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PREGHIERA PER LA PACE – CARLO MARIA MARTINI

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PREGHIERA PER LA PACE – CARLO MARIA MARTINI

O Dio nostro Padre, ricco di amore e di misericordia, noi vogliamo pregarti con fede per la pace, addolorati e umiliati come siamo a causa degli episodi di violenza che hanno insanguinato e insanguinano Gerusalemme, città il cui nome evoca subito il mistero di morte e di risurrezione del tuo Figlio, di Gesù che ha donato la sua vita per riconciliare ogni uomo e ogni donna di questo mondo con te, con se stessi, con tutti i fratelli. Città santa, città dell’incontro eppure città da sempre contesa, da sempre crocifissa e sulla quale il tuo Figlio, i profeti e i santi hanno invocato la pace. Noi vogliamo pregarti con fede per la pace in tanti altri paesi del mondo, per i numerosi focolai di lotte e di odio; vogliamo pregarti per gli aggressori e per gli aggrediti, per gli uccisi e gli uccisori, per tutti i bambini che non hanno potuto conoscere il sorriso e la gioia della pace. E’ vero, Signore, che noi stessi siamo responsabili del venire meno della pace, e per questo ti supplichiamo di accogliere il nostro accorato pentimento, di donarci una volontà umile, forte, sincera per ricostruire nella nostra vita personale e comunitaria rapporti di verità, di giustizia, di libertà, di carità, di solidarietà. Ti confessiamo i nostri peccati personali e sociali: il nostro attaccamento al benessere, i nostri egoismi, le infedeltà e i tradimenti a livello familiare, la pigrizia e lo sciupio delle energie vitali per cose vane e frivole, dannose, il nostro voltare la faccia di fronte alle miserie di chi ci sta vicino o di chi viene da lontano. Vivendo così, non abbiamo forse pensato di renderci responsabili della distruzione di quell’edificio invisibile che è la pace. La pace terrestre è riflesso della tua pace che tu ci doni e ci affidi, nasce dal tuo amore per l’uomo e dal nostro amore per te e per tutti i fratelli. Cambia il nostro cuore, Signore, perché siamo noi i primi ad avere bisogno di un cuore pacifico. Purificaci, per il mistero pasquale del tuo Figlio, da ogni fermento di ostilità, di partigianeria, di partito preso; purificaci da ogni antipatia, da ogni pregiudizio, da ogni desiderio di primeggiare. Facci comprendere, o Padre, il senso profondo di una preghiera vera di pace, di una preghiera di intercessione e di espiazione simile a quella di Gesù su Gerusalemme. Preghiera di intercessione che ci renda capaci di non prendere posizione nei conflitti, ma di entrare nel cuore delle situazioni insanabili diventando solidali con entrambe le parti in contesa, pregando per l’una e per l’altra. Noi vogliamo abbracciare con amore tutte le parti in causa, fiduciosi soltanto nella tua divina potenza. Se noi preghiamo perché tu dia vittoria all’uno o all’altro, questa preghiera tu non l’ascolti; se ci mettiamo a giudicare l’uno o l’altro, la nostra supplica tu non l’ascolti. Manda il tuo santo Spirito su di noi per convertirci a te! Non ci illudiamo di superare le nostre inquietudini interiori, i rancori che ci portiamo dentro verso un popolo o verso un altro se non lasciamo spazio allo Spirito di gioia e di pace che vuole pregare in noi con gemiti inenarrabili. E’ lo Spirito che ci fa accogliere quella pace che sorpassa ogni nostra veduta e diventa decisione ferma e seria di amare tutti i nostri fratelli, in modo che la fiamma della pace risieda nei nostri cuori e nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e si irradi misteriosamente sul mondo intero sospingendo tutti verso una piena comunione di pace. E’ lo Spirito che ci aiuta a penetrare nella contemplazione del tuo Figlio crocifisso e morto sulla croce per fare di tutti un popolo solo. E tu, Maria, Regina della pace, intercedi affinché il sorriso della pace risplenda su tanti bambini sparsi nelle varie parti del mondo, segnate dalla violenza e dalla guerriglia; veglia sulla tua terra, su Gerusalemme, suscita nei suoi abitanti desideri profondi e costruttivi di pace, desideri di giustizia e di verità. Noi ti promettiamo di non temere le difficoltà e i momenti oscuri e difficili, purché tutta l’umanità cammini nella pace e nella giustizia, così che si avveri pienamente la parola del profeta Isaia: « Ho visto le vostre vie e voglio sanarle [...] Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io guarirò tutti ».

SALMI 113-118: L’HALLEL EGIZIANO

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SALMI 113-118: L’HALLEL EGIZIANO

Rita Torti Mazzi

I Sal 113-118 costituiscono l’Hallel, che già nel Talmud babilonese è detto «egiziano», in quanto, come commenta Rashi a bBerakot 56a[1], è detto a Pasqua per celebrare l’uscita dall’Egitto. Secondo i maestri furono scelti questi salmi, perché contengono cinque temi fondamentali della fede giudaica: l’esodo (Sal 114,1), la divisione del Mar Rosso (Sal 114,3), il dono della Torah al Sinai (Sal 114,4; cf. Gdc 5,4-5), la risurrezione dei morti (Sal 116,9) e la sofferenza che precede la venuta del Messia (Sal 115,1) (bPesachim 118a). Tutto converge verso la Pasqua ultima, verso la redenzione messianica. L’Hallel è nato per la Pasqua e la sua origine sarebbe molto antica: «Al tempo in cui Israele uscì dall’Egitto, uscì dalla sua schiavitù di fango e mattoni, fu allora che dissero l’Hallel» (Midrash Salmi 113,2). Se Rabbi Eleazaro l’attribuiva a Mosè e al popolo d’Israele «quando erano risaliti dal mare», altri invece l’attribuivano a Davide, ma si preferiva la prima opinione, perché non sembrava possibile «che il popolo d’Israele avesse offerto l’agnello pasquale o preso i rami di palma [il lulav, composto da palma, mirto, salice e cedro, che si agita a Sukkot], senza avere mai detto canto [di lode]» (bPesachim 117a).

L’Hallel nella liturgia di Israele Si sa dalla Mishnah che l’Hallel era cantato nel tempio durante gli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkah IV 5), il 14 Nisan, nel momento in cui nel tempio si offriva il sacrificio pasquale (Pesachim V 7), e nelle case durante il Seder pasquale (Pesachim X 6). Dopo la distruzione del tempio divenne parte integrante della liturgia sinagogale. Il Talmud stabilisce che si reciti completo, dopo la camidah (preghiera delle Diciotto benedizioni) del mattino, negli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkot), negli otto giorni della «festa delle luci» (o della «Dedicazione», Chanukkah), nel primo giorno di Pasqua (Pesach) e della festa delle Settimane (Shavucot) [nella diaspora nei primi due giorni] e nel Seder pasquale (bArachin 10b). Si recita invece abbreviato (omettendo i Sal 115,1-11 e 116,1-11) negli ultimi sei giorni di Pesach (secondo il Midrash Dio rimproverò gli angeli che si apprestavano a intonare canti di giubilo mentre gli egiziani perivano nel mare, dicendo: «Le opere delle mie mani periscono nel mare e voi osate cantare canti di giubilo?») e anche all’inizio di ogni mese (Rosh Chodesh), secondo un uso sviluppatosi prima in Babilonia e poi in Israele (bTaanit 28b). Nel Seder pasquale si recita l’Hallel diviso. Prima di bere la seconda coppa, chi presiede ricorda che in ogni generazione ognuno ha l’obbligo di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto (cf. Es 13,8) e per questo deve «ringraziare, lodare, glorificare, esaltare colui che ha fatto ai nostri padri e a noi tutti questi miracoli […]. Diciamo dunque davanti a lui: Alleluia!» (Pesachim X 5). Seguono i Sal 113-114 e poi la benedizione della «redenzione», di cui la seconda parte, attribuita a Rabbi Aqiba (verso il 135 d.C.), ha un evidente carattere messianico (Pesachim X 6). La seconda parte dell’Hallel (Sal 115-118) si recita invece dopo il pasto sulla quarta coppa e si conclude con la «benedizione del canto» (bPesachim 118a). Non si sarebbe potuto recitare l’Hallel al di fuori della festa: chi lo dice ogni giorno lo svilisce e lo profana (bShabbat 118b). La gioia che vi si esprime è incontenibile: deve essere cantato «con bellezza» (Cantico Rabba II 31) e cioè con forza, con entusiasmo. Si dice: «La Pasqua “nella casa” e l’Hallel fora il tetto» (Cantico Rabba, II 31)[2]. Uno dei modi più comuni e antichi di recitarlo comporta la ripetizione di «alleluia» da parte dell’assemblea a ogni mezzo versetto dei salmi: complessivamente 123 volte[3]. Unità e molteplicità L’Hallel è sempre stato sentito nella tradizione ebraica come un unico poema, con cui Israele loda il Signore per le meraviglie da lui compiute e lo ringrazia. È composto secondo un ordine; se non si leggesse secondo quest’ordine non si adempirebbe il precetto (bMeghillah 17a). Riassume tutta la storia della salvezza: «Quando Israele uscì dall’Egitto» [Sal 114,1] si riferisce al passato. «Non per noi, Signore, non per noi» [Sal 115,1] alle presenti generazioni; «Amo, perché il Signore ascolta la mia voce» [116,1] ai giorni del Messia; «Legate la festa con funi» [118,27] ai giorni di Gog e Magog; «Mio Dio sei tu e ti rendo grazie» [118,28] al secolo futuro (jBerakot II 4; jMegillah II 1. et al.). Ma, pur facendo parte di un insieme, i singoli salmi che costituiscono l’Hallel (Sal 113-118), restano evidentemente dei testi a sé stanti, ciascuno collocato nel proprio tempo e ciascuno con il proprio genere letterario.

Salmo 113: invito alla lode universale Apre l’Hallel il Sal 113, che nel v. 1 invita «‘i servi del Signore» (possono esserlo, perché sono stati liberati dalla «schiavitù» d’Egitto) a una lode universale, che abbraccia il tempo («ora e sempre», v. 2) e lo spazio («dal sorgere del sole al suo tramonto», v. 3, e quindi dall’est all’ovest, su tutta la terra). 1 Alleluia    Lodate, servi del Signore,    lodate il nome del Signore. 2 Sia benedetto il nome del Signore    ora e sempre. 3 Dal sorgere del sole al suo tramonto,    sia lodato il nome del Signore. 4 Su tutti i popoli eccelso è il Signore    più alta dei cieli è la sua gloria. 5 Chi è pari al Signore nostro Dio    che siede nell’alto 6 e si china a guardare    nei cieli e sulla terra? 7 Solleva l’indigente dalla polvere,    dall’immondizia rialza il povero 8 per farlo sedere tra i principi    tra i principi del suo popolo 9 fa abitare la sterile nella sua casa    quale madre gioiosa di figli.

In ebraico il salmo inizia e termina con l’alleluia, che abbraccia a un tempo la lode e il nome divino (Hallelu-Yah = «Lodate YHWH»), unificando la composizione in una grande inclusione. E l’alleluia risuona ancora due volte nel v. 1, nell’imperativo hallelu («lodate»). Nei vv. 2-3, disposti chiasticamente, si riprende l’invito, esortando a «benedire», a «lodare» il nome del Signore (cf. Zc 14,9). La motivazione della lode è la «grandezza» del Signore, su cui si insiste nella seconda strofa, affermandone con forza l’incomparabilità (v. 5): è «eccelso» sopra tutti i popoli; la sua gloria (kabod) arriva fin sopra i cieli (v. 4: cf. Is 6,3; Sal 29), ma mentre «sta in alto (siede per giudicare)» allo stesso tempo «si abbassa per guardare» (vv. 5-6; cf. Is 57,15). Cerca gli ultimi della terra e ne capovolge la situazione: i vv. 7-9 mostrano che il Signore è grande perché esalta gli umili, i poveri (cf. Is 66,2). La maestà di Dio si manifesta nella sua misericordia. «Chi è pari al Signore nostro Dio?», chiede il salmista con una domanda retorica nel Sal 113,5. Che nessuno sia pari al Dio d’Israele lo dicono chiaramente i due salmi che seguono immediatamente, i Sal 114 e 115, considerati nella LXX un’unità (113A e 113B): il primo mostra il cosmo intero sconvolto dalla presenza del Signore accanto al suo popolo, il secondo ne proclama la superiorità assoluta sugli idoli dei pagani. Salmo 114

1 Alleluia    Quando Israele uscì dall’Egitto,    la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, 2 Giuda divenne il suo santuario,    Israele il suo dominio. 3 Il mare vide e si ritrasse,    il Giordano si volse indietro; 4 i monti saltellarono come arieti,    le colline come agnelli di un gregge. 5 Che hai tu, mare, per fuggire    E tu, Giordano, perché torni indietro? 6 Perché voi, monti, saltellate come arieti?    E voi, colline, come agnelli di un gregge? 7 Trema, o terra, davanti al Signore,    davanti al Dio di Giacobbe, 8 che muta la rupe in un lago,    la roccia in sorgenti d’acqua.

Nei primi quattro versi si riassume il cammino che porta il popolo di Dio dall’Egitto alla terra promessa: il mare e il Giordano si fanno da parte per lasciarlo passare; montagne e colline tremano, quando Dio si manifesta sul Sinai per dare la Torah a Israele. Il locutore sa cosa sta succedendo, ma finge di non sapere per suscitare una certa attesa, mettendo così in evidenza l’eccezionalità dell’avvenimento: perché il mare, il fiume, le montagne sono sconvolti da questo popolo in marcia? Il salmista non cerca una risposta alla sua domanda, né si preoccupa di darla, ma nel v. 7 invita la terra a tremare davanti al Dio di Giacobbe. Allora tutto diventa chiaro: lo sconvolgimento cosmico è provocato dalla presenza di Dio accanto al suo popolo[4]. Il Signore è il Dio creatore, che fa sgorgare l’acqua dalla roccia (v. 8). La sua potenza creatrice trasforma tutto: la roccia diventa stagno e il granito sorgente (v. 8: cf. Es 17,6): anche in altri passi l’episodio di Meriba è descritto come un prodigio di Dio (Is 48,21; Sal 107,35) come una figura dell’esodo futuro, una nuova creazione (Is 35,6s; 41,18; 43,20). Anche a Israele Dio dà una nuova identità, ne fa il suo popolo e lo conduce nella terra promessa ai Padri: il v. 1 sottolinea sia la sua separazione dall’Egitto, sia la relazione di appartenenza a Dio (cf. v. 7). Salmo 115

1 Non a noi, Signore, non a noi,    ma al tuo nome da’ gloria,    per la tua fedeltà, per la tua grazia. 2 Perché i popoli dovrebbero dire:    «Dov’è il loro Dio?» 3 Il nostro Dio è nei cieli,    egli opera tutto ciò che vuole. 4 Gli idoli delle genti sono argento e oro    opera delle mani dell’uomo. 5 Hanno bocca e non parlano,    hanno occhi e non vedono, 6 hanno orecchi e non odono,    hanno narici e non odorano. 7 Hanno mani e non palpano,    hanno piedi e non camminano;    dalla gola non emettono suoni. 8 Sia come loro chi li fabbrica    e chiunque in essi confida. 9 Israele confida nel Signore:    egli è loro aiuto e loro scudo. 10 Confida nel Signore la casa di Aronne:    egli è loro aiuto e loro scudo. 11 Confida nel Signore chiunque lo teme:    egli è loro aiuto e loro scudo. 12 Il Signore si ricorda di noi, ci benedice:    benedice la casa d’Israele,    benedice la casa di Aronne. 13 Il Signore benedice quelli che lo temono,    benedice i piccoli e i grandi. 14 Vi renda fecondi il Signore,    voi e i vostri figli. 15 Siate benedetti dal Signore    che ha fatto cieli e terra. 16 I cieli sono i cieli del Signore    ma ha dato la terra l’ha data ai figli dell’uomo. 17 Non i morti lodano il Signore    né quanti scendono nella tomba. 18 ma noi, i viventi, benediciamo il Signore    ora e per sempre

L’inizio è insolito: un grido improvviso rivolto al destinatario della lode, il cui nome (YHWH) è invocato fin dal v. 1 e ripetuto poi in ogni verso nei vv. 9-18. Si vuole scuotere il Signore, sottolineando che sono in gioco il suo onore, la sua fama. Dio non può venire meno, senza perdere di credibilità, alle qualità essenziali su cui si fonda l’alleanza: l’amore, la magnanimità, la fedeltà, la lealtà, la verità. Nel duplice «Non a noi!» risuona il desiderio di uscire dalla vergogna: se Dio glorifica il suo nome, anche i suoi fedeli verranno glorificati[5]. Se gli altri popoli dubitano delle capacità del Dio d’Israele ed esprimono il loro scherno con la domanda: «Dov’è il loro Dio?» (v. 2), l’orante col suo «perché?» esorta il suo Dio a intervenire e, replicando in base al significato letterale dell’interrogativa degli avversari, li mette a tacere con una stupenda risposta: «Il nostro Dio è nei cieli e opera tutto ciò che vuole!» (v. 3). Reagendo all’insulto, si glorifica Dio, riuscendo a ribaltare la situazione: non il Signore, ma gli idoli dei pagani sono un nulla; nei vv. 4-8 se ne sottolinea l’impotenza con sette negazioni enfatiche. Gli idoli sono opera delle mani dell’uomo: chi confida in essi resta confuso. Possono invece confidare nel Signore, Israele, la casa di Aronne, coloro che lo temono: per tre volte si ripete che egli è veramente «loro aiuto» e «loro scudo» (vv. 9-11). Se gli idoli sono impotenti (vv. 4-8), non lo è certamente il Signore, che si ricorda del suo popolo e lo benedice (vv. 12-13). È il Creatore del cielo e della terra, e, come ha benedetto in passato, così benedirà anche in futuro: una benedizione che è fecondità (vv. 14-15). E la fede diventa lode, una lode che dura per tutta la vita, costituendo l’atteggiamento fondamentale del credente (vv. 17-18).

Salmo 116: l’azione di grazie La lode è concatenata alla supplica nel Sal 116, nel quale LXX e Vulgata vedono due blocchi distinti (i vv. 1-9 costituiscono il Sal 114; i vv. 10-19 il Sal 115). 1 Alleluia.    Amo il Signore perché ascolta    il grido della mia preghiera. 2 Verso di me ha teso l’orecchio    nel giorno in cui lo invocavo. 3 Mi stringevano funi di morte,    ero preso nei lacci degli inferi.    Mi opprimevano tristezza e angoscia. 4 e ho invocato il nome del Signore:    ti prego, Signore, salvami! 5 Buono e giusto è il Signore,    il nostro Dio è misericordioso. 6 Il Signore protegge gli umili;    ero misero ed egli mi ha salvato. 7 Ritorna, anima mia, alla tua pace,    poiché il Signore ti ha beneficato; 8 egli mi ha sottratto dalla morte,    ha liberato i miei occhi dalle lacrime,    ha preservato i miei piedi dalla caduta. 9 Camminerò alla presenza del Signore    sulla terra dei viventi. 10 Alleluia.    Ho creduto anche quando dicevo:    «Sono troppo infelice». 11 Ho detto con sgomento:    «Ogni uomo è inganno». 12 Che cosa renderò al Signore    per quanto mi ha dato? 13 Alzerò il calice della salvezza,    e invocherò il nome del Signore. 14 Adempierò i miei voti al Signore,    davanti a tutto il suo popolo. 15 Preziosa agli occhi del Signore    è la morte dei suoi fedeli. 16 Sì, io sono il tuo servo, Signore,    io sono tuo servo, figlio della tua ancella;    hai spezzato le mie catene. 17 A te offrirò sacrifici di lode    e invocherò il nome del Signore. 18 Adempirò i miei voti al Signore    davanti a tutto il suo popolo, 19 negli atri della casa del Signore    in mezzo a te, Gerusalemme

Si può considerare il salmo una composizione unitaria, racchiusa dal termine «invocare» nei vv. 2 e 17. Lo stesso verbo ricorre anche nei vv. 4 e 13, ma la prima volta il salmista ha invocato il nome del Signore per essere salvato dalla morte (v. 3), la seconda volta, invece, lo invoca per rendergli grazie. I vv. 8-9 in posizione centrale[6] mettono bene a fuoco la situazione: l’orante ha attraversato una prova mortale, ma è stato liberato; resterà in vita. Cosa potrà dare al Signore in cambio di quanto ha ricevuto? (v. 12). Ha ricevuto la vita e pertanto deve offrire la vita che gli è stata donata. L’orante comprende che il fatto di non morire gli permette di continuare a invocare il nome di YHWH e questa volta non per chiedere aiuto, ma semplicemente per rendere grazie[7]. La supplica era il grido della sua fede; la stessa fede viene ora espressa nell’azione di grazie: alzerà «il calice della salvezza» invocando il nome del Signore davanti al suo popolo (questa seconda parte del Sal 116 è diventata nella liturgia cristiana il salmo eucaristico per eccellenza). Salmo 117

In questo salmo, il più breve di tutto il Salterio, l’invito alla lode è universale, anche se la motivazione è nazionale: 1 Alleluia.    Lodate il Signore, popoli tutti,    Voi tutte nazioni, dategli gloria; 2 perché forte è il suo amore per noi    e la fedeltà del Signore dura in eterno.

Israele parla alle nazioni: «La lode ha per contenuto un avvenimento annunciato da Israele, annunciato fuori di Israele. Israele che loda è Israele che testimonia»[8]. In Rm 15,9 Paolo, citando questo salmo in una catena di citazioni bibliche, dirà che le nazioni pagane «glorificano Dio per la sua misericordia». Salmo 118L’Hallel termina col Sal 118, che ricorda agli ebrei la liberazione dall’Egitto, la salvezza operata dalla destra del Signore: la Pasqua è il giorno fatto dal Signore per il suo popolo (v. 24), il giorno in cui Israele è stato scelto come pietra angolare (v. 22) per costruire la dimora di Dio in mezzo agli uomini. Il salmo si apre e si chiude con l’invito a celebrare il Signore «perché è buono, perché eterna è la sua misericordia» (vv. 1.29). I diversi gruppi a cui viene rivolto l’invito (cf. Sal 115,9-11) rispondono in coro: «Eterna è la sua misericordia» (vv. 2.3.4), ritornello ripetuto in ogni versetto anche nel Sal 136. Un personaggio principale (il re? Il popolo rappresentato da un individuo?), superato un grave pericolo, rende grazie pubblicamente: loda il Signore perché l’ha esaudito, l’ha salvato (vv. 14-15.21). L’intera comunità chiede: hoshya-na = salvaci! (v. 25). È l’Osanna (cf. Mc 11,9), utilizzato dopo l’esilio (in particolare nella festa delle Capanne) essenzialmente come domanda. Si rinnova la domanda per il futuro, acclamando il Signore, l’unico capace di salvare. Al culmine della cerimonia (vv. 28-29) il personaggio principale pronuncia il suo atto di fede e di fedeltà verso il Signore («Sei tu il mio Dio») e, al tempo stesso, la sua azione di grazie, a cui tutti sono invitati a unirsi.

Protomartiri francescani

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Publié dans:immagini sacre |on 11 avril, 2016 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – SAN STANISLAO DI CRACOVIA – 11 APRILE

https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/homilies/1979/documents/hf_jp-ii_hom_19790610_polonia-cracovia-blonia-k.html

PELLEGRINAGGIO APOSTOLICO IN POLONIA

MESSA PONTIFICALE IN ONORE DI SAN STANISLAO

OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II – SAN STANISLAO DI CRACOVIA – 11 APRILE

Cracovia, 10 giugno 1979

Sia lodato Gesù Cristo!

1. Noi tutti oggi qui riuniti ci troviamo dinanzi ad un grande mistero della storia dell’uomo: Cristo, dopo la sua Risurrezione, s’incontra con gli apostoli in Galilea e rivolge loro le parole, che poco fa abbiamo sentito dalle labbra del diacono che ha annunciato il Vangelo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20). In queste parole è racchiuso il grande mistero della storia dell’umanità e della storia dell’uomo. Ogni uomo infatti procede. Procede verso l’avvenire. Anche le nazioni procedono. E tutta l’umanità. Procedere significa non soltanto subire le esigenze del tempo, lasciando continuamente dietro di sé il passato: il giorno di ieri, gli anni, i secoli… Procedere vuol dire essere anche coscienti del fine. Forse che l’uomo e l’umanità nel loro cammino attraverso questa terra passano soltanto o spariscono? Per l’uomo tutto consiste forse in ciò che egli, su questa terra, costruisce, conquista e di cui gode? Indipendentemente da tutte le conquiste, da tutto l’insieme della vita (cultura, civiltà, tecnica) non lo attende nient’altro? “Passa la figura di questo mondo”! E l’uomo passa totalmente insieme ad essa?… Le parole che Cristo pronunciò nel momento del congedo dagli Apostoli esprimono il mistero della storia dell’uomo, di ciascuno e di tutti, il mistero della storia dell’umanità. Il battesimo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo è un’immersione nel Dio vivo, “in Colui che è”, come dice il libro della Genesi, in Colui “che è, che era e che viene”, come dice l’Apocalisse (Ap 1,4). Il battesimo è l’inizio dell’incontro, dell’unità, della comunione, per cui tutta la vita terrena è soltanto un prologo e un’introduzione; il compimento e la pienezza appartengono all’eternità. “Passa la figura di questo mondo”. Dobbiamo quindi trovarci “nel mondo di Dio”, per raggiungere il fine, per arrivare alla pienezza della vita e della vocazione dell’uomo. Cristo ci ha mostrato questa via e congedandosi dagli Apostoli, l’ha riconfermata ancora una volta, ha loro raccomandato che essi e tutta la Chiesa insegnassero a osservare tutto ciò che egli aveva loro comandato: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. 2. Ascoltiamo sempre con la massima commozione queste parole, con cui il Redentore risorto delinea la storia dell’umanità e insieme la storia di ogni uomo. Quando dice “ammaestrate tutte le nazioni”, appare dinanzi agli occhi della nostra anima il momento in cui il Vangelo è giunto alla nostra Nazione, agli inizi stessi della sua storia, e quando i primi Polacchi hanno ricevuto il battesimo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Il profilo spirituale della storia della Patria è stato tracciato dalle stesse parole di Cristo, dette agli Apostoli. Il profilo della storia spirituale di ognuno di noi è stato anche tracciato pressappoco nello stesso modo. responsabile. Egli può e deve con lo sforzo personale del pensiero, giungere alla verità. Può e deve scegliere e decidere. Il battesimo, ricevuto agli inizi della storia della Polonia, ci ha resi ancor più coscienti dell’autentica grandezza dell’uomo; “l’immersione nell’acqua” è segno della chiamata a partecipare alla vita della Santissima Trinità, ed è nello stesso tempo una verifica insostituibile della dignità di ogni uomo. Già la stessa chiamata testimonia in suo favore: l’uomo deve avere una dignità straordinaria, se è stato chiamato a tale partecipazione, alla partecipazione alla vita di Dio stesso. Parimenti, tutto il processo storico della coscienza e delle scelte dell’uomo è strettamente legato alla viva tradizione della propria nazione, nella quale, attraverso tutte le generazioni, risuonano con viva eco le parole di Cristo, la testimonianza del Vangelo, la cultura cristiana, le consuetudini nate dalla fede, dalla speranza e dalla carità. L’uomo sceglie consapevolmente, con libertà interiore. Qui la tradizione non è limitazione: è tesoro, è ricchezza spirituale, è un grande bene comune, che si conferma con ogni scelta, con ogni atto nobile, con ogni vita autenticamente vissuta da cristiano. Si può respingere tutto questo? Si può dire no? Si può rifiutare Cristo e tutto ciò che egli ha portato nella storia dell’uomo? Certamente si può. L’uomo è libero. L’uomo può dire a Dio: no. L’uomo può dire a Cristo: no. Ma rimane la domanda fondamentale: è lecito farlo? E nel nome di che cosa è lecito? Quale argomento razionale, quale valore della volontà e del cuore puoi tu mettere dinanzi a te stesso, al prossimo, ai connazionali e alla nazione, per respingere, per dire “no” a ciò di cui tutti abbiamo vissuto per mille anni? A ciò che ha creato ed ha sempre costituito le basi della nostra identità? Una volta Cristo chiese agli Apostoli (ciò ebbe luogo dopo la promessa dell’istituzione dell’Eucaristia, e molti si staccarono da lui): “forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6,67). Permettete che il successore di Pietro, dinanzi a voi tutti qui radunati, dinanzi a tutta la nostra storia, e alla società contemporanea, ripeta oggi le parole di Pietro, che furono allora la sua risposta alla domanda di Cristo: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). 3. San Stanislao è stato Vescovo di Cracovia per sette anni, come è confermato dalle fonti storiche. Questo vescovo-connazionale, oriundo del non lontano Szczepanów, ha assunto la sede di Cracovia nel 1072, per lasciarla nel 1079, subendo la morte per mano del re Boleslao l’Ardito. Il giorno della morte, secondo le fonti era l’11 aprile ed è in questo giorno che il calendario liturgico della Chiesa universale commemora San Stanislao. In Polonia la solennità del vescovo martire è da secoli celebrata l’8 maggio e continua ad esserlo anche oggi. Quando, come metropolita di Cracovia, ho iniziato con voi i preparativi per il nono centenario della morte di San Stanislao, che ricorre quest’anno, eravamo tutti ancora sotto l’impressione del millennio del Battesimo della Polonia, celebrato nell’anno del Signore 1966. Sullo sfondo di questo evento e in confronto alla figura di Sant’Adalberto, anche lui vescovo e martire, la cui vita è stata unita nella nostra storia all’epoca del battesimo, la figura di San Stanislao sembra indicare (per analogia) un altro sacramento, che fa parte dell’iniziazione del cristiano alla fede e alla vita della Chiesa. Questo sacramento, come è noto, è quello della Cresima, ossia quello della Confermazione. Tutta la rilettura “giubilare” della missione di San Stanislao nella storia del nostro millennio cristiano, e inoltre tutta la preparazione spirituale alle celebrazioni di quest’anno si riferiva proprio a questo sacramento della Cresima, cioè della confermazione. L’analoga ha molti aspetti. Soprattutto però l’abbiamo cercata nel normale sviluppo della vita cristiana. Come un uomo battezzato diventa cristiano maturo mediante il sacramento della Cresima, così anche la Provvidenza divina ha dato alla nostra Nazione, a suo tempo, dopo il Battesimo, il momento storico della Cresima. San Stanislao, che dall’epoca del battesimo è separato da quasi un intero secolo, simboleggia questo momento in modo particolare, per il fatto che ha reso testimonianza a Cristo versando il proprio sangue. Il sacramento della Cresima nella vita di ogni cristiano, di solito giovane, perché è la gioventù che riceve questo sacramento – anche la Polonia allora era giovane nazione e Paese – deve far sì che anche lui diventi “testimone di Cristo” sulla misura della propria vita e della propria vocazione. Questo è un sacramento che in modo particolare ci associa alla missione degli Apostoli, in quanto introduce ogni battezzato nell’apostolato della Chiesa (specialmente nell’apostolato cosiddetto dei laici). È il sacramento che deve far nascere in noi uno spiccato senso di responsabilità per la Chiesa, per il Vangelo, per la causa di Cristo nelle anime umane, per la salvezza del mondo. Il sacramento della Cresima lo riceviamo solo una volta nella vita (come è del battesimo), e tutta la vita, che si apre nella prospettiva di questo sacramento, acquista l’aspetto di una grande e fondamentale prova: prova di fede e di carattere. San Stanislao è diventato, nella storia spirituale dei Polacchi, patrono di quella grande e fondamentale prova di fede e di carattere. Lo veneriamo anche come patrono dell’ordine morale cristiano. In definitiva, infatti, l’ordine morale si costituisce attraverso gli uomini. Quest’ordine è quindi composto di un gran numero di prove, ciascuna delle quali è prova di fede e di carattere. È da ogni prova vittoriosa che deriva l’ordine morale, mentre ogni prova fallita porta disordine. Sappiamo anche molto bene, da tutta la nostra storia, che non possiamo assolutamente, a nessun costo, permetterci questo disordine, che abbiamo già più volte amaramente pagato. E pertanto la nostra meditazione di sette anni sulla figura di San Stanislao, il nostro riferimento al suo ministero pastorale nella sede di Cracovia, il nuovo esame delle sue reliquie, cioè del cranio del Santo, che porta impresse le tracce dei colpi mortali, tutto ciò ci conduce oggi ad una grande e ardente preghiera per la vittoria dell’ordine morale in questa difficile epoca della nostra storia. Questa è la conclusione essenziale di tutto il perseverante lavoro di questo settennio, la condizione principale ed insieme il fine del rinnovamento conciliare per il quale ha così pazientemente lavorato il Sinodo dell’arcidiocesi di Cracovia; ed anche il principale postulato della pastorale e di tutta l’attività della Chiesa, e di tutti i lavori, di tutti i compiti e programmi che sono e che saranno intrapresi in terra polacca. Che questo anno di San Stanislao sia l’anno di una particolare maturità storica della Nazione e della Chiesa in Polonia, l’anno di una nuova, consapevole responsabilità per il futuro della Nazione e della Chiesa in Polonia: ecco il voto che oggi qui con voi, venerabili e diletti Fratelli e Sorelle, desidero, come primo Papa di stirpe polacca, offrire all’immortale Re dei secoli, all’eterno Pastore delle nostre anime e della nostra storia, al Buon Pastore! 4. Permettete ora che, per fare una sintesi, abbracci spiritualmente tutto il mio pellegrinaggio in Polonia, che, iniziato la vigilia della Pentecoste a Varsavia, sta per concludersi oggi a Cracovia, nella solennità della Santissima Trinità. Desidero ringraziarvi, carissimi Connazionali, per tutto! Perché mi avete invitato e mi avete accompagnato lungo l’intero percorso del pellegrinaggio, da Varsavia attraverso Gniezno dei Primati e Jasna Gora. Ringrazio ancora una volta le Autorità dello Stato per il loro gentile invito e l’accoglienza. Ringrazio anche le Autorità di tutti i voivodati, e specialmente le autorità della città di Varsavia e – in questa ultima tappa – le Autorità municipali dell’antica Città regale di Cracovia. Ringrazio la Chiesa della mia Patria: l’Episcopato con il Cardinale Primate a capo, il Metropolita di Cracovia e i miei Fratelli Vescovi: Giuliano, Giovanni, Stanislao ed Albino, con i quali mi è stato dato qui, a Cracovia, di collaborare, per molti anni, alla preparazione del Giubileo di San Stanislao. Ringrazio anche i Vescovi di tutte le diocesi suffraganee di Cracovia, Czestochowa, Katowice, Kielce e Tarnów, Taraów è, attraverso Szczepanów, la prima patria di San Stanislao. Ringrazio tutto il clero. Ringrazio gli Ordini religiosi maschili e femminili. Ringrazio tutti ed ognuno in particolare. È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, ringraziare. Anch’io, ora, in quest’ultimo giorno del mio pellegrinaggio attraverso la Polonia, desidero aprire largamente il mio cuore e dire a gran voce, rendendo grazie in questa magnifica forma di “prefazio”. Quanto desidero che questo mio ringraziamento giunga alla Divina Maestà, al cuore della Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Miei Connazionali! Con quanto calore ringrazio ancora una volta, insieme a voi, per il dono di essere stati – più di mille anni or sono – battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, di esser stati immersi nell’acqua che, per la grazia, perfeziona in noi l’immagine del Dio vivente, nell’acqua che è un’onda di eternità: “Sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Ringrazio perché noi uomini, noi Polacchi, ognuno dei quali nasce come uomo dalla carne e sangue (cf.Gv 3,6) dai suoi genitori, siamo stati concepiti e nati dallo Spirito (cf.Gv 3,5). Dallo Spirito Santo. Desidero dunque oggi, stando qui – in questi vasti prati di Cracovia – e rivolgendo lo sguardo verso Wawel e Skalka dove, novecento anni fa, “ha subìto la morte il celebre Vescovo Stanislao”, adempiere ancora una volta ciò che si attua nel sacramento della Cresima, ossia nel sacramento della Confermazione, di cui egli è simbolo nella nostra storia. Desidero che ciò che è stato concepito e nato dallo Spirito Santo, sia nuovamente confermato mediante la Croce e la Risurrezione di Cristo, alla quale partecipò in modo particolare il nostro connazionale Stanislao di Szczepanów. Permettete quindi che, come il vescovo durante la Cresima, così anch’io ripeta oggi quel gesto apostolico dell’imposizione delle mani su tutti coloro che sono qui presenti, su tutti i miei connazionali. In questa imposizione delle mani si esprime infatti l’accettazione e la trasmissione dello Spirito Santo, che gli Apostoli hanno ricevuto da Cristo stesso, quando, dopo la Risurrezione, venne da loro “mentre erano chiuse le porte” (Gv 20,19) e disse “Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20,22). Questo Spirito: Spirito di salvezza, di redenzione, di conversione e di santità, Spirito di verità, Spirito di amore e Spirito di fortezza – ereditato quale forza viva dagli Apostoli – veniva tante volte trasmesso dalle mani dei vescovi a intere generazioni in terra polacca. Questo Spirito – così come il vescovo oriundo di Szczepanów lo trasmetteva ai suoi contemporanei – desidero oggi trasmettere a voi. Desidero oggi trasmettervi questo Spirito abbracciando cordialmente con profonda umiltà, quella grande “Cresima della storia”, che voi vivete. Ripeto quindi seguendo il Cristo stesso: “Ricevete lo Spirito Santo!” (Gv 20,22). “Non spegnete lo Spirito!” (1Ts 5,19). Ripeto seguendo l’Apostolo: “Non vogliate rattristare lo Spirito Santo!” (Ef 4,30). Dovete essere forti, Carissimi Fratelli e Sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte, come hanno rivelato San Stanislao e il Beato Massimiliano Maria Kolbe. Dovete essere forti di quell’amore che “è paziente, è benigno…; non è invidioso…; non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, quell’amore che non avrà mai fine” (1Cor 13,4-8). Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire quel grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso – col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo – dialogo della salvezza. Vorrei che questo dialogo fosse ripreso insieme con tutti i nostri fratelli cristiani, anche se oggi ancora separati, uniti però da un’unica fede in Cristo. Parlo di ciò, qui, su questo posto, per esprimere parole di gratitudine per la lettera che ho ricevuto dai rappresentanti del Consiglio Ecumenico polacco. Anche se, a causa del programma così denso, non si è arrivati ad un incontro a Varsavia, ricordatevi, cari fratelli in Cristo, che questo incontro porto nel cuore come un vivo desiderio e come espressione della fiducia per il futuro. Quel dialogo non cessa di essere vocazione attraverso tutti “i segni dei tempi”. Giovanni XXIII e Paolo VI insieme al Concilio Vaticano II hanno accolto questo invito al dialogo. Giovanni Paolo II sin dal primo giorno conferma la stessa disponibilità. Sì! bisogna lavorare per la pace e la riconciliazione fra gli uomini e le nazioni di tutto il mondo. Bisogna cercare di avvicinarsi a vicenda. Bisogna aprire le frontiere. Quando siamo forti dello Spirito di Dio, siamo anche forti della fede nell’uomo – forti della fede, della speranza e della carità – che sono indissolubili e siamo pronti a rendere testimonianza alla causa dell’uomo di fronte a colui, al quale sta veramente a cuore questa causa. Al quale questa causa è sacra. A colui che desidera servirla secondo la miglior volontà. Non bisogna quindi aver paura! Occorre aprire le frontiere! Ricordatevi che non esiste l’imperialismo della Chiesa, ma solo il servizio. Vi è soltanto la morte di Cristo sul Calvario. Vi è l’azione dello Spirito Santo, frutto di questa morte, Spirito Santo che rimane con noi tutti, con l’umanità intera, “fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Con particolare gioia saluto qui i gruppi dei nostri fratelli arrivati dal Sud, da oltre i Carpazi. Dio vi ricompensi per la vostra presenza. Come desidererei che qui potessero essere presenti anche gli altri! Dio vi ricompensi, fratelli Lusaziani. Come desidererei che qui potessero essere presenti, durante questo pellegrinaggio del Papa Slavo, anche altri nostri fratelli nella lingua e negli eventi della storia. E se non ci sono, se non sono presenti su questa spianata, ricordino che per questo sono ancora più presenti nel nostro cuore. Si ricordino che sono più presenti nel nostro cuore e nella nostra preghiera. 5. Vi è, inoltre, là a Varsavia, sulla Piazza della Vittoria, la tomba del Milite Ignoto, dalla quale ho iniziato il mio ministero di pellegrino in terra polacca; e qui, a Cracovia sulla Vistola – tra Wawel e Skalka – la tomba “del Vescovo Ignoto”, del quale è rimasta una mirabile “reliquia” nel tesoro della nostra storia. E perciò, permettete che, prima di lasciarvi, rivolga ancora uno sguardo su Cracovia, questa Cracovia, in cui ogni pietra e ogni mattone mi sono cari. E che guardi ancora da qui la Polonia… E perciò, prima di andarmene di qui, vi prego di accettare, ancora una volta tutto il patrimonio spirituale il cui nome è “Polonia”, con la fede, la speranza e la carità che Cristo ha innestato in noi nel santo Battesimo. Vi prego di non perdere mai la fiducia, di non abbattervi, di non scoraggiarvi; di non tagliare da soli le radici dalle quali abbiamo avuto origine. Vi prego di aver fiducia, malgrado ogni vostra debolezza, di cercare sempre la forza spirituale da Colui, presso il quale tante generazioni dei nostri padri e delle nostre madri la trovavano. Non staccatevi mai da lui. Non perdete mai la libertà di spirito, con la quale lui “fa libero” l’uomo. Non disdegnate mai la Carità che è la cosa “più grande”, che si è manifestata attraverso la croce, e senza la quale la vita umana non ha né radici né senso. Tutto questo chiedo a voi in memoria e per la potente intercessione della Madre di Dio di Jasna Gora e di tutti i suoi santuari in terra polacca; in memoria di San Wojciech, che subì la morte per Cristo presso il mar Baltico; in memoria di San Stanislao, caduto sotto la spada regale di Skalka.

Chiedo a voi tutto questo. Amen.

 

L’ATTUALITÀ DI DIETRICH BONHOEFFER (1906-1945) — 11 APRILE

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L’ATTUALITÀ DI DIETRICH BONHOEFFER (1906-1945) — 11 APRILE

Dietrich Bonhoeffer, giovane pastore simbolo della resistenza tedesca contro il nazismo, conta tra coloro che possono sostenerci sul nostro cammino di fede. Lui che, nelle ore più oscure del XX secolo, ha dato la sua vita fino al martirio, scriveva in prigione queste parole che ormai cantiamo a Taizé: «Dio, raccogli i miei pensieri verso di te. Presso di te la luce, tu non mi dimentichi. Presso di te l’aiuto, presso di te la pazienza. Non capisco le tue vie, ma tu conosci il cammino per me». Ciò che colpisce in Bonhoeffer è la sua somiglianza con i Padri della Chiesa, i pensatori cristiani dei primi secoli. I Padri della Chiesa hanno svolto tutto il loro lavoro partendo dalla ricerca di un’unità di vita. Erano capaci di riflessioni intellettuali estremamente profonde, ma allo stesso tempo pregavano molto ed erano pienamente integrati nella vita della Chiesa del loro tempo. Troviamo questo in Bonhoeffer. Intellettualmente era quasi superdotato. Ma allo stesso tempo quest’uomo ha tanto pregato, ha meditato la Scrittura tutti i giorni, fino agli ultimi momenti della sua vita. La comprendeva, come una volta ha detto Gregorio Magno, come una lettera di Dio che gli era indirizzata. Anche se veniva da una famiglia dove gli uomini – suo padre, i suoi fratelli – erano praticamente agnostici, anche se la sua Chiesa, la Chiesa protestante di Germania, l’avesse molto deluso al momento del nazismo e ne avesse molto sofferto, è vissuto pienamente nella Chiesa.

Rilevo tre scritti: La sua tesi di laurea, Sanctorum Communio, ha qualcosa d’eccezionale per l’epoca: un giovane studente di 21 anni scrive una riflessione dogmatica sulla sociologia della Chiesa partendo da Cristo. Riflettere a partire da Cristo su ciò che la Chiesa dovrebbe essere sembra incongruente. Molto più di una istituzione, la Chiesa è per lui il Cristo esistente sottoforma di Chiesa. Cristo non è un po’ presente attraverso la Chiesa, no: Egli esiste oggi per noi sottoforma di Chiesa. È completamente fedele a san Paolo. Questo Cristo ha preso su di sé la nostra sorte, ha preso il nostro posto. Questo modo di fare di Cristo rimane la legge fondamentale della Chiesa: prendere il posto di coloro che sono stati esclusi, di quelli che si trovano fuori, come Gesù ha fatto durante il suo ministero e già nel momento del suo battesimo. Colpisce come questo libro parli dell’intercessione: essa è come il sangue che circola nel Corpo di Cristo. Per esprimere questo, Bonhoeffer si appoggia sui teologi ortodossi. Egli parla anche della confessione, che non era praticamente più in uso nelle Chiese protestanti. Immaginate: un giovane uomo di 21 anni afferma che è possibile che un ministro della Chiesa ci dica: «I tuoi peccati sono perdonati» e che affermi che ciò fa parte dell’essenza della Chiesa: quale novità nel suo contesto! Il secondo scritto è un libro che ha redatto quando è stato chiamato a diventare direttore di un seminario per studenti in teologia che progettavano un ministero nella Chiesa confessante, uomini che dovevano prepararsi a una vita molto dura. Quasi tutti hanno avuto a che fare con la Gestapo, certuni sono stati gettati in prigione. In tedesco il titolo è estremamente breve: Nachfolge, in italiano Sequela. Ciò dice tutto sul libro. Come prendere seriamente ciò che Gesù ha espresso, come non metterlo in disparte come se le sue parole fossero d’altri tempi? Il libro lo dice: seguire non ha contenuto. Ci sarebbe piaciuto che Gesù avesse un programma. E tuttavia no! Alla sua sequela, tutto dipende dalla relazione con lui: lui è davanti e noi seguiamo. Seguire, vuol dire, per Bonhoeffer, riconoscere che, se Gesù è veramente ciò che ha detto di sé, ha nella nostra vita diritto su tutto. È il «mediatore». Nessuna relazione umana può prevalere contro di lui. Bonhoeffer cita le parole di Cristo che chiamano a lasciare i genitori, la famiglia, tutti i propri beni. Ciò fa un po’ paura oggi, e si è potuto rimproverarlo a questo libro: Bonhoeffer non dà un’immagine troppo autoritaria di Cristo? Però si legge nel Vangelo quanto le persone siano rimaste stupite dall’autorità con cui Gesù insegna e con la quale caccia gli spiriti maligni. C’è un’autorità in Gesù. Eppure, egli si dice tutt’altro rispetto ai Farisei, mite e umile di cuore, cioè egli stesso provato e al di sotto di noi. È così che si è sempre presentato ed è dietro questa umiltà che sta la vera autorità. Tutto questo libro è costruito così: ascoltare con fede e mettere in pratica. Se si ascolta con fede, se ci si rende conto che è lui, Cristo, che parla, non si può non mettere in pratica quel che ha detto. Se la fede si fermasse davanti alla messa in pratica, non sarebbe più fede. Porrebbe un limite al Cristo che abbiamo ascoltato. Certo, sotto la penna di Bonhoeffer, ciò può sembrare un po’ troppo forte, ma la Chiesa non ha sempre nuovamente bisogno di quell’ascolto? Un ascolto semplice. Un ascolto diretto, immediato, che crede sia possibile vivere ciò che Cristo chiede. Il terzo scritto, sono le famose lettere di prigionia, Resistenza e resa. In un mondo in cui egli percepisce che Dio non è più riconosciuto, in un mondo senza Dio, Bonhoeffer si pone la domanda: come parleremo di Lui? Cercheremo di creare dei domini di cultura cristiana, immergendo nel passato, con una certa nostalgia? Cercheremo di provocare bisogni religiosi nelle persone che apparentemente non ne hanno più? Oggi si può dire che c’è un rifiorire d’interesse religioso, ma spesso solo per dare una vernice religiosa alla vita. Sarebbe falso da parte nostra creare esplicitamente una situazione nella quale le persone avrebbero bisogno di Dio. Come parleremo allora di Cristo oggi? Bonhoeffer risponde: con la nostra vita. È impressionante vedere come descrive il futuro al suo figlioccio: «Viene il giorno in cui sarà forse impossibile parlare apertamente, ma noi pregheremo, faremo ciò che è giusto, il tempo di Dio verrà». Bonhoeffer crede che il linguaggio necessario ci sarà dato con la vita. Possiamo tutti risentire oggi, anche nei confronti di coloro che sono a noi più vicino, una grande difficoltà a parlare di redenzione per mezzo di Cristo, della vita dopo la morte o, più ancora, della Trinità. Tutto questo è così lontano a delle persone che, in un certo senso, non hanno più bisogno di Dio. Come avere questa fiducia che se viviamo di questo, il linguaggio ci sarà donato? Non ci sarà dato se rendiamo il Vangelo accettabile sminuendolo. No, il linguaggio ci sarà donato se viviamo veramente di esso. Nelle sue lettere, come nel suo libro su seguire il Cristo, tutto termina in una maniera quasi mistica. Egli non avrebbe voluto che si dicesse questo, ma quando si tratta d’essere con Dio senza Dio, si pensa a san Giovanni della Croce, o a santa Teresa di Lisieux in quella fase così dura che ha attraversato alla fine della sua vita. È questo che voleva Bonhoeffer: rimanere con Dio senza Dio. Osare stare accanto a Lui quando è rifiutato, rigettato. Ciò dona una certa gravità a tutto quanto ha scritto. Bisogna tuttavia sapere che egli era ottimista. La sua visione dell’avvenire ha qualcosa di liberante per i cristiani. Egli aveva fiducia; la parola fiducia ritorna molto spesso nelle sue lettera di prigionia. In prigione, Bonhoeffer avrebbe voluto scrivere un commento al salmo 119, ma è arrivato solo alla terza strofa. In quel salmo un versetto riassume bene ciò che Bonhoeffer ha vissuto: Tu, Signore, sei vicino, tutti i tuoi precetti sono veri. Dietrich Bonhoeffer ha vissuto questa certezza che Cristo è realmente vicino, in tutte le situazioni, anche quelle estreme. Tu, Signore, sei vicino, tutti i tuoi precetti sono veri. Possiamo credere che ciò che tu ordini non solo è vero, ma degno della nostra intera fiducia.

Di frère François di Taizé

Publié dans:BONHOEFFER, Bonhoeffer D. |on 11 avril, 2016 |Pas de commentaires »

The Restoration of Peter (John 21)

The Restoration of Peter (John 21) dans immagini sacre
http://revlisad.com/2013/09/

Publié dans:immagini sacre |on 8 avril, 2016 |Pas de commentaires »

NEI GIORNI DI PASQUA – DISCORSO DI S. AGOSTINO SUL VANGELO DI GIOVANNI, CAP. 21 DISCORSO 252/A

http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_350_testo.htm

NEI GIORNI DI PASQUA – DISCORSO DI S. AGOSTINO SUL VANGELO DI GIOVANNI, CAP. 21 DISCORSO 252/A

1. Dall’evangelista Giovanni sono stati descritti molti particolari sulle apparizioni del Signore Gesù ai discepoli dopo la sua resurrezione. Una volta apparve loro mentre pescavano. Questa pesca durante la quale il Signore volle mostrarsi ai discepoli fu iniziata presso il mare di Tiberiade e contiene un grande sacramento, che, sebbene da voi conosciuto, noi dobbiamo quest’oggi brevemente ricordare.

Le pésche miracolose di cui nel Vangelo e relativo simbolismo. 2. Ripensate a quell’altra pesca in occasione della quale chiamò coloro che erano pescatori di pesci e li fece pescatori di uomini. Essa avvenne agli inizi della sua predicazione, molto tempo prima della sua passione. Quella volta, come dovreste ben ricordare, si avvicinò ai discepoli, non ancora discepoli, ed essi, abbandonate le reti, lo seguirono. S’accorse che durante l’intera notte non avevano preso niente e disse loro: Gettate in mare le vostre reti 1. Ve le gettarono e presero una quantità di pesci così grande da riempire due barche, appesantendole in maniera tale che stavano per affondare. La quantità di pesci fu tanta che le reti si rompevano. Fu allora che rivolse loro le parole: Venite dietro a me; io vi farò pescatori di uomini 2. E tali effettivamente li rese: gli Apostoli gettarono le reti della parola nel mare del mondo e presero molti pesci. Se volete farvi un’idea di questo numero di pesci, numero incalcolabile, guardate alla moltitudine dei cristiani. Sono infatti i cristiani quelli che furono presi da quelle sante reti, presi per conseguire la vita, non per finire nella morte. Tuttavia fra questa moltitudine di gente presa nelle reti son sorti anche numerosi scismi. Dice appunto che le reti si squarciarono. Anche le due barche, cioè le due imbarcazioni che furono riempite, hanno un significato: significano i cristiani provenienti dalla circoncisione e dall’incirconcisione, cioè la Chiesa raccolta dal mondo giudeo e da quello pagano. In relazione a ciò Cristo è detto pietra angolare: perché in quell’angolo si baciano, per così dire, le pareti che provengono da direzioni opposte. Orbene, quelle barche furono riempite, quasi sovraccaricate, al punto che stavano per affondare. Si allude ai cristiani che vivono male e con i loro cattivi costumi sono un peso per la Chiesa. Le barche peraltro non affondarono: la Chiesa sa reggere il peso di coloro che vivono male; può essere gravata, non sommersa. Adesso, cioè dopo la sua resurrezione, Cristo ci fornisce, l’immagine della Chiesa quale sarà dopo la nostra resurrezione. Allora, Chiesa felice, essa sarà formata da soli buoni e non avrà mescolato alcun cattivo.

Al presente le reti della Chiesa contengono pesci buoni e cattivi. 3. Cosa disse ai discepoli dopo la resurrezione? Gettate le reti dalla parte destra 3. Nella pesca precedente non aveva detto: Dalla parte destra, perché non fossero indicati soltanto i buoni; e nemmeno: Dalla parte sinistra, per non indicare soltanto i cattivi. In diverse direzioni furono gettate le reti, perché dovevano raccogliere e i buoni e i cattivi. In tal senso il Signore Gesù Cristo raccontò anche una parabola. Disse: Il regno dei cieli è simile a una rete gettata in mare, nella quale si raccoglie ogni sorta di pesci. Quando l’hanno tirata a riva, si seggono e scelgono i pesci buoni, che mettono nei loro recipienti, mentre buttano via i pesci cattivi. Così la formulò, ma poi ne diede la spiegazione. Disse: Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e prenderanno i cattivi di fra mezzo ai giusti e li getteranno nella fornace col fuoco acceso, dove sarà pianto e stridore di denti 4. Lasciamo dunque nuotare per ora i pesci buoni insieme con i cattivi e i cattivi insieme con i buoni. Basta che nuotino dentro la rete e non la rompano! Coloro che rompono la rete sono cattivi; mentre coloro che restano dentro la rete possono essere e buoni e cattivi. Ma, questo solo per il tempo presente.

La separazione dei cattivi dai buoni. 4. Dopo la resurrezione in effetti cosa disse? Gettate la rete dalla parte destra 5. Che significa: Dalla parte destra? Gettandola dalla parte destra prenderete coloro che alla fine saranno alla destra. E a quelli che staranno alla destra dirà: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno 6. A questi si riferiva quando ordinava di gettare le reti dalla parte destra. Le reti furono calate e presero molti grandi pesci. Se ne precisa anche il numero. Nella pesca antecedente, che sta a indicare i buoni e i cattivi, non ci si dice il numero: c’erano infatti pesci in soprannumero. E chi sono questi pesci in sopra numero? Coloro che non rientrano nel numero dei santi. Tali coloro che strappano la rete creando scismi; tali coloro che rinunziano al mondo a parole ma non nei fatti, coloro che ricevono il sacramento dell’uomo nuovo ma continuano a vivere secondo l’uomo vecchio. Gente come questa sarebbe stata dentro quelle reti: perciò non si menziona la parte destra e si tace il numero. Tutti costoro sono in soprannumero, come dice il salmo: Ho annunziato e ho parlato; son diventati molti, oltrepassano il numero 7. C’era, allora, un numero di santi, ma ce n’erano molti fuori di quel numero; adesso al contrario non c’è nessuno che non rientri in quel numero.

Grande il numero degli eletti, uniti per sempre nella lode di Dio. 5. E quanti erano? Centocinquantatré 8. Questo è il numero globale di tutti i santi? Non permetta il Signore che ad un numero così esiguo si debbano ridurre nemmeno coloro ai quali stiamo parlando in questa chiesa. E allora? Chi fra noi non comprende la cosa deve cominciare a capirla; chi invece la comprende deve ricordarla. La prima cosa la si ottenga mediante il mio suggerimento, la seconda attraverso la riflessione, perché non sopravvenga la dimenticanza. Centocinquantatré, dice. E l’Evangelista si premura di aggiungere: Pur essendo così grandi, la rete non si squarciò 9. Sembra dirlo in riferimento a quella pesca antecedente in cui le reti si squarciarono. Adesso invece come andò? Pur essendo così grandi, la rete non si squarciò. Chi temerà che lassù ci siano scismi, dove non potrà rompersi il nodo dell’unità e il germoglio della madre Chiesa? Non ci sarà amico che sarà separato da lei né nemico che le si aggreghi. Quanti aderiranno a lei saranno santi e perfetti. Saranno migliaia e migliaia, anzi saranno più che miriadi, ma saranno tutti inclusi in quel numero.

Legge e grazia nell’opera della giustificazione e della salvezza eterna. 6. Questo numero scaturisce da diciassette. Chi vuol contare tutti i numeri da uno fino a diciassette e farne la somma troverà che è così. Si metta uno e vi si aggiunga due: si avrà tre. Si aggiunga ancora tre e si avrà sei; si aggiunga quattro e si avrà dieci. Procedendo in questa maniera fino a diciassette si avrà centocinquantatré. Non resta altro se non che mi si chieda quale significato abbiano il dieci e il sette. Se troviamo il significato di questo numero base, cioè diciassette, sarà chiaro anche il sacramento del numero più alto, cioè centocinquantatré. Nel diciassette c’è la radice, nell’altro numero l’albero. Che significa dunque il numero diciassette? Il dieci significa la legge. Sono infatti dieci i comandamenti della legge, scritti dal dito di Dio su due tavole di pietra, come dice la legge stessa, come attestano i Libri sacri. Nel numero dieci troviamo rappresentata la legge. Ma questa legge chi è in grado di osservarla senza aiuto? Nessuno assolutamente. Se infatti – dice l’Apostolo – fosse stata data una legge capace di dare la vita, certamente dalla legge sarebbe provenuta la giustizia. Ma la Scrittura racchiuse ogni cosa sotto il peccato, perché la promessa fosse data a coloro che credono, mediante la fede in Gesù Cristo 10. Fu dunque data la legge, la quale, per non dilungarmi, ha tra gli altri precetti quello di non desiderare la roba del tuo prossimo 11. Non devi desiderarla. Passando davanti alla bella casa di un altro, non devi sospirare perché è attraente. Non devi desiderare la roba del tuo prossimo. Del Signore è la terra e quanto contiene 12; e se tu possiedi Dio, che cosa non è in tuo dominio? Comunque, la roba del tuo prossimo tu non la devi desiderare. Questa legge gli uomini l’avevano ascoltata e, almeno certuni, si sforzavano di trattenersi dal compiere il male per paura del castigo; tuttavia non riuscivano a frenare il piacere cattivo. Donaci quindi, o Signore, il tuo aiuto! Difatti colui che ha dato la legge darà anche la benedizione 13. In questo testo si afferma che darà la benedizione colui che aveva dato la legge: darà cioè l’aiuto dello Spirito Santo perché si possa osservare la legge, come è detto della sapienza di Dio: Essa reca sulla lingua la legge e la misericordia 14. Se recasse con sé solo la legge, chi ne sorreggerebbe il peso? Si esigerebbero le opere conformi alla legge e tutti saremmo trovati colpevoli. Ma ecco sopraggiungere la misericordia. Con essa si ha l’aiuto per praticare la legge e il perdono quando non la si pratica. Questa misericordia è dono dello Spirito Santo, al quale nelle Scritture si fa riferimento ove si usa il numero sette. Ricordo un solo passo, quello dì Isaia, che dice: In lui dimorerà lo Spirito Santo; ed elenca: Spirito dì sapienza e d’intelletto, Spirito di consiglio e di fortezza, Spirito di scienza e di pietà, Spirito del timore dì Dio 15. Giunge questo Spirito e ottengono realizzazione e i sette e i dieci. Sì, quando i sette si aggiungono ai dieci, vengono fuori i santi, coloro cioè che non ripongono la propria fiducia nella legge ma confidano nell’aiuto di Dio. Rivolti al loro Signore così si esprimono: Sii tu il mio aiuto! Non abbandonarmi, non dimenticarmi, Dio, mia salvezza. Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto 16. Costoro hanno appreso a dire come voi: Padre nostro che sei nei cieli. La misericordia dunque si è aggiunta alla legge; perciò noi, che ci troviamo nel numero diciassette, non dobbiamo in alcun modo temere: se siamo nel diciassette giungeremo al centocinquantatrè, e se giungeremo al centocinquantatrè, saremo alla sua destra, e se saremo alla sua destra avremo in eredità il regno.

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