IL RAPPORTO TRA LO SPIRITO SANTO E IL CRISTIANO – DI GIANFRANCO RAVASI
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Con lo Spirito Verso il Giubileo
IL RAPPORTO TRA LO SPIRITO SANTO E IL CRISTIANO – DI GIANFRANCO RAVASI
Vita Pastorale n. 11 novembre 1998 – Home Page
«La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». Il saluto trinitario paolino (2 Corinzi 13,13) può essere idealmente l’avvio della nostra nuova riflessione sullo Spirito Santo. L’accento cade su quel «tutti voi» finale: ogni cristiano ha un rapporto radicale e personale con lo Spirito. È ciò che a più riprese attesta Paolo ed è il naturale sviluppo di quanto abbiamo approfondito lo scorso mese, esaltando la funzione ecclesiale dello Spirito. A partire dall’immagine del corpo l’apostolo, in 1 Corinzi 12, celebrava il nesso tra dono comune effuso con la grazia a tutti i fedeli e i carismi specifici di ciascun credente. Gli stessi verbi usati sono significativi: lo Spirito è «mandato, dato, elargito, versato, effuso» nel cristiano ed è da lui « ricevuto » così da esserne « pieno », da « abitare » o « dimorare » nel suo cuore, da « averlo » come possesso personale. Bellissima è la frase a connotazione battesimale di Romani 5,5: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Dicevamo che lo Spirito è presente in modo « radicale » in ogni cristiano. È ciò che accade appunto nel battesimo, quando riceviamo l’adozione a figli e diveniamo nuova creatura. Fondamentale è il passo di Galati 4,6 (ripreso da Romani 8,15): «Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: « Abbà », Padre!». L’effusione dello spirito nel battezzato fa sì che egli possa rivolgersi a Dio con l’appellativo familiare aramaico con cui il bambino chiamava suo padre, « papà ». Questo ingresso « radicale » dello Spirito dà il via a una trasformazione integrale dell’essere della creatura e del suo agire. Il figlio di Dio cresce seguendo il percorso che gli viene indicato dallo « Spirito del Figlio »: «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Galati 5,25). Lo Spirito Santo non è solo una componente strutturale dell’antropologia cristiana, lo è anche dell’etica. Non è solo alla base ontologica della nuova vita trascendente, è anche principio dinamico che anima l’agire morale, conducendo il cristiano a produrre «il frutto dello Spirito che è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22). Lo Spirito stimola il fedele a seguire «la legge dello Spirito», a vivere «nello Spirito» e a comportarsi «secondo lo Spirito» (sono queste espressioni tipiche paoline). Lo Spirito ci conduce, dunque, per tutto l’arco della nostra esistenza ma anche ci fa approdare alla meta ultima, all’escatologia. Per descrivere questa tensione verso la pienezza Paolo usa due immagini: della primizia (aparchè) e della caparra (arrabòn). Esse illustrano il nesso tra presente e futuro, tra realtà ottenuta e compimento sperato, un nesso che sostiene l’esistenza del cristiano e che è alimentato dallo Spirito. Ai Romani l’apostolo scrive: «Noi possediamo le primizie dello Spirito, ma gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo: nella speranza, infatti, siamo stati salvati» (8,23-24). Ai Corinzi, invece, dichiara: «Dio, in Cristo, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori» (2 Corinzi 1,21-22; 5,5). Che cosa significhino queste immagini di « anticipazione » e di speranza è esplicitato nella stessa Lettera ai Romani: «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato dai morti Gesù abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (8,11). Il nostro è, perciò, un destino pasquale ed è quello stesso Spirito, che ci ha dato nel battesimo una nuova vita e che ci ha guidato nell’esistenza morale secondo la legge dell’amore, a condurci efficacemente a quella pienezza gloriosa. Paolo nella prima Lettera ai Corinzi la raffigurerà anche con un’espressione greca a prima vista contraddittoria, soma pneumatikòn (15,44.46), « corpo spirituale ». Come può essere « spirituale » ciò che per sua natura è antitetico, cioè il corpo materiale? La risposta è nell’esatta comprensione dei due termini secondo il linguaggio paolino. Il « corpo » è, come per tutta la Bibbia, l’espressione della persona in tutta la sua realtà ma anche nel suo limite e nella sua mortalità. « Spirituale » non rimanda all’anima ma allo Spirito Santo. Ecco, allora, la soluzione: il nostro essere è invaso dallo Spirito di Dio ed è per questo che nella morte non s’affloscia nel nulla, ma è attirato a Dio che già in esso è presente e operante attraverso lo Spirito Santo. E Dio è eterno: noi, perciò, parteciperemo alla sua vita piena, alla sua gloria, in un abbraccio d’amore. Con questa riflessione sul rapporto tra lo Spirito Santo e il cristiano abbiamo concluso il nostro itinerario nelle pagine bibliche alla ricerca della presenza della terza persona della Trinità. La molteplicità dell’azione dello Spirito nei singoli cristiani è alla base dell’ »inno sacro » Pentecoste di Alessandro Manzoni che abbiamo già avuto occasione di evocare nella scorsa puntata della nostra rubrica. Per lo scrittore lombardo, lo Spirito rianima i dubbiosi e gli infelici, sconvolge i violenti, insegnando la pietà, conforta il povero in lacrime, pervade i bambini innocenti e rende viva la freschezza interiore delle fanciulle, sostiene le anime consacrate a Dio e le spose, guida il comportamento dei giovani e degli adulti ed è accanto a chi è entrato nella vecchiaia e soprattutto «brilla nel guardo errante/ di chi sperando muor».
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