutte le genti; adesso vorresti pure sentirti già perfetto, già perfettamente santo, già compiutamente beato? Se fossi tentato di inorgoglirti per tutto quello che stai facendo di buono, se non fossi capace di mantenerti umile nonostante le grandi cose che stai facendo nel mio nome, tutta la tua opera, che non tu stai compiendo ma io attraverso di te, sarebbe totalmente vana, perché non la tua potenza deve affermarsi nel mondo ma la mia potenza nella debole e lacunosa realtà umana della tua esistenza. La debolezza da cui vorresti essere liberato è bene che resti: essa è la medicina che ti occorre perché ti costringe a non adagiarti sugli allori di una già raggiunta perfezione, ma a lottare contro il peccato che ancora agisce anche in te! Pertanto, tu che sei un uomo giusto, onesto, laborioso, caritatevole e dotato di una fede granitica, sforzati di accettare il male che ti debilita psicologicamente, ti deprime umanamente, ti umilia spiritualmente, sforzati di accettarlo come occasione efficace di catarsi interiore, di purificazione morale, di combattivo esercizio spirituale volto al conseguimento della vita eterna. E, infatti, come scrive Agostino nel “Discorso 154”, è «proprio l’Apostolo che confessa di non essere giunto a tanta perfezione di giustizia quanta noi crediamo presente negli angeli…Tuttora combatto, non ho vinto ancora; è gran cosa per me non essere vinto…L’Apostolo parla della sua personale imperfezione. Ogni santo in questa vita è carnale e spirituale ad un tempo…L’uomo spirituale potrebbe essere tentato, anche se non nella mente, certamente nella carne. E’ infatti spirituale perché vive secondo lo spirito, ma anche carnale quanto alla natura mortale; è spirituale e carnale ad un tempo». E’ una lotta continua che finirà solo quando «la morte sarà assorbita nella vittoria. Allora ci sarà il grido di chi trionfa, non ci sarà il sudore del combattente». Per molte persone comuni, che non hanno la tempra e le qualità spirituali di san Paolo, la dinamica è la stessa: non vogliono commettere adulterio ma poi commettono adulterio, non vogliono essere avari ma sono avari, vogliono essere compassionevoli e sono crudeli oppure religiosi e sono empi, vogliono essere casti ma sono portati all’impudicizia o a desiderare cose perverse. Naturalmente, molte persone comuni, rispetto a Paolo, non sono altrettanto capaci di annunciare e illustrare la Parola di Dio, di servire e obbedire a Dio, di promuovere la giustizia e la carità tra gli uomini, di utilizzare la fede in Cristo come permanente stimolo alla lotta contro il peccato e contro il male oggettivo e soggettivo ad un tempo che è nel mondo e in ognuno di noi. Bisogna avere l’umiltà di riconoscerlo, proprio come Paolo dovette avere l’umiltà di riconoscersi santo e peccatore insieme, santo non ancora completamente vincitore sul peccato quantunque sostenuto dalla grazia di Dio. Pur essendo vicinissimo a Dio, Paolo si sentí sempre non retoricamente ma realmente e sensibilmente, a causa della sua parziale vulnerabilità sessuale, indegno dell’amore di Dio ma, proprio per questo, sempre ardentemente impegnato nella conquista dell’amore stesso di Dio. Paolo fu un esempio vivente di cosa debba essere la vita cristiana: non una tranquilla e definitiva appropriazione della divinità, ma una inquieta e sempre nuova ricerca della sua presenza nella nostra esistenza. Indipendentemente dalla specificità del contesto in cui ognuno di noi venga facendo esperienza di Dio, san Paolo oggi è lí a dire ad ogni cristiano che, quanto più si riceve da Dio, tanto più occorre essere intransigenti verso se stessi, verso i propri limiti e i propri peccati, quale che sia la loro natura, contro cui si è tenuti a combattere, sempre fidando nella misericordia divina, sino alla fine della propria giornata terrena. Ma Paolo è lí anche a dimostrare che, per quanto possa essere grande e sincera la nostra fede in Cristo, non bisogna mai illudersi sulla solidità della nostra tenuta spirituale, né minimizzare o nascondere in qualche modo alla nostra coscienza la gravità di certe nostre specifiche debolezze come sono ad esempio quelle di natura sessuale, perché solo riconoscendole e dolendocene apertamente possiamo realmente favorire il nostro cammino spirituale verso Dio e verso il premio celeste che egli prepara per ognuno di noi. Paolo avrebbe potuto minimizzare il suo senso di colpa a colpi di razionalizzazione dicendo: è vero, ho questo fastidiosissimo problema, avverto questa inclinazione alla concupiscenza, mi sento spesso o talvolta tentato dai sensi, sono soggetto a questo peccato odioso; però, essendo io l’apostolo prescelto dal Signore e annunciando a tutto il mondo il suo messaggio di salvezza con tutto l’amore e con tutte le forze di cui sono capace, sono certo che il Signore mi perdonerà per cui forse non è il caso che io drammatizzi troppo, né che io mi senta un miserabile al pari di tanti peccatori patentati o recidivi. Non è questo il ragionamento di Paolo e, contrariamente a quel che spesso accade, non dovrebbe mai essere questo il ragionamento di tanti di noi cristiani. Paolo non fa un confronto tra lui che è un santo di Dio e i comuni peccatori, non attenua la gravità del peccato cui si ritrova periodicamente ad essere assoggettato, e anzi si sente malato, colpito da un vero e proprio “tumore” dell’anima, e implora il Signore di esserne liberato perché è uno di quei tumori di cui un uomo onesto non può non vergognarsi e da cui un uomo di Dio non può non sentirsi travolgere. Paolo implora il Signore: liberami, perché non posso vivere in questa doppiezza di saper discernere il vero e il bene ma di non sapere mettere sempre in pratica l’uno e l’altro; liberami, perché cosí mi sento un miserabile, uno straccio, un individuo senza dignità. Sono cristianamente comprensibili e doverosi questa sua insistente preghiera, questo suo lucido e non isterico accusarsi davanti a Dio della sua colpa e questa reiterata richiesta di esserne finalmente sciolto. Ma altrettanta significativa, per la nostra fede, è la risposta del Signore: io ti ho scelto per amore nella tua debolezza, non per eventuali tuoi meriti; io ti ho scelto gratuitamente non perché costretto dalla tua intelligenza e dalla tua sensibilità spirituale ma perché impiegassi utilmente il tuo zelo religioso; ho voluto trasformarti il cuore e ti ho chiamato per regalarti la possibilità di collaborare fattivamente al mio progetto salvifico ma non anche per privarti della fatica necessaria per purificarti umanamente e progredire spiritualmente; hai ricevuto da me un privilegio ma questo privilegio non ti esime dal confessare i tuoi limiti e dal riconoscere che la potenza divina è tale proprio perché si manifesta anche in uomini deboli e difettosi come te! Solo cosí ti sarà realmente possibile evitare che quello stesso privilegio possa darti alla testa sino a farti sentire una specie di divinità e si trasformi quindi in causa di superbia! Paolo capisce la lezione di Dio e dice: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie  infermità … quando sono debole, è allora che sono forte»  (2 Cor 12, 9-10). Ma non è esatto scrivere, come qualche teologo fa, che egli sia qui «orgoglioso della sua debolezza»: come si può essere orgogliosi della propria debolezza, dei propri peccati, delle proprie contraddizioni interiori? Sant’Ireneo, commentando proprio la seconda Lettera ai Corinzi, distingue la debolezza dalla grazia, osservando che la debolezza realmente e non genericamente riconosciuta rende evidente la grazia, che la debolezza umilmente accettata e abbracciata come una croce di passione, rende più evidente l’essere abbracciati da Dio, dove però quello di cui ci si può e ci si deve rallegrare è per l’appunto l’essere abbracciati, non certo la debolezza: ecco perché e in che senso nella debolezza umana si manifesta la potenza di Dio! Quando un bambino è ammalato i genitori sono portati a stargli più vicino ma non è la malattia del bambino a costituire un valore. Insomma, la debolezza, il peccato, il senso e la confessione della colpa non sono un bene se non in quanto concorrano a rendere evidente la gratuità assoluta dell’amore di Dio per noi. Per i nostri peccati noi, come Paolo per quel suo vergognoso peccato, meriteremmo di essere puniti, ma se, nonostante i nostri peccati, il Signore può e vuole concederci la sua grazia nella molteplicità delle sue forme, la coscienza e non la rimozione delle nostre debolezze ci è utile e anzi necessaria per acquisire, per noi stessi e per gli altri, una giusta consapevolezza della straripante misericordia e della potenza inaudita di Dio. Forse, paradossalmente, senza la percezione di quella vergognosa “spina nella carne”, dobbiamo temere che alla nostra vita spirituale e alla nostra stessa fede manchi qualcosa di essenziale. 

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