SULLE ORME DI PIETRO E PAOLO A ROMA
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SULLE ORME DI PIETRO E PAOLO A ROMA
Giovanni Gentili
La storia, il culto, la memoria dei due apostoli nei primi secoli della cristianità La grande mostra archeologica promossa dal Pontificio Consiglio per i Laici e organizzata dal Meeting in collaborazione con i Musei Vaticani, dal 30 giugno fino al 10 dicembre prossimi, è chiave di lettura indispensabile alla comprensione del sorgere e del diffondersi del primo cristianesimo romano, e perciò universale. Una tappa fondamentale del pellegrinaggio giubilare Milano, anno 313: l’editto imperiale di Costantino, che concede alla Chiesa e alla fede cristiana tolleranza e libertà di espressione e culto, pone fine a un lungo e tribolato periodo di esistenza per le prime comunità cristiane disseminate nei vari territori dell’impero. Succede, alle prove e alle persecuzioni, un periodo finalmente di pace, carico di possibilità e sviluppi. Da subito e per volontà imperiale, si erigono edifici religiosi sui luoghi storici più cari alla devozione e alla fede dei cristiani, a Gerusalemme, a Betlemme e a Roma. È proprio nella “capitale del mondo” che sorgono anzitutto la basilica vaticana e, poco più tardi, quella dedicata a San Paolo sulla via Ostiense, mentre precede le medesime quel luogo dedicato alla venerazione e culto dei due apostoli, per tanti versi straordinario, noto come Memoria Apostolorum, al terzo miglio della via Appia, la regina viarum, fuori la porta detta oggi di San Sebastiano. Sul cosiddetto “trofeo” di Pietro, ammirato e descritto insieme a quello paolino dal presbitero Gaio intorno al 200 della nostra era (una forma assai semplice di monumentalizzazione di sepolcro, per quello che l’evidenza archeologia del “trofeo” vaticano oggi ci racconta, come si evince anche dal plastico realizzato per la mostra “Pietro e Paolo” allestita a Roma), sorge, nei pressi del circo che fu di Caligola, la grande basilica che Costantino, in qualità di pontifex maximus, fa erigere, di fatto celando sotto immani quantità di terreno rimosso una necropoli pagana lì esistente. È qui infatti – oggi all’interno del percorso archeologico della medesima realizzato sotto le Grotte vaticane – che il corpo di Pietro venne deposto, intorno al 64 o 67 d. C., da mani pietose, in una fossa terragna a cielo aperto, oggetto di attenzione e di venerazione crescente, e perciò, probabilmente nel II secolo, abbellita da una forma architettonica importante, destinata a custodire più solennemente le spoglie dell’apostolo.
La tomba di Paolo Stessa sorte sarebbe capitata, nei pressi di Aquas Salvias, oggi Tre Fontane, alla sepoltura di Paolo, decapitato fuori le mura, com’era costume per i cittadini romani, probabilmente nel 67. Lì, lungo la via Ostiense, si poteva contemplare, tra la fine del II e gli inizi del III secolo, una tomba, probabilmente simile nell’aspetto a quella di Pietro, sulla quale Costantino fece innalzare una basilica, assai più piccola della vaticana, lungo un asse esattamente inverso all’attuale, poi oggetto, sotto il pontificato di Damaso nel IV secolo, di profonda ristrutturazione e ingrandimento. Poco si sa della vera forma della tomba dell’Apostolo delle genti, mai fatta oggetto di scavi sistematici – come avvenne, invece, in questo nostro secolo per la Memoria vaticana -. Qualche evidenza archeologica riaffiorò, quasi fortuitamente, in occasione della ricostruzione della basilica ed in particolare degli sterri del 1838 intrapresi nell’area dell’altare maggiore, dopo il rovinoso incendio della stessa nel 1823. Oltre alla lastra dedicatoria che si può ammirare in calco nella mostra (l’originale non è più visibile), è attestato, da schizzi risalenti all’epoca ed eseguiti dall’architetto Vespignani, un locus venerationis, un loculo, protetto da una grata, inserito in un monumento formato da uno zoccolo in opera reticolata e definito agli angoli da paraste; il che, pur nella scarsità dei dati, permette di presupporre una Memoria monumentale, stavolta paolina, simile nell’aspetto, alla vaticana. Più oltre, a qualche chilometro di là e ad est, un pergolato cintato ed affrescato con scene di giardino, con fiori e uccelli ospitati tra graticci di canne e fogliami, era già oggetto, da qualche tempo – probabilmente dalla seconda metà del III secolo – di una forma di devozione singolare. Qui, nei pressi dell’area cimiteriale di Callisto e nelle immediate adiacenze del sepolcro del martire Sebastiano sulla via Appia, si riuniva una folla di fedeli, non solo romani, a venerare la memoria dei Principi degli apostoli, come si evince dagli oltre seicento graffiti – di cui alcuni, preziosissimi, esposti in mostra al Palazzo della Cancelleria – su intonaco rosso della cosiddetta triclia, straordinaria “reliquia” architettonica oggi sotto la basilica di San Sebastiano, eretta sul luogo detto ad catacumbas, un avvallamento interessato da cave di pozzolana. La triclia, un edificio per metà pergolato e per l’altra metà porticato, doveva probabilmente servire per i refrigeria, i banchetti rituali funerari lì svoltisi in onore di Pietro e Paolo nel giorno anniversario del loro martirio, il 29 giugno; e fu probabilmente per questo motivo che più tardi il luogo si definì come memoria apostolorum. In questo spazio all’aperto, appena fuori porta, tra orti e i giardini intensamente coltivati per i fabbisogni e gli usi commerciali della città, sicuramente nel 258, essendo consoli Tusco e Basso, ma probabilmente anche da prima, si celebrava dunque il culto congiunto di Pietro e Paolo, in una sede unica e diversa dai luoghi delle rispettive sepolture. Non è certo il perché di tale scelta logistica. Di certo il culto agli apostoli continuò anche dopo l’interramento e quindi, la cancellazione fisica della triclia – riemersa, peraltro, grazie agli scavi intrapresi dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra proprio in questo secolo – letteralmente ricoperta dalla basilica cimiteriale dedicata a Sebastiano, il cui culto si affiancò intorno al IV secolo a quello preesistente dedicato a Pietro e Paolo. Assieme ai tre edifici ora ricordati, il panorama della capitale dell’impero si caratterizzava, tra IV e V secolo, da altre significativi monumenti, legati da antica tradizione alle memorie dei due apostoli: Santa Pudenziana, Santa Prassede e Santa Prisca, care ai primi cristiani per la permanenza in esse di Pietro a Roma nel I secolo, così come gli edifici di San Pietro in Vincoli, il “Quo Vadis” sulla via Appia e il Carcere Mamertino nei pressi del Foro Romano. Quanto a Paolo e alla sua presenza nella città, un’antica tradizione ne addita la memoria nella chiesa di San Paolo dalla Regola, nelle adiacenze del Ghetto ebraico, in Santa Prisca all’Aventino (indicata come abitazione di Prisca ed Aquila, già ben noti all’Apostolo delle genti prima del suo arrivo a Roma) e il martirio nel luogo denominato ad Aquas Salvias, oggi le Tre Fontane nei pressi dell’Eur.
Pietro e Paolo romani Fu al termine del suo terzo viaggio – iniziato nel 53 d. C. e che vide Paolo traversare dapprima la Galizia e la Frigia e soggiornare poi, per circa tre anni, nella città di Efeso e di qui raggiungere Corinto, Filippi e, infine, Gerusalemme – che Saulo di Tarso, il tessitore, venne arrestato dai romani, su istigazione dei giudei, e trasferito a Cesarea, dove subì un processo davanti al procuratore Felice che, ritenutolo innocente, lo fece comunque recludere per due anni. Poco dopo, nel 59, stante la richiesta di estradizione dell’apostolo a Gerusalemme formulata dai giudei al nuovo procuratore Festo, Paolo si appellò a Cesare, in qualità di cittadino romano e fu quindi, di lì, trasferito a Roma. Il viaggio, ricco di avvenimenti e non senza pericoli, lo portò in Italia, a Pozzuoli, scalo fisso per tutti i naviganti provenienti dall’Africa o dall’Oriente. Qui sbarcato, l’apostolo trovò un gruppo di “fratelli”, di cristiani ad attenderlo (cfr. At 28,14). Traversata quindi la Campania alla volta di Roma, Paolo vi giunse nei pressi «e di là i fratelli, che avevano sentito le nostre peripezie, ci vennero incontro fino a Foro Appio e alle Tre Taverne. Quando Paolo li vide, ringraziò Dio e prese coraggio» (At 28,14-15), fidando nell’amicizia dei cristiani di quella comunità, cui Paolo era già ben noto, sia per la grande attività missionaria svolta che per la lettera, scritta nel 57 e loro indirizzata, nella quale, per altro, egli si dichiarava desideroso d’incontrarli. Quanto a Pietro e alla sua venuta nella capitale dell’impero, non è semplice stabilire con certezza quando questi vi arrivò. Fonti antiche datano intorno al 42 d.C. un suo primo probabile viaggio a Roma, quando, fuggito dal carcere a Gerusalemme ed evidentemente impossibilitato a sostare ancora a lungo in quella città per l’estrema insicurezza della situazione, «Pietro se ne andò in altro luogo» – forse Roma? -, come recitano gli Atti (12,17). Di certo, dopo il ritorno a Gerusalemme, dove la sua presenza è testimoniata, assieme a quella di Paolo, nel 49, secondo quanto riportato sempre negli Atti degli Apostoli, il pescatore di Galilea dovette, in seguito, ritrovarsi nell’Urbe. Qui il suo martirio è già datato alla persecuzione neroniana del 64, successiva all’incendio devastante della città accaduto nella notte tra 18 e 19 luglio di quell’anno, da papa Clemente, suo terzo successore nella guida della comunità romana, nella lettera scritta da questi ai fratelli di Corinto nel 96. Vi si apprende che fu per causa di invidie e gelosie che Pietro venne dapprima catturato, processato e quindi crocifisso nel circo fatto costruire da Caligola sulle pendici del colle Vaticano o negli horti imperiali adiacenti, a testa in giù, come raccontano gli Atti di Pietro, uno scritto apocrifo della fine del II secolo, probabilmente nello stesso anno 64, secondo Clemente ed Ireneo; mentre al 67 sembrano datarne la morte Eusebio di Cesarea e san Girolamo.
Le origini di Roma cristiana Chi erano i fratelli cristiani che si fecero incontro a Paolo alle Tres Tabernae? Come e quando si era diffuso il cristianesimo a Roma? Notizie storiche della prima comunità risalgono a Paolo stesso, che ad essa indirizza la lettera scritta tra 56 e 57. In essa, le sottolineature dottrinali riguardo la giustificazione, e perciò il rapporto quanto mai dialettico tra la fede in Cristo e la legge mosaica, lasciano intendere come anche nella comunità romana fossero vivissimi i contrasti tra quanti avrebbero voluto comunque costretti all’osservanza della legge i pagani convertiti al cristianesimo e tra coloro che, come era anche il caso di Paolo, li volevano invece assolutamente liberi dal carico della precettistica legale e cultuale giudaica. È probabile che tale insistenza paolina testimoni della consapevolezza avuta dall’apostolo di una tendenza pesantemente “giudaizzante”, presente all’interno della prima comunità romana, e che egli si premunisca perciò di chiarire la propria posizione sull’argomento scottante, prima della sua visita, per altro allora irrealizzata nonostante il desiderio dell’apostolo, alla stessa. Un più antico cenno relativo alla presenza dei cristiani nel cuore dell’impero si ha in Svetonio che, a proposito dell’imperatore Claudio, racconta che questi fece allontanare dall’Urbe nel 49 d.C. i giudei che litigavano tra loro “impulsore Chresto”, a causa, cioè, di un rivoluzionario Cristo. È dunque nel nuovo messaggio evangelico che va trovata con certezza la causa dei moti che dovettero caratterizzare, in maniera probabilmente anche violenta, la comunità romana del I secolo, tanto da costringere il Cesare a tale provvedimento. D’altronde, la vicenda del processo e del martirio subiti da Pietro e Paolo – per gelosia e invidia, come ricorda Clemente Romano – dà adito a un’ipotesi di profonda irrequietezza all’interno della comunità cristiana sotto Nerone. Quanto alla sua consistenza numerica, Tacito negli Annali, la descrive come ingens multitudo, tanto da non essere annientata, la stessa, neppure dalla violenta persecuzione, come lo storico certamente non di parte ci riferisce, seguita all’incendio della capitale del 64. Che il cristianesimo si diffondesse ben presto tra le classi agiate della città, fino a lambire da vicino la famiglia imperiale, è testimoniato poco più tardi, esattamente nel 95, dall’uccisione di Flavio Clemente, cugino dell’imperatore Domiziano, e del nobile Acilio Glabrione, già console, nonché dall’esilio imposto a Flavia Domitilla, accusati di ateismo durante il regno di Domiziano stesso. L’accusa allude quasi certamente alla professione di cristianesimo da parte dei suddetti, in quanto “atei” venivano definiti coloro che non veneravano le tradizionali divinità pagane. Lo stesso papa Clemente dà conferma dell’avvenuta persecuzione, nella lettera ai Corinti del 96. Questi, tra l’altro, descrive la comunità romana come governata da un collegio di presbiteri, modalità di organizzazione gerarchica che la chiesa aveva ereditato dalla sinagoga giudaica, diffusa allora anche presso altre comunità di tendenza giudaizzante, anche di origine paolina (come Corinto ed Antiochia) originariamente sorrette in altro modo, tramite sorveglianti (episkopoi) e ministri (diakonoi). Tale forma di organizzazione sarà più tardi sostituita a Roma, verso la fine del II secolo, dall’ordinamento episcopale monarchico, già in atto altrove e comunque destinato a imporsi in Oriente e in Occidente con notevole rapidità.
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