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10 APRILE 2016 | 3A DOMENICA DI PASQUA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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10 APRILE 2016 | 3A DOMENICA DI PASQUA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? » Nella Liturgia della terza Domenica di Pasqua riaffiorano alcuni elementi che già abbiamo incontrato nella Domenica precedente: ad esempio, il tema della esaltazione del Risorto soprattutto nella celebrazione liturgica (2a lettura), il potere conferito a Pietro su tutta la Chiesa (Vangelo) messo in relazione con il potere di  » rimettere  » i peccati, oltre che, ovviamente, il riferimento globale di tutti i testi biblici al « mistero » della risurrezione del Signore (soprattutto la 1ª lettura). Tutto dunque prende significato da questo fondamentale fatto salvifico, alla cui luce anche noi vorremmo fare una rilettura soprattutto del ricchissimo brano del Vangelo odierno.

« Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete » In esso è molto facile distinguere due parti: la prima (Gv 21,1-14) ci descrive l’incontro del Risorto con un gruppo di sette discepoli sulla riva del lago di Tiberiade, seguito dalla scena della pesca miracolosa; la seconda, invece, ci descrive il conferimento a Pietro del primato su tutto il « gregge » di Cristo (vv. 15-19). Il punto poi di raccordo fra tutto questo ampio materiale, piuttosto eterogeneo, è costituito sia dalla figura di Pietro, sia dall’interesse « ecclesiologico » che pervade tutto il brano. È chiaro che in questa sede non ci interessano le questioni critico-storiche relative alla formazione e alla provenienza di questo capitolo, che indubbiamente è stato aggiunto in un secondo momento al Vangelo di Giovanni. A noi interessa piuttosto approfondirne il ricco messaggio teologico, in chiave di risonanza pasquale. La prima cosa da osservare, infatti, è lo sfondo pasquale in cui si svolgono gli avvenimenti. Lo nota espressamente l’Evangelista all’inizio: « Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade » (21,1). Lo sottolinea di nuovo verso la fine: « Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti » (v. 14). Inoltre, c’è il tipico schema descrittivo pasquale, che ritroviamo sia in Luca che in Giovanni: Gesù appare ma non è subito riconosciuto (v. 4), quindi si fa riconoscere attraverso qualche segno (qui la pesca miracolosa e la preparazione di un improvvisato banchetto: pane e pesce arrostito). Infine c’è la « confessione » di fede nel Risorto come « Signore ». È quanto intuisce immediatamente il « discepolo che Gesù amava », che lo dice subito a Pietro: « È il Signore ». Appena, poi, Simon Pietro « udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la sopravveste, poiché era spogliato, e si gettò in mare » (v. 7). In questo sfondo pasquale c’è poi da collocare sia il fatto della pesca miracolosa sia il conferimento del primato che, come vedremo meglio, sono intimamente collegati. E prima di tutto la pesca miracolosa, non tanto come fatto a sé stante quanto nella sua allusività « ecclesiologica ». Tre elementi attirano l’attenzione: il contrasto tra lo sforzo sterile dei discepoli lasciati a se stessi (v. 3) e l’abbondanza della pesca fatta su invito di Gesù (v. 7); il simbolismo dei 153 grossi pesci (v. 11); l’annotazione che, nonostante la quantità dei pesci, la rete non si sia rotta (v. 11). Il significato « ecclesiologico » è chiaro. Il miracolo della pesca allude alla missione (il motivo è esplicito in Lc 5,1-11), e la somiglianza tra il miracolo della pesca e la missione della Chiesa va cercata in profondità. La fatica notturna dei pescatori è vana: « Senza di me non potete far nulla » (15,5). Ma con Gesù tutto cambia. È la parola del Signore che ha riempito la rete, ed è unicamente la parola del Signore che rende efficace il lavoro apostolico dei discepoli. Il racconto vuol essere un ritratto dello sforzo della comunità senza Cristo (sterile) e con Cristo (fecondo). La missione è fruttuosa soltanto se obbedisce alla parola del Signore. Secondo l’esegesi antica, il numero 153 è un numero di « misteriosa perfezione », atto a indicare il grandioso successo della missione e il suo carattere universale. Successo e universalità non rompono l’unità della Chiesa. « È dunque la parola del Signore che garantisce alla Chiesa il successo, l’universalità e l’unità. Alla Chiesa non resta che l’obbedienza, e precisamente un’obbedienza carica di fiducia, come fu il gesto dei discepoli che calarono la rete nonostante la precedente esperienza di fallimento ». Il Cristo risorto è dunque il « Signore » soprattutto della sua Chiesa: ogni fecondità in essa deriva dalla « presenza » invisibile del suo Signore, come quella mattina sul lago di Genezaret, al primo pallido baluginare dell’alba. Ci volle l’occhio acuto e penetrante di Giovanni per riconoscerlo! Anche se Pietro si era dato un gran da fare per organizzare la pesca (v. 3), in realtà il successo arrise ai discepoli solo per l’intervento di Cristo che ordinò perfino i movimenti da fare: « Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete » (v. 6). La forza della Chiesa sta tutta in questa capacità di lasciarsi « guidare » dal suo Signore, che però normalmente agisce attraverso certe « mediazioni » umane.

« Pasci i miei agnelli… » È quanto risulta dalla seconda parte del racconto evangelico, che mette in evidenza il ruolo pastorale di Pietro: direi che c’è un riconoscimento e una investitura, nello stesso tempo, della sua funzione direttiva nella Chiesa, che già era stata adombrata nel fatto che proprio lui, dopo essersi gettato in acqua per raggiungere a nuoto il Signore, era risalito nella barca per « trarre a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci » (v. 11). Pur essendo coadiuvato dagli altri, è chiaro che è Pietro a dirigere tutte le operazioni. Le parole susseguenti del Signore non fanno che mettere allo scoperto un progetto di Dio, che già si stava in un certo senso dipanando. Non intendiamo qui commentare per esteso questo brano così ricco di riferimenti teologici e che pone la figura di Pietro al centro del « ministero » ecclesiale. Vogliamo soltanto indicare alcune linee più significative del suo « servizio » nella Chiesa, alla luce sempre del mistero pasquale. In primo luogo, c’è da osservare che, proprio perché colui che affida a Pietro il compito di « pascere » i suoi « agnelli » e le sue « pecore » (vv. 15.16.17) è il Cristo risorto, non può trattarsi di un affidamento, diciamo così, di « luogotenenza »: in quanto è l’eterno Vivente, Cristo è presente a ogni momento e a ogni gesto di salvezza della sua Chiesa. Se ora ha bisogno di Pietro, lo fa per « visibilizzare » la propria presenza e la propria presidenza nella comunità dei credenti: Pietro perciò non fa da schermo all’attività salvifica del Cristo, ma piuttosto da « mediazione » sacramentale. Se una « autorità » di Pietro ci deve essere nella Chiesa, essa non è autonoma, ma è l’autorità stessa del Cristo risorto che si esercita per mezzo di lui. Da questo punto di vista è chiaro allora che il servizio di Pietro è un « dono pasquale » fatto da Cristo alla sua Chiesa. Senza di Pietro la Chiesa sarebbe immensamente più povera! In secondo luogo, il servizio di Pietro nasce dalla capacità di amare ed è ordinato alla crescita nell’amore di tutti i membri della comunità ecclesiale. Per questo il Risorto gli chiede per ben tre volte: « Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? » (vv. 15.16.17). Molto probabilmente abbiamo qui un rimando alla triplice negazione della Passione. Se questo è vero, il significato delle parole assume una risonanza anche più profonda: nel ministero che Cristo gli affida, Pietro non dovrà contare sopra le proprie forze, che sono molto fragili e certamente lo porterebbero a tradire ancora, quanto piuttosto sulla « forza » che viene da Dio e che egli dispensa in proporzione dell’amore. « Il successore di Pietro sa che nella sua persona e nella sua attività è la grazia e la legge dell’amore che sostengono, vivificano e adornano tutto e, di fronte al mondo intero nello scambio d’amore tra Gesù e lui, Pietro, figlio di Giovanni, la santa Chiesa trova il suo appoggio come sopra un sostegno invisibile e visibile: Gesù invisibile agli occhi della carne e il Papa Vicario di Cristo visibile agli occhi del mondo intero » (Giovanni XXIII, Giornale dell’anima). Anche in maniera più esplicita, or non è molto, Giovanni Paolo II si rifaceva alla debolezza di Pietro, sorretto però dalla forza della grazia e dell’amore: « Erede della missione di Pietro…_il Vescovo di Roma esercita un ministero che ha la sua origine nella multiforme misericordia di Dio, la quale converte i cuori e infonde la forza della grazia laddove il discepolo conosce il gusto amaro della sua debolezza e della sua miseria » (Enciclica Ut unum sint, 25 maggio 1995, n. 93). In terzo luogo, c’è anche da richiamare il fatto che, proprio mentre Gesù conferisce a Pietro la presidenza pastorale su tutta la Chiesa, gli preannuncia velatamente il futuro martirio: «  »In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi… ». E detto questo aggiunse: « Seguimi »" (vv. 18.19). C’è dunque uno stretto rapporto tra il « servizio » di Pietro e la « sequela » di Cristo, che va fino al martirio: « Il significato immediato che più emerge è che Pietro viene assunto in un servizio totale, dove non ha più importanza la sua volontà ma quella del suo Signore » (W. Marxsen). Come si vede, tutto questo rimanda a un contesto tipicamente pasquale: quasi che il Cristo volesse dire che il ministero di Pietro e ogni altro ministero, nella Chiesa, sarà ministero di risurrezione solo se prima sarà stato ministero di sofferenza e di crocifissione, così come lo è stato per Gesù!

« L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza… » Proprio a questo pensiero ci rimanda la seconda lettura ripresa dall’Apocalisse (5,12-14), in cui si descrive una solenne « liturgia » celeste nella quale troneggia il Cristo risorto nella raffigurazione di un Agnello immolato, a cui tutta la creazione rende omaggio: « L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, forza, onore, gloria e benedizione… » (v. 12). C’è un evidente contrasto fra la figura dell’Agnello « immolato », segno di umiliazione e di sconfitta, e la « gloria » che adesso riceve da tutte quante le creature. Egli è collocato addirittura alla pari con Dio, come destinatario della immensa celebrazione cosmica: « A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli » (v. 13). La Pasqua eterna, che il Cristo celebra oggi nella gloria del Padre, nasce, dunque, dalla sua « immolazione » sulla croce. Solo « assumendo la condizione di servo » egli è diventato « Signore » (cf Fil 2,7-11). Una via da « seguire » per tutti i cristiani, e specialmente per quelli che egli ha « scelti » (cf Gv 15,16) a essere suoi « ministri ».

Settimio CIPRIANI  (+)

Christ Pulls St-Peter from the Waters. Jonathan Pageau

Christ Pulls St-Peter from the Waters. Jonathan Pageau dans immagini sacre st-peter2

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Publié dans:immagini sacre |on 7 avril, 2016 |Pas de commentaires »

LETTERA AGLI EBREI: PRESENTAZIONE GENERALE

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LETTERA AGLI EBREI: PRESENTAZIONE GENERALE

Giuseppe De Virgilio

La lettera agli Ebrei è l’esempio più antico e completo di omelia cristiana su Cristo «sommo sacerdote della nuova alleanza». Affascinante e complesso, questo scritto intende formare e sostenere i credenti nella concretezza della vita, in vista di un’autentica testimonianza di fede. Lo scritto neotestamentario che va sotto il titolo di «Lettera agli Ebrei» costituisce, per forma e contenuto, una delle più importanti testimonianze della tradizione teologica sul sacerdozio di Cristo elaborata nel cristianesimo delle origini[1]. Proponiamo un percorso introduttivo alla lettera in quattro tappe: a) Tradizione e canonicità; b) Contesto e redazione; c) Caratteristiche letterarie; d) Caratteristiche teologiche.

Tradizione e canonicità Tradizione Nell’elenco della Bibbia cattolica la lettera agli Ebrei segue la lettera a Filemone e precede quella di Giacomo. Anche se non contiene come mittente il nome di Paolo, fin dall’antichità essa è stata inserita tra le lettere paoline. La collocazione attuale è attestata per la prima volta nel codice Cleromontano (VI sec.), mentre nei precedenti codici la lettera era posta tra 2Tessalonicesi e 1Timoteo (cf. Sinaitico e Alessandrino) e nell’antichissimo papiro P46 (Chester Beatty, sec. II) si trova tra Romani e 1Corinzi. Non c’è concordanza della tradizione antica circa l’origine della lettera. La discussione riguarda il problema dell’autenticità paolina. Presso le comunità dell’Oriente, Ebrei fu ritenuta paolina nonostante le differenze rispetto al resto dell’epistolario. Queste erano spiegate in diversi modi: Clemente Alessandrino ipotizza che la lettera fosse stata inizialmente scritta da Paolo in ebraico e tradotta in greco da Luca[2]; Origene riconosce che la dottrina della lettera è degna di Paolo, mentre la forma letteraria sarebbe di un altro autore. In Occidente le perplessità circa l’autenticità paolina erano accentuate dall’impiego di Ebrei nelle controversie con gli ariani (cf. Eusebio; Tertulliano). Canonicità Verso la fine del IV sec. si perviene alla determinazione canonica anche grazie al peso autorevole della Chiesa d’Oriente. Ilario di Poitiers cita Ebrei allo stesso titolo delle lettere paoline. Girolamo lascia aperta la questione dell’autenticità paolina, confermando però la canonicità della lettera. Agostino d’Ippona conferma la canonicità invocando l’autorità delle Chiese orientali[3]. Il riconoscimento canonico è ufficialmente sancito nel Concilio di Laodicea (360) ed è attestato da Attanasio (cf. Lettera di Pasqua del 367). In Occidente l’attestazione canonica si trova nel Sinodo romano (382) e nei successivi Concili africani di Ippona (393) e Cartagine (397 e 419). Confermando tale tradizione i Concili di Firenze (1441) e di Trento (1546) inseriscono Ebrei nell’elenco ufficiale dei libri biblici, per quanto la definizione canonica tridentina non si pronunciò sulla questione dell’autenticità. Il dibattito sull’origine paolina È comprensibile come le perplessità che accompagnarono gli antichi circa l’autenticità-paternità paolina e l’identità dell’autore abbiano caratterizzano anche l’epoca moderna e contemporanea. La prima questione concerne il confronto letterario e teologico di Ebrei con l’epistolario paolino. Pur riconoscendo alcune rilevanti convergenze letterarie e tematiche con le lettere dell’Apostolo, tutti i commentatori elencano una cospicua serie di elementi che dimostrerebbero la non paolinicità dello scritto. Forniamo una sintesi essenziale delle differenze sul piano stilistico e contenutistico. Sul piano stilistico: – nell’esordio non compare come mittente il nome di Paolo; – propone uno sviluppo ponderato nel vocabolario (con la presenza di numerosi hapax legomena), misurato nel procedimento dimostrativo, raffinato nel linguaggio, così diverso dalla spontaneità e dall’impetuosità di Paolo; – adopera appellativi diversi per parlare di Gesù, introduce in modo diverso le citazioni dell’Antico Testamento (di cui rivela una notevole competenza esegetica e teologica) rispetto all’uso paolino delle Scritture[4]; – l’autore di Ebrei non rivendica mai la sua autorità apostolica, preferendo dar rilievo al suo messaggio, a differenza di Paolo che è solito mettersi in primo piano e difendere il suo apostolato (cf. Gal 1,1.12; 2Cor 11,1-2.23). In definitiva, la composizione di Ebrei dimostra un’arte raffinata, mentre l’epistolario paolino è caratterizzato dalla focosa irregolarità dell’Apostolo. Tali indizi non permettono di attribuire direttamente la paternità paolina a Ebrei. Sul piano contenutistico: – rispetto all’epistolario, in Ebrei spicca la peculiarità della dottrina cristologica del sacerdozio di Cristo, confermata dalle formule: «apostolo e sommo sacerdote» (Eb 4,14), «sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (6,20), «garante di un’alleanza migliore» (7,22), «pioniere e perfezionatore della fede» (12,2), «mediatore della nuova alleanza» (12,24)[5]; – la critica alla «legge» giudaica è concepita in un modo diverso rispetto all’epistolario paolino; – nello sviluppo argomentativo l’autore di Ebrei si riferisce a predicatori come appartenenti a una prima generazione cristiana (cf. 2,3; 13,7). Ipotesi circa l’autore Alla luce di questi elementi, che non confermano la paternità paolina dello scritto, si comprende l’eccedenza delle ipotesi nel corso della storia circa il possibile autore, la cui collocazione dovrebbe comunque essere compresa nella cerchia dei discepoli di Paolo (cf. la menzione di Timoteo in Eb 13,23). La tradizione annovera l’apostolo Pietro, l’evangelista Luca, Clemente Romano (cf. Fil 4,3), Barnaba, il diacono Stefano, Filippo uno dei “Sette”, Giuda fratello di Giacomo, Sila compagno di Paolo, Priscilla moglie di Aquila, Aristione discepolo del Signore (secondo Papia di Gerapoli) e, soprattutto, Apollo, raffinato giudeo di Alessandria convertitosi al cristianesimo (cf. At 18,24-28; 1Cor 3,4-9: 16,12; Tt 3,13). Secondo Karrer, l’autore deve essere appartenuto a una classe elevata del suo tempo. […] Egli pervade il cuore dell’antica retorica con elementi specificamente cristiani: proprio il Cristo disonorato sulla croce (12,2) ha il più alto onore di figlio di Dio (2,7-9; 3,3, ecc.). Questo capovolgimento fa pensare a Paolo. Ma l’arte retorica è superiore a quella di Paolo[6]. Malgrado l’ampio ventaglio di ipotesi, l’assenza di ogni testimonianza in proposito non permette finora di risolvere il dubbio circa l’autore della lettera. Contesto e redazione Contesto Un’attenta analisi di Ebrei implica la domanda circa l’ambiente socio-culturale delle sue origini e soprattutto l’identità dei suoi destinatari. Anche se il titolo «agli Ebrei» compare negli antichi manoscritti, in realtà esso non appartiene al testo della lettera. Nell’epilogo della lettera troviamo tre indicazioni: l’autore chiede di pregare perché sia restituito al più presto alla comunità (13,19); egli parla del «nostro fratello Timoteo» rilasciato (o partito), insieme al quale potrà finalmente rivedere la comunità (13,23a); si menziona un gruppo di cristiani denominati «quelli d’Italia» (13,24) che inviano saluti alla comunità. Dalla lettura del testo è possibile focalizzare diversi elementi che aiutano a precisare la situazione dei destinatari. Si tratta di cristiani che non hanno conosciuto direttamente il Signore (2,3), il che dissuade dall’attribuire loro un’origine palestinese. Venuti alla fede da tempo (5,12), essi hanno dovuto sopportare persecuzioni dolorose che sono state affrontare con eroismo e solidarietà (10,32-34). Di fronte alle nuove difficoltà (12,1-7) l’autore esorta alla costanza (10,36), a una più alta qualità della vita spirituale (5,11-12), all’assidua partecipazione alle riunioni (10,25), a fuggire la tentazione dello scoraggiamento (12,3.12) e a opporsi alle pericolose deviazioni dottrinali (13,9). Quest’ultima accentuazione assume un tono drammatico (il pericolo dell’apostasia: 6,4-6) con chiari intenti parenetici (10,26-31). Data la sorprendente familiarità con la letteratura anticotestamentaria, la lettera depone a favore di un contesto di origine giudaica, con influenze culturali molteplici, soprattutto per l’impiego della forma retorica[7]. I commentatori hanno sviluppato la ricerca approfondendo la natura della radice giudaica e le sue influenze in tre direzioni. a) Una prima direzione riguarda il grado di influenza della letteratura (ambiente) qumranica. Pur in presenza di rilevanti assonanze tematiche tra Ebrei e gli scritti di Qumran (ad esempio, il tema della nuova alleanza e l’attesa del grande sacerdote degli ultimi tempi), sono state evidenziate notevoli differenze che giustificano il radicamento di una comune tradizione biblica giudaica, ma con esiti teologici diversi. b) Una seconda direzione concerne la relazione tra Ebrei e il variegato mondo del giudaismo ellenistico. Tale collegamento è rappresentato dalla vicinanza stilistica (retorica) e tematica con il libro della Sapienza e, più in generale, con la tradizione del pensiero greco-alessandrino di Filone. Occorre riconoscere che sussistono importanti connessioni tipologiche, anche se l’idealismo platonico filoniano non si associa alla concretezza e alla visione escatologica di Ebrei. c) Una terza direzione richiama a possibilità di un’influenza gnostica (pre-gnostica?) che avrebbe potuto influenzare alcuni temi della lettera, quali la solidarietà del Figlio e dei figli (cf. 2,11), l’evocazione del riposo di Dio (cf. 4,1-11) e l’immagine del passaggio attraverso il velo (cf. 6,19-20; 10,20). Anche per questa ipotesi, l’attestazione di una corrente gnostica è da considerare anacronistica rispetto alla redazione di Ebrei e al suo ambiente cristiano. Occorre concludere che la lettera si è originata ed è stata redatta in un ambiente caratterizzato da tradizioni giudaiche, nelle quali si coglie l’incrocio con molteplici influssi culturali provenienti soprattutto dal mondo ellenistico. Redazione e datazione Si ignora il luogo di redazione, malgrado diversi manoscritti aggiungano nella postilla l’Italia, Roma o Atene. Una traccia potrebbe provenire dalla menzione del saluto da parte di «quelli d’Italia» (13,24). L’espressione può alludere a credenti d’Italia che vivono a Roma (o in Italia), ovvero a credenti originari dell’Italia che sono altrove. Nel primo caso la lettera sarebbe stata redatta a Roma e la notizia di Timoteo compagno di Paolo, prigioniero nella capitale dell’impero, troverebbe conferma in 2Tm 4,9.21. La convergenza di questi due indizi porterebbe a datare lo scritto prima del 70 d.C. È indicativo che proprio Clemente Romano sia il primo degli scrittori cristiani a conoscere e citare la lettera. Nel secondo caso potrebbe valere l’ipotesi che la lettera sia stata inviata alla comunità di Roma al fine di aiutare la componente giudeo-cristiana, forse nostalgica dell’eredità israelitica dopo la caduta di Gerusalemme, ad approfondire il valore teologico del sacerdozio di Cristo. In tal caso la datazione del testo non dovrebbe oltrepassare l’anno 95-96, data in cui Clemente Romano allude alla lettera scrivendo ai Corinzi e il cenno alle sofferenze subite dai credenti (10,32-34) farebbe riferimento alle persecuzioni di Nerone (nell’anno 64). Caratteristiche letterarie Il genere letterario A confronto con le lettere paoline, Ebrei presenta importanti differenze nell’esordio (1,1-4) e nel corpo epistolare (1,5-13,21), mentre la finale (13,22-25) ripete i canoni del genere epistolare (esortazione, notizie personali, saluti). La problematica del genere letterario è complessa perché il testo non sembra una lettera, ma un’omelia[8] o un trattato teologico-apologetico. Infatti, l’esordio, senza mittente né destinatari, appartiene al genere oratorio e il corpo epistolare rileva gli indizi letterari (stile dottrinale, mancanza di allusioni ai destinatari, forme espressive orali) di un “discorso” tematizzato sulla superiorità del sacerdozio di Cristo. Per tale ragione la maggioranza degli studiosi esclude che si tratti di una lettera, ma che sia un’omelia, un «discorso di esortazione» (logos parakléseos: 13,22; cf. At 13,15). La caratteristica del genere omiletico è di unire l’aspetto dottrinale (esposizione delle verità da credere) con quello parenetico (esortazione a vivere la fede confessata). Di fatto il testo di Ebrei corrisponde esattamente a tale profilo letterario: tra l’esordio (1,1-4) e la perorazione (13,20-21) si ha una costante alternanza dei due generi in modo sequenziale: alla dimostrazione dottrinale segue l’esortazione pastorale (cf. 2,1-4; 3,7-4,16; 5,11-6,20; 10,19-39; 12,1-13,18). La presenza della finale epistolare funge da biglietto di accompagnamento e conferma che l’omelia fu inviata a una o più comunità per la lettura e l’insegnamento. La struttura letteraria Tra le proposte strutturali spiccano due modelli principali: il modello tripartito: (a) la parola di Dio: 1,1-4,13; (b) il sacerdozio di Cristo: 4,14-10,31; (c) il cammino dei credenti: 10,32-13,17 e un secondo modello articolato in cinque parti. Secondo quest’ultimo modello proposto da A. Vanhoye[9], per la composizione della sua omelia l’autore ha adottato procedimenti di composizione che permettono di individuare la struttura letteraria del suo discorso. Avendo presente la complessa analisi di A. Vanhoye segnaliamo solo due procedimenti stilistici: l’annuncio del tema di ciascuna parte (cf. 1,4; 2,17-18; 5,9-10; 10,36-39; 12,13) e l’impiego di inclusioni (ripetizioni verbali), che segnano l’inizio e la fine di un’unità letteraria. Si ottiene così la seguente articolazione: Esordio:: L’intervento divino nella storia umana (1,1-4)  Parte: Cristologia generale (1,5-2,18) a) Intronizzazione del Figlio di Dio ed esortazione a riconoscerne l’autorità (1,5-2,4) b) Solidarietà con gli uomini acquisita attraverso la passione (2,5-18) II Parte: Cristologia sacerdotale, aspetti fondamentali (3,1-5,10) a) Gesù sommo sacerdote degno di fede perché Figlio di Dio (confronto con Mosè) (3,1-6) – Esortazione contro la mancanza di fede (3,7-4,14) b) Gesù, sommo sacerdote misericordioso (4,15-5,10) III Parte: Sacerdozio di Cristo, aspetti specifici (5,11-10,39) – Esortazione previa (5,11-6,20) a) Altro ordine sacerdotale (relazione con Melchisedek) (7,1-28) b) Altro atto sacerdotale (confronto con i sacrifici antichi) (8,1-9,28) c) Altra efficacia sacerdotale (10,1-18) – Esortazione conclusiva (10,19-39) IV Parte: Adesione a Cristo, mediante la fede perseverante (11,1-12,13) a) Esempi antichi di fede in Dio (11,1-40) b) Esortazione alla perseveranza (12,1-13) V Parte: Esortazione alla carità e santità (12,14-13,19)

Postscritto: Augurio conclusivo (13,20-21)                        Commiato (13,22-25) La lunghezza delle cinque parti va dapprima crescendo dalla prima alla più consistente terza parte, per poi decrescere passando dalla terza all’ultima. Tale articolazione rispetta la disposizione letteraria, retorica e tematica della lettera, favorendo un’armoniosa simmetria concentrica, che ha il suo centro al punto b) della terza parte. Caratteristiche teologiche La qualità della composizione letteraria di Ebrei si aggiunge alla profondità dottrinale e teologica del suo contenuto, la cui peculiarità è la presentazione di Cristo «sommo sacerdote della nuova alleanza». Fin dai primi secoli la peculiarità teologica di Ebrei è stata interpretata come una nuova sintesi della dottrina e della vita cristiana imperniata sulla mediazione sacerdotale di Cristo. Ci limitiamo a riassumere il suo messaggio segnalando tre prospettive: a) la relazione tra antica e nuova alleanza; b) la cristologia sacerdotale; c) la vita cristiana. La relazione tra antica e nuova alleanza La densità teologica si manifesta anzitutto nella qualità dell’approccio ermeneutico e nell’uso delle tecniche esegetiche per l’impiego delle Scritture. Nell’evidenziare la peculiarità della posizione (mediazione) di Cristo nella storia salvifica, l’autore mostra come l’alleanza e i riti che accompagnano il divenire dell’identità del popolo eletto trovano compimento nella nuova alleanza inaugurata con la Pasqua del Signore. Il procedimento dimostrativo che riguarda la relazione tra la prima e la nuova alleanza segue lo schema continuità-rottura-superamento. Si afferma la validità della connotazione profetica della prima alleanza, ma mediante l’opera di Cristo si riconosce anche la fine della sua istituzione. Ciò appare soprattutto nell’esposizione centrale della lettera (7,10-10,18) in cui si reinterpretano i Sal 110 e 40, l’oracolo di Ger 31 e i riti prescritti dalla Legge in Lv 16. Nel disegno divino l’antica alleanza ha svolto un ruolo importante ma preparatorio, in vista del compimento della nuova alleanza in Cristo. Allo stesso modo l’antico culto e la sua istituzione sacerdotale appaiono realtà inefficaci a confronto con il nuovo sacrificio di Gesù Cristo (9,11-26), unico mediatore dell’alleanza nuova (12,24). La cristologia sacerdotale Mediante il confronto con l’antico culto e sacerdozio levitico (Aronne), si elabora una singolare cristologia sacerdotale. Con i titoli di «sacerdote» e di «sommo sacerdote» applicati a Cristo, l’autore afferma l’identità e la funzione mediatrice del Figlio di Dio. Con l’aiuto della tradizione scritturistica s’introduce un cambiamento radicale delle nozioni di sacrificio e di sacerdozio. Partendo dalle funzioni sacerdotali e dai riti antichi, la lettera mostra come Cristo merita il titolo di sacerdote perché egli fu intimamente unito a Dio e agli uomini. Come Figlio egli è stato intronizzato alla destra del Padre (1,4-14); come uomo, egli ha raggiunto la gloria percorrendo un cammino di piena solidarietà con i peccatori (2,11-16). Pertanto Cristo è divenuto il «mediatore perfetto» e deve essere riconosciuto come il «sommo sacerdote» (2,7; 3,1; 4,14) capace di conferire la salvezza a quanti per mezzo suo si accostano a Dio (7,24-25; 9,11). L’attestazione di questa verità di fede è avvalorata dall’interpretazione del Sal 110, che presenta il Messia nella linea di Melchisedek (Gen 14,18-20), figura prefigurativa dell’eterno sacerdozio di Cristo. Tale mediazione si è compiuta in Cristo che si è offerto «una volta per sempre» come vittima sacrificale nella sua passione, morte e risurrezione, entrando con il proprio sangue nel santuario celeste (tenda non fatta da mani d’uomo) e procurando una redenzione eterna (9,11-14; 10,8-10). La vita cristiana Il dono della salvezza connotato in chiave sacerdotale ha conseguenze radicali per la vita dei credenti. L’attesa segnata da riti di separazione e di purificazione del periodo pre-messianico è terminata grazie al sacrificio sacerdotale del Cristo, la cui obbedienza filiale schiude a tutti l’ingresso nel santuario, simbolo della riconciliazione con Dio (10,19-21). Avendo come fondamento la fede (11,1) ogni credente è invitato ad accostarsi al mistero di Dio e ad assumere la propria responsabilità nella storia, illuminata dalla splendida testimonianza dei padri (11,2-40). L’accentuazione escatologica che accompagna la descrizione simbolica del processo redentivo (santuario celeste, tenda, beni futuri, ecc.) non elude il realismo del quotidiano. Emerge forte nella lettera la concretezza della vita cristiana, insieme alla preoccupazione per una comunità matura e solidale. Una vita credibile si declina mediante la comunione fraterna (10,25; 13,1), la corresponsabilità nella testimonianza (13,17) e soprattutto nella sollecitudine verso le persone bisognose (13,1-3). La logica del dono di sé che ha contrassegnato la cristologia sacerdotale e cultuale, illumina la sottostante visione etica della lettera e la sua proiezione pastorale.

GESÙ CHIAVE CHE APRE: L’ANTIFONA O CLAVIS DAVID. BREVE NOTA DI ANDREA LONARDO SU DI UN TESTO DI G.K. CHESTERTON

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GESÙ CHIAVE CHE APRE: L’ANTIFONA O CLAVIS DAVID. BREVE NOTA DI ANDREA LONARDO SU DI UN TESTO DI G.K. CHESTERTON

Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /12 /2011 -

Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2011)

«La chiave corrisponde alla serratura; perché è come la vita». Così scrive G.K. Chesterton e le sue straordinarie parole possono essere prese come il commento più adeguato all’antifona natalizia O chiave di Davide che si canta nella novena di Natale il 20 dicembre, utilizzando la simbologia della chiave per parlare della fede cristiana e del suo Signore. Chesterton scrive, in L’uomo eterno: «Nella chiave [...] c’era soltanto una cosa che era semplice. Apriva la porta. [...] Io non tento alcuna apologia sul motivo per cui il credo [cristiano] debba essere accettato. Ma in risposta al problema storico del perché fu accettato, ed è accettato, io do per altri milioni di persone questa risposta: perché corrisponde alla serratura; perché è come la vita. [...] Esso non c’imprigiona in un sogno fatalistico o nella coscienza di una universale illusione. Esso apre a noi non soltanto incredibili cieli, ma una terra (può sembrare) egualmente incredibile, e la fa credibile. Questa è la verità che è duro spiegare perché è un fatto, ma è un fatto di cui noi siamo testimoni. Siamo cristiani e cattolici non perché adoriamo una chiave, ma perché abbiamo varcato una porta; e abbiamo sentito lo squillo di tromba della libertà passare sopra la terra dei viventi».

Questa l’antifona liturgica del 20 dicembre:

O Chiave di Davide, e scettro della casa di Israele, che apri e nessuno chiude, chiudi e nessuno apre: vieni e fa uscire dal carcere il condannato, che siede nelle tenebre, e nell’ombra della morte.

O Clavis David, et sceptrum domus Israel; qui aperis, et nemo claudit; claudis, et nemo aperit: veni, et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris, et umbra mortis.

Questo più ampiamente il brano di Chesterton che mi è stato inviato in dono come regalo prezioso: «[L’immagine delle chiavi consegnate dal Cristo a San Pietro] ha un’esattezza che non è stata forse esattamente notata. Le chiavi hanno avuto una parte cospicua nell’arte e nell’araldica del Cristianesimo: ma non tutti hanno  notato la peculiare precisione dell’allegoria. Arrivati a questo punto della nostra storia, bisognerà dire qualche cosa del primo apparire e della attività della Chiesa nell’Impero romano: e per un breve accenno in proposito nulla potrebbe meglio servire di quell’antica metafora. Il cristiano primitivo era né più né meno che una persona con una chiave, o che diceva di avere una chiave. Tutto il movimento cristiano consistette nel proclamare di possedere tale chiave. Non era solamente un vago movimento in avanti, che avrebbe potuto esser meglio rappresentato dal battere un tamburo. Non era qualche cosa che spazzava via tutto davanti a sé, come un moderno movimento sociale. Come vedremo fra poco, si rifiutava piuttosto di far questo. Esso asseriva in modo assoluto che c’era una chiave e che possedeva tale chiave e che nessun’altra chiave era eguale a quella; era in un certo senso, diciamo pure, ristretto. Soltanto avveniva che quella era la chiave che poteva aprire la prigione del mondo intero, e far vedere la bianca aurora della salvezza. Il credo era come una chiave per tre aspetti che potrebbero convenientemente riunirsi sotto questo simbolo. Primo, una chiave è anzitutto una cosa che ha una forma; ed è una cosa che dipende interamente dal conservare la sua forma. Il credo cristiano è soprattutto la filosofia della forma ed è nemico delle cose informi. Ecco dove differisce da tutte le altre infinite filosofie – manicheismo, Buddismo – che formano una specie di lago notturno nell’oscuro cuore dell’Asia [...] Secondo, la forma della chiave è per se stessa una forma piuttosto fantastica. [...] Una chiave non è materia di astrazioni: nel senso che una chiave non è materia di ragionamento. Essa o è adatta alla serratura, oppure non è. È inutile per gli uomini disputarvi attorno, considerata la cosa in se stessa; o ricostruirla sui puri principi della geometria o dell’arte decorativa. È una sciocchezza per un uomo dire che preferirebbe una chiave più semplice; sarebbe assai più sensato se facesse del suo meglio con un grimaldello. In terzo luogo, poiché la chiave è necessariamente una cosa fatta secondo un disegno, questa aveva un disegno piuttosto elaborato. Quando la gente si lamenta che la religione si è troppo presto immischiata di teologia e roba simile, dimentica che il mondo [...] era penetrato addirittura in un labirinto di vie senza uscita. [...] Basti dire qui che nella chiave c’erano senza dubbio molte cose che parevano complicate: c’era soltanto una cosa che era semplice. Apriva la porta. [...] Io non tento alcuna apologia sul motivo per cui il credo debba essere accettato. Ma in risposta al problema storico del perché fu accettato, ed è accettato, io do per altri milioni di persone questa risposta: perché corrisponde alla serratura; perché è come la vita. È una delle tante storie; con questo di più, che è una storia vera. È una fra le tante filosofie; con questo di più, che è la verità. Noi l’accettiamo; e il terreno è solido sotto i nostri piedi, e la strada è aperta davanti a noi. Esso non c’imprigiona in un sogno fatalistico o nella coscienza di una universale illusione. Esso apre a noi non soltanto incredibili cieli, ma una terra (può sembrare) egualmente incredibile, e la fa credibile. Questa è la verità che è duro spiegare perché è un fatto, ma è un fatto di cui noi siamo testimoni. Siamo cristiani e cattolici non perché adoriamo una chiave, ma perché abbiamo varcato una porta; e abbiamo sentito lo squillo di tromba della libertà passare sopra la terra dei viventi» (G.K. Chesterton, L’uomo eterno, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 265-266; 307).

Saint Francis of Assisi Church on West 31st Street, New York, NY mosaic

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IL DONO DELLA SAPIENZA / 1 (anche Paolo)

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Celebrazioni/04-05/04-Doni_Spirito_Santo_Sapienza.html

IL DONO DELLA SAPIENZA / 1 (anche Paolo)

Il dono della sapienza consiste in una illuminazione dello Spirito Santo in forza della quale noi possiamo contemplare Dio e le verità della nostra fede provandone gioia e gusto. Più c’è luce, quindi, e più si ama. Invece, il dono dell’intelletto (come vedremo in seguito), ci permette di penetrare, come d’intuito, nelle verità rivelate. Tra i due doni non ci sono confini ben marcati, essi si completano. Così il dono della sapienza viene in soccorso al nostro intelletto con una luce straordinaria per farci scoprire Dio, le sue perfezioni, Gesù Cristo e il suo grande mistero, per darcene una conoscenza piena di buon sapore e di calore. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Una vista penetrante, dunque, un occhio limpido, una lente di ingrandimento che ci rende capaci, ma sempre nella pura fede, di una contemplazione amorosa e bella, continua e appassionata di Dio. L’anima rimane come incantata o assopita durante la sua preghiera. Lo Spirito svela al suo cuore cose che uno “capisce”, cioè racchiude entro di sé, ma che non si possono assolutamente descrivere. Il campo del dono della sapienza non sono le visioni né le estasi, ma la certezza di stare familiarmente a tu per tu con il Signore. Una antifona della festa di Santa Cecilia dice così: “La vergine Cecilia portava nel cuore l’Evangelo di Cristo, e giorno e notte parlava con Dio”. Il dono della Sapienza ha adombrato la Vergine di Nazaret, quando ricevette l’annuncio dell’Angelo Gabriele. Per opera dello Spirito Santo, Maria concepì prima nel cuore e poi nel grembo immacolato il Figlio di Dio. Per questa altissima conoscenza di Dio e del suo progetto la Vergine, conquistata dall’Amore, non esitò a dire: “Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Scendendo, poi, dalle alte sfere, diciamo che il dono della sapienza illumina la nostra strada e guida i nostri passi nella vita quotidiana, nella ordinaria amministrazione delle nostre faccende domestiche e di comunità. Ci aiuta a discernere e a giudicare l’amore: quando è dono e quando invece è puro egoismo o semplice erotismo. Ci dice se la nostra gioia è superficiale, ingannevole, oppure vera contentezza dei figli di Dio.

Preghiamo con il libro della Sapienza (7,22-26) Nella Sapienza c’è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia, terso, inoffensivo, amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, senz’affanni. Onnipotente, onniveggente e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri, sottilissimi. È un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente, per questo nulla di contaminato in essa s’infiltra. È un riflesso della Luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà.

La sapienza è un dono che oltre a farci conoscere Dio ci procura un gusto spirituale, una dolcezza che non si può esprimere; ci procura una visione piena di sapore, di gioia e di consolazione. Sempre e solo nella fede viva. Raggio di luce, ma anche raggio di calore. La sapienza ha il potere di infiammare mente e cuore: un gusto sperimentale di Dio e delle cose di Dio. “Gustate e vedete quanto è buono il Signore” (Sal 34,9). L’anima è rapita e assapora l’incontro. Si tuffa in lui, perché la conoscenza luminosa di Dio si trasforma in desiderio di possederlo, e il desiderio vivissimo diventa già possesso pieno di gusto. Per questo dice: “Gustate” e poi “vedete”, anche se prima c’è il vedere e poi il gustare, ma sia l’una che l’altra azione vengono riferite alla bontà del Signore. E allora il Salmo 34 prosegue: “Beato l’uomo che in lui si rifugia”.

Preghiamo con San Paolo (cf 1 Cor 1,23-30) Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato perché nessun possa gloriarsi davanti a Dio. Cristo Gesù è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione.

Gustare Dio ci conduce al senso del riposo, del silenzio, della pace e favorisce enormemente la lode, il ringraziamento, il canto di gioia, l’amicizia, e, naturalmente, anche l’azione apostolica. Il gusto di Dio ci cambia dal di dentro. Incontrare Gesù in modo forte produce sempre un cambiamento radicale di vita: i santi ne sono la riprova. E il bello è questo: lo Spirito Santo in persona ha l’iniziativa sia della contemplazione come della santificazione e dell’azione.

Questo incontro con il Signore Gesù Cristo lo possiamo avere quando ci fermiamo in adorazione davanti al Tabernacolo o a Gesù esposto. Sono momenti di grande intensità di fede, di intimità, riflessione e propositi. Non c’è bisogno di molte parole: il silenzio è l’ideale. “Io guardo lui e lui guarda me”.

Gli effetti del dono della sapienza Eccone alcuni. Una sensibilità, che possiamo dire divina, nel giudicare avvenimenti, uomini e cose. Per istinto vediamo tutto secondo il cuore di Dio che è buono, pieno di misericordia e giusto. Nulla ci deve turbare. La carità viene portata fino all’eroismo: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, non giudicate, non condannate. Quando uno ama molto è capace di fare mille pazzie. Un esempio è la croce sulla quale Gesù si è lasciato inchiodare per noi. Il Crocifisso ci attira fortemente. Condividiamo con amore i patimenti di Gesù, sostenuti liberamente per i nostri peccati, e gettiamo nel suo cuore turbamenti, dolori e lacrime in abbondanza. Sintesi tra vita attiva e contemplativa, il dono della sapienza pone decisamente l’anima nello stato di unione con Dio anche in mezzo alle faccende quotidiane, le più disparate.

                                                                                Don Timoteo Munari SdB

PAPA FRANCESCO (PORTATA SALVIFICA DELLA RESURREZIONE)

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2013/documents/papa-francesco_20130410_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO (PORTATA SALVIFICA DELLA RESURREZIONE)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 10 aprile 2013

Cari fratelli e sorelle, buon giorno!

Nella scorsa Catechesi ci siamo soffermati sull’evento della Risurrezione di Gesù, in cui le donne hanno avuto un ruolo particolare. Oggi vorrei riflettere sulla sua portata salvifica. Che cosa significa per la nostra vita la Risurrezione? E perché senza di essa è vana la nostra fede? La nostra fede si fonda sulla Morte e Risurrezione di Cristo, proprio come una casa poggia sulle fondamenta: se cedono queste, crolla tutta la casa. Sulla croce, Gesù ha offerto se stesso prendendo su di sé i nostri peccati e scendendo nell’abisso della morte, e nella Risurrezione li vince, li toglie e ci apre la strada per rinascere a una vita nuova. San Pietro lo esprime sinteticamente all’inizio della sua Prima Lettera, come abbiamo ascoltato: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1,3-4). L’Apostolo ci dice che con la Risurrezione di Gesù qualcosa di assolutamente nuovo avviene: siamo liberati dalla schiavitù del peccato e diventiamo figli di Dio, siamo generati cioè ad una vita nuova. Quando si realizza questo per noi? Nel Sacramento del Battesimo. In antico, esso si riceveva normalmente per immersione. Colui che doveva essere battezzato scendeva nella grande vasca del Battistero, lasciando i suoi vestiti, e il Vescovo o il Presbitero gli versava per tre volte l’acqua sul capo, battezzandolo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Poi il battezzato usciva dalla vasca e indossava la nuova veste, quella bianca: era nato cioè ad una vita nuova, immergendosi nella Morte e Risurrezione di Cristo. Era diventato figlio di Dio. San Paolo nella Lettera ai Romani scrive: voi «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15). È proprio lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo che ci insegna, ci spinge, a dire a Dio: “Padre”, o meglio, “Abbà!” che significa “papà”. Così è il nostro Dio: è un papà per noi. Lo Spirito Santo realizza in noi questa nuova condizione di figli di Dio. E questo è il più grande dono che riceviamo dal Mistero pasquale di Gesù. E Dio ci tratta da figli, ci comprende, ci perdona, ci abbraccia, ci ama anche quando sbagliamo. Già nell’Antico Testamento, il profeta Isaia affermava che se anche una madre si dimenticasse del figlio, Dio non si dimentica mai di noi, in nessun momento (cfr 49,15). E questo è bello! Tuttavia, questa relazione filiale con Dio non è come un tesoro che conserviamo in un angolo della nostra vita, ma deve crescere, dev’essere alimentata ogni giorno con l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la partecipazione ai Sacramenti, specialmente della Penitenza e dell’Eucaristia, e la carità. Noi possiamo vivere da figli! E questa è la nostra dignità – noi abbiamo la dignità di figli -. Comportarci come veri figli! Questo vuol dire che ogni giorno dobbiamo lasciare che Cristo ci trasformi e ci renda come Lui; vuol dire cercare di vivere da cristiani, cercare di seguirlo, anche se vediamo i nostri limiti e le nostre debolezze. La tentazione di lasciare Dio da parte per mettere al centro noi stessi è sempre alle porte e l’esperienza del peccato ferisce la nostra vita cristiana, il nostro essere figli di Dio. Per questo dobbiamo avere il coraggio della fede e non lasciarci condurre dalla mentalità che ci dice: “Dio non serve, non è importante per te”, e così via. E’ proprio il contrario: solo comportandoci da figli di Dio, senza scoraggiarci per le nostre cadute, per i nostri peccati, sentendoci amati da Lui, la nostra vita sarà nuova, animata dalla serenità e dalla gioia. Dio è la nostra forza! Dio è la nostra speranza! Cari fratelli e sorelle, dobbiamo avere noi per primi ben ferma questa speranza e dobbiamo esserne un segno visibile, chiaro, luminoso per tutti. Il Signore Risorto è la speranza che non viene mai meno, che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza non delude. Quella del Signore! Quante volte nella nostra vita le speranze svaniscono, quante volte le attese che portiamo nel cuore non si realizzano! La speranza di noi cristiani è forte, sicura, solida in questa terra, dove Dio ci ha chiamati a camminare, ed è aperta all’eternità, perché fondata su Dio, che è sempre fedele. Non dobbiamo dimenticare: Dio sempre è fedele; Dio sempre è fedele con noi. Essere risorti con Cristo mediante il Battesimo, con il dono della fede, per un’eredità che non si corrompe, ci porti a cercare maggiormente le cose di Dio, a pensare di più a Lui, a pregarlo di più. Essere cristiani non si riduce a seguire dei comandi, ma vuol dire essere in Cristo, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui; è lasciare che Lui prenda possesso della nostra vita e la cambi, la trasformi, la liberi dalle tenebre del male e del peccato. Cari fratelli e sorelle, a chi ci chiede ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15), indichiamo il Cristo Risorto. Indichiamolo con l’annuncio della Parola, ma soprattutto con la nostra vita di risorti. Mostriamo la gioia di essere figli di Dio, la libertà che ci dona il vivere in Cristo, che è la vera libertà, quella che ci salva dalla schiavitù del male, del peccato, della morte! Guardiamo alla Patria celeste, avremo una nuova luce e forza anche nel nostro impegno e nelle nostre fatiche quotidiane. E’ un servizio prezioso che dobbiamo dare a questo nostro mondo, che spesso non riesce più a sollevare lo sguardo verso l’alto, non riesce più a sollevare lo sguardo verso Dio.

 

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