17 APRILE 2016 | 4A DOMENICA DI PASQUA – ANNO C – « L’AGNELLO… SARÀ IL LORO PASTORE »
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« L’AGNELLO… SARÀ IL LORO PASTORE »
Il tema dominante della Liturgia di questa Domenica è quello di Gesù « buon Pastore » (Gv 10,27-30), che ritorna anche nelle rispettive Domeniche dei cicli A e B. Qui però esso è mescolato a un’altra immagine assai caratteristica, che sembra starle in contropposizione e quasi eliderla: l’immagine di Gesù « Agnello » immolato (2ª lettura), più segno di debolezza che segno di vigore e di forza, quale ci si attenderebbe appunto da colui che deve esercitare una missione di « guida » in mezzo al popolo. Mi sembra che proprio questa tensione fra le due immagini (Cristo Agnello e Pastore nello stesso tempo) rappresenti l’aspetto più originale della Liturgia odierna, che vorremmo approfondire nelle riflessioni che seguono. La bellissima sequenza « Victimae paschali laudes » proprio da questa contrapposizione di immagini, sia pur leggermente modificate, prende felicissimo avvio: « Agnus redemit oves, Christus innocens Patri reconciliavit peccatores ».
« Le mie pecore ascoltano la mia voce » Il brano di Vangelo, ripreso da Giovanni (10,27-30), non fa parte della nota allegoria-parabola in cui Gesù si proclama « buon Pastore » (10,1-18), ma la segue quasi immediatamente: direi che ne è come l’applicazione semplice e spontanea in un caso particolare. Gesù si trova a Gerusalemme in occasione della festa della Dedicazione, che capitava d’inverno. I Giudei, increduli, gli chiedono di rivelar loro chi egli sia: « Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente » (10,24). Gesù risponde loro: « Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore » (vv. 24-26). La richiesta dei Giudei, dunque, non è sincera: essi non sono disposti ad accettare né la testimonianza delle sue « parole », né quella delle « opere ». E il motivo di fondo è che essi non sono delle sue « pecore ». È questo il punto di attacco con il brano di Vangelo che oggi ci viene proposto. L’ultima espressione potrebbe farci pensare a una specie di predestinazione, per cui alcuni sono « pecore » di Cristo e altri no. In realtà le cose non stanno così: si è « gregge » di Cristo nella misura in cui « si ascolta » la sua voce. Tutto dipende dalla capacità che l’uomo ha di mettersi alla sua scuola, senza pretendere di imporre i propri schemi, o i propri giudizi, o le proprie valutazioni al Signore. È nella convergenza di ascolto docile della parola di Cristo che si costruisce la comunità dei credenti, che si forma di tante pecore disperse l’unico « gregge » del Signore: « Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola » (vv. 27-30). Se la condizione preliminare per far parte del gregge di Cristo è « l’ascolto » della sua parola, questo vuol dire che non siamo tanto noi a muoverci verso di lui, quanto piuttosto lui che si muove verso di noi: egli infatti ci « chiama » per primo e noi rispondiamo al suo appello. All’inizio, dunque, del nostro rapporto con Cristo sta il suo amore per noi. Tale amore poi tende sempre più a dilatarsi e approfondirsi: l’importante è che l’uomo si apra a Dio. A questo punto egli avrà come la sensazione « fisica » di essere protetto dal suo Signore: « Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano » (v. 28). E non solo Cristo dà sicurezza e tranquillità al suo gregge; il Padre stesso è impegnato alla salvezza delle pecore, perché, in ultima analisi, a lui esse appartengono: « Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio » (v. 29). Affidarsi a Cristo, pertanto, non è affidarsi a lui solamente, ma attraverso lui risalire al Padre: « per Christum ad Deum ». Il mistero della Chiesa rimanda perciò molto lontano: al « disegno » eterno di salvezza e di amore che da sempre il Padre ha stabilito di « realizzare nella pienezza dei tempi » (cf Ef 1,10). Credo che difficilmente i cristiani possano trovare motivi più profondi di gioia e di serenità, pur in mezzo alle tempeste che li sconquassano sia come credenti sia semplicemente come cittadini della città terrena, che in queste parole di Gesù: nessuno può « rapirci » dalle mani di Cristo e dalle mani del Padre! L’ultima espressione « Io e il Padre siamo una cosa sola » (v. 30) vuole infatti rimarcare la infrangibilità dell’amore che sostiene i cristiani: è l’amore « potenziato » del Padre e del Figlio che sembra quasi far cerchio attorno ai credenti perché la seduzione del male non li strappi dalle loro mani. Al di là di questo, però, credo che le ultime parole vogliano anche darci come l’esemplare su cui si deve modellare la Chiesa per essere imprendibile alle forze del male: una « unità » così profonda come è l’unità misteriosa che lega il Padre al Figlio, tanto da far dire altrove a Gesù: « Chi ha visto me ha visto il Padre… Non credi che io sono nel Padre e il Padre in me? » (14,9-10). Bisogna che i cristiani imparino a riscoprire l’unità di fede, di amore, di atteggiamenti, di unione in tutti i campi, anche nel sociale e nel politico, se possibile, per essere autentico gregge di Cristo. L’immagine del Pastore e delle pecore, infatti, rimanda non soltanto ad un rapporto « personale » di ciascuno di noi con Cristo, ma anche a un rapporto « comunitario » e fraterno fra tutti noi, fino al punto di riprodurre il modello dell’unione trinitaria. Fino a che le « pecore » di Cristo non realizzeranno fra di loro e con il Signore una vita di così profonda unità, non potranno rendere testimonianza di fronte al mondo che esse davvero « ascoltano la sua voce » ed egli « le conosce » ed esse « lo seguono » (v. 27)!
« Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello » Un’immagine di amore, perciò, quella di Cristo-pastore offertaci dal Vangelo, più che un’immagine di forza. Proprio a questo ci richiama il brano dell’Apocalisse che ci descrive, sempre nel solenne stile liturgico che le è proprio, il trionfo finale degli eletti che Dio ha « preservato » dalla catastrofe che colpisce la terra all’infrangersi dei sette sigilli che solo l’Agnello immolato ha il potere di aprire, per esprimere così il suo potere universale sulla creazione e sulla storia. « Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E uno degli anziani disse: « Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro Pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima ai loro occhi »" (Ap 7,9.14-17). Il protagonista indiscusso di questa scena grandiosa è l’Agnello, che già precedentemente ci era stato presentato come « immolato » (5,6): il che significa che qui egli viene preso come simbolo della sofferenza e del sacrificio. Ed è protagonista non solo perché verso di lui si innalza la celebrazione cosmica, ma anche perché soltanto per merito suo gli eletti ottengono la salvezza: « Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello » (v. 14). Proprio perché egli è l’Agnello sgozzato, è anche Colui che salva; proprio perché si è fatto debole, è il dominatore assoluto dei destini degli uomini! La cosa più strana in questo quadro, infatti, è che l’Agnello « sgozzato » assuma ad un certo punto il ruolo di « pastore », che esercita potere e forza per proteggere il suo gregge. Se è « Agnello », come può essere « Pastore »? Se è debole e bisognoso lui stesso di essere difeso dai lupi, come può difendere gli altri? Qui è tutta la forza drammatica delle immagini antitetiche che l’autore sacro ha tuttavia osato mettere insieme: « Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita » (vv. 16-17). Al di là delle immagini, che non sembrano facilmente componibili, c’è la realtà da esse rappresentata che si impone alla nostra fede, sorpresa e meravigliata: il Cristo, che si è annunziato agli uomini come « buon Pastore » (Gv 10,11), non ha avanzato una pretesa di dominio su di loro, ma solo una proposta di amore e di servizio che arriva fino al dono della vita. « Io sono il buon Pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me… e offro la vita per le pecore » (10,14-15). Quasi a dire che solo facendosi sgozzare egli ha acquistato il diritto di essere capo del suo gregge: egli è diventato « Pastore », perché prima si è fatto trepido e belante « Agnello »! « Immaginiamo Dio ricco e potente e lo è certamente, ma non nel modo in cui lo pensiamo noi: la sua ricchezza non consiste nel possedere ma nel dare, nell’impoverirsi; e non fa uso della sua potenza per imporsi ma per farsi accettare. La liberalità del Figlio manifesta qual è il Padre, povero per eccesso di ricchezza, traboccante di una vita che non cerca di tenere per sé, ma che riversa per liberalità, smisuratamente, in noi, attraverso il Cristo; infatti « egli dona il suo Spirito senza misura » (Gv 3,34). Come esempio di questa generosità, Paolo dice: « Lui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha sacrificato per tutti noi, come potrà non accordarci con lui tutto il resto? » (Rm 8,32). Se Dio non rifiuta di sacrificare ciò che ha di più caro, il proprio Figlio, si deve comprendere che egli non risparmia se stesso, che si spoglia per noi del proprio essere e della propria vita, che dà se stesso a noi mentre ci dà suo Figlio » (J. Moingt).
« I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo » È chiaro che in tutto questo c’è un messaggio di fede per tutti i cristiani, specialmente per coloro che in mezzo al popolo di Dio sono costituiti « pastori »; e più che altro un messaggio di vita. Intendo dire che il nuovo stile di presenza dei cristiani nel mondo dovrà imitare l’atteggiamento di Cristo, che si è fatto Agnello mansueto per farsi accettare come Pastore dagli uomini. Anche noi potremo essere riaccettati da questa civiltà « secolarizzata », se sapremo dimostrare che non abbiamo nessuna volontà di dominarla, ma solo di « servirla », per aiutarla a meglio comprendersi e realizzarsi come una società di fratelli. Perché il « gregge » di Cristo non può rinchiudersi in se stesso, anzi tende necessariamente a dilatarsi. La sua forza di espansione « missionaria » è proporzionata alla vitalità interiore che esso riesce a sprigionare dalla sua fede e dalla sua capacità di amare. È quanto vediamo nella prima lettura (At 13,14.43-52), che ci descrive il successo missionario di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia, accompagnato dalle inevitabili difficoltà: gli Apostoli però non disarmano e, attraverso di loro, « la parola di Dio si diffondeva per tutta la regione » (v. 49). È interessante la conclusione del brano: mentre Paolo e Barnaba, davanti alla persecuzione scatenata contro di loro, se ne vanno a Iconio, « i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo » (v. 52). Quella « gioia » che forse manca a noi, perché non abbiamo ancora imparato che niente avremo da insegnare agli altri, se prima non saremo diventati anche noi « agnelli » sgozzati per l’amore e il servizio dei fratelli, a imitazione di Cristo.
Settimio CIPRIANI (+)
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