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OLIVIER CLÉMENT, BENOIT STANDAERT – PREGARE IL PADRE NOSTRO

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OLIVIER CLÉMENT, BENOIT STANDAERT  – PREGARE IL PADRE NOSTRO

(il testo è molto lungo, metto solo la prima parte, il Pater, il seguito però è da leggere, bellissimo!)

Padre – La prima parola della. preghiera che Gesù ci insegna e che noi diciamo – in un certo senso – con lui, in lui, nel suo Spirito, è Padre: Pater hemon, « Padre di noi ». Fermiamoci innanzitutto su quella che è veramente la prima parola: « Padre ». E una parola che per l’uomo odierno ha una strana risonanza: l’uomo di oggi è orfano, non ha radici al di fuori dello spazio-tempo, si sente smarrito in un universo senza limiti, discende dalla scimmia e va verso il nulla. Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e « repressiva », e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei « genitori ». Gli è stato detto che « Dio Padre » era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un’epoca o in un’ altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa. Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell’interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un’immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L’incesto e l’omosessualità, questi due segni dell’assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell’altro. Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola « Padre » . Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di « seno del Padre », tutta la bibbia ne evoca le « viscere di misericordia », rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli « sente » i figli come una madre « sente » i suoi, con tutto l’essere, con tutta la carne, con le viscere. E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l’altro.

Questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell’amore del Padre Quindi: Padre. Cosa significa per la nostra vita quotidiana? Significa che non siamo mai, assolutamente mai orfani, smarriti, abbandonati alle forze e ai condizionamenti di questo mondo. Abbiamo una risorsa, abbiamo un’origine fuori dello spazio-tempo. Questo universo apparentemente illimitato – ma il tempo ha avuto inizio con il « big bang », ma lo spazio è ricurvo, contenuto, afferma Einstein – questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell’amore del Padre. Le nebulose e gli atomi – anch’essi nebulose – amano il Padre in modo impersonale, con la loro stessa esistenza, ma noi, gli uomini, possiamo amarlo personalmente, rispondergli coscientemente, esprimere la sua parola cosmica: ciascuno di noi quindi, in virtù di questo legame personale con il Padre, è più nobile e più grande del mondo intero. I volti si imprimono al di là delle stelle, nell’amore del Padre. I momenti apparentemente effimeri della nostra vita, ognuno di quegli istanti in cui, come dice il poeta, « abbiamo avuto le vene colme di esistenza », si imprimono per sempre nella memoria amante del Padre. Allora il nichilismo della nostra epoca è sconfitto, l’angoscia che abita il nostro profondo può trasformarsi in fiducia, l’odio in adesione. Ecco cosa bisogna avvertire con forza ogni giorno – e lo dico in modo particolare ai giovani: è bello vivere, vivere è grazia, vivere è gloria, ogni esistenza è benedizione. Mi pare che nella letteratura dei popoli segnati dall’ ortodossia, anche in scrittori non pienamente credenti – come il primo Tolstoj, o i grandi romanzieri siberiani contemporanei, o quel Vassili Grossman autore del mirabile Vita e destino – si ritrovi questo senso della bontà e della bellezza profonda degli esseri e delle cose, la grazia alla radice di ogni cosa, una paternità infinitamente misericordiosa che tutto ama. Ne deriva la capacità meravigliosa, che questi scrittori possiedono, di parlare dei bambini, dell’affetto tra genitori e figli, pregio così raro nella letteratura occidentale contemporanea. .. La nostra teologia e la nostra spiritualità sanno bene che è impossibile imprigionare in parole e in concetti questo mistero dell’origine. Ma Gesù ci svela che questo abisso – di cui parla anche l’India – è un abisso di amore, un abisso paterno. Con Gesù, in lui, nel suo soffio, noi osiamo balbettare: « Abba, Padre », parola di infinita tenerezza infantile: ecco tutto il paradosso cristiano. E Gesù ci rivela che questo paradosso, questa relazione paradossale, non esiste solo nel rapporto del Padre con la creazione, ma in Dio stesso, nel più assoluto dell’assoluto. In Dio stesso c’è l’origine senza origine, e l’Altro filiale, e il soffio di vita e di amore che riposa sull’Altro e lo riconduce all’origine, e noi in lui. In Dio stesso c’è il respiro dell’amore, questo grande mito di unità e di diversità. E noi, a immagine di Dio, siamo trascinati in questo ritmo. Solo che, in Dio, tra l’Origine e il suo Altro filiale, nel Soffio unificante, la risposta d’amore è immediata, la reciprocità d’amore è assoluta. Noi invece abbiamo bisogno del tempo, dello spazio, di una sorta di oscurità per andare verso la Luce e gli uni verso gli altri nello stesso tempo. Spesso noi siamo il figlio prodigo che dissipa i suoi averi con le prostitute, pascola i porci e brama nutrirsi di carrube. Tuttavia anche allora noi sappiamo che il Padre non solo ci attende, ma ci viene incontro. Il mondo non è una prigione bensì un passaggio oscuro – passaggio da attraversare, passaggio da decifrare in un contesto più ampio -, e in questo testo, un testo che redigiamo con Dio, tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario. Se tutto è benedetto dal Padre, dobbiamo, a nostra volta, benedirlo in ogni cosa. Dovremmo cercare di riscoprire, di rinnovare, di vivere interiormente tutte quelle formule di benedizione che la chiesa ci insegna e che associamo alle benedizioni. « E Dio vide che era cosa buona », tob, che significa « buono e bello »; d’altronde la Settanta traduce con kalon, « bello ». Massimo il Confessore ci insegna a fare, in ogni sguardo attento, contemplativo sulle cose, una sorta di esperienza trinitaria: il fatto stesso che una cosa esista, riposi nell’essere, ci rimanda al Padre, « creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili… » (così, del resto, ogni cosa diventa il visibile del!’invisibile); il fatto che possiamo comprenderla, discernere in essa e ricostruire a partire da essa una struttura prodigiosamente « intelligente », ci rimanda al Figlio, Verbo, Sapienza e Ragione del Padre; il fatto che la cosa sia bella, si inserisca dinamicamente in un ordine, tenda verso una pienezza, ci rimanda allo Spirito, al Soffio vivificante, di cui Sergej Bulgakov diceva che è la personificazione della bellezza. Impariamo così a discernere nelle cose la Paternità di Dio, il Padre « con le due sante mani », il Verbo e lo Spirito – come diceva Ireneo di Lione – il Padre con la sua Sapienza e la sua Bellezza. Tuttavia l’esperienza trinitaria più fondamentale si inscrive nell’hemon che segue il Pater, nella seconda parola del Padre Nostro: « Padre – di noi ». Di questo « noi » vorrei sottolineare due cose. La prima è che dobbiamo imparare a discernere il mistero di Dio sul volto del prossimo. L’orrore della storia, soprattutto in questo secolo, è che l’uomo, qui o là, si arroga un potere assoluto sull’uomo. Le ideologie pretendono di spiegare l’uomo, di ridurlo alla razza, alla classe, alla religione, alla cultura. E gli ideologi, « quelli che sanno », si sentono autorizzati, per il bene dell’umanità – così affermano -, a manipolare, condizionare, imprigionare, torturare e uccidere gli uomini. Sbocco, forse, di tutto un pensiero moderno inteso come volontà di carpire (è proprio il significato del termine Begriff, che significa « concetto » in tedesco) . In opposizione a questo dobbiamo capire che l’altro, chiunque sia, fosse pure un pubblicano, una prostituta, un samaritano (per usare i termini di Gesù, per nulla difficili da trasporre), l’altro, qualunque altro, è l’immagine di Dio, il figlio del Padre, altrettanto inspiegabile, altrettanto « inconcettualizzabile » che Dio stesso: la sua migliore definizione è di essere indefinibile. Impariamo a non più maledire, impariamo a non più disprezzare: « non esiste altra virtù che il non disprezzare », affermava un padre del deserto. L’altro è volto, interamente volto. E di fronte a un volto non ho alcun potere: posso soltanto, poiché questo volto è anche parola, cercare di rispondere, diventare re-sponsabile. Questo vale per i rapporti di amore, di amicizia, di collaborazione, vale nella famiglia come nella società, nei rapporti con gli altri cristiani come nella vita politica. Ricordati: non disprezzare! L’altra cosa che vorrei sottolineare, e che d’altronde è inseparabile dalla prima, è il rapporto tra la chiesa e l’umanità. « Padre – di noi »: questo « noi » è soltanto la chiesa in cui siamo tutti « membra gli uni degli altri », secondo la struttura mirabilmente delineata da Vladimir Losskij: un solo corpo, un solo essere in Cristo, e ciascuno che incontra personalmente Gesù, ciascuno illuminato da una fiamma unica della Pentecoste – struttura trinitaria? Non credo. Il Verbo, afferma il prologo di Giovanni, « è la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo ». Si può tradurre anche: « …che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo ». Il Verbo, incarnandosi, ha assunto in sé tutta l’umanità, tutti gli uomini, di ogni luogo e di tutti i tempi. Risuscitando, ha risuscitato tutti gli uomini.

Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con Dio

La chiesa sono coloro, numerosi o scarsi poco importa, che scoprono tutto questo, entrano lucidamente in questa luce e ringraziano. A nome di tutti. La chiesa è il « sacerdozio regale », la « nazione santa » messa a parte per pregare, testimoniare, lavorare per la salvezza di tutti gli uomini. Sappiamo dov’è il cuore della chiesa: nell’ evangelo, nell’ eucaristia. Ma ignoriamo i limiti del suo irradiamento, perché l’eucaristia è offerta « per la vita del mondo ». Non esiste filo d’erba che non cresca nella chiesa, non una costellazione che non graviti attorno ad essa, attorno all’albero della croce, nuovo albero di vita, asse del mondo. Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con il Padre che l’ha creato, con il Figlio, « uomo-estremo », con il Soffio che anima ogni vita. Non esiste un solo uomo che non abbia un’aspirazione alla bontà, un sussulto davanti alla bellezza, un presentimento del mistero davanti all’amore e alla morte. Molti, inondati di gioia, esclameranno nel giorno del giudizio: « Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare… straniero e ti abbiamo accolto, nudo e ti abbiamo vestito? Quando ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a trovarti? ». E si sentiranno rispondere: « In verità vi dico, ogni volta che l’avete fatto a uno di questi piccoli, che sono miei fratelli, l’avete fatto a me! ». E noi, lo facciamo? Nella nostra vita quotidiana allora non facciamo della chiesa una setta o un ghetto. Impariamo a scoprire ovunque i germi di vita. Sappiamo accoglierli nella nostra intelligenza e nel nostro amore, sappiamo immagazzinarli come in granai nella preghiera della chiesa.

Pater hemôn ho en toîs ouranoîs Padre nostro quello nei cieli I « cieli » qui evocano il carattere inaccessibile, abissale del Padre, un Dio al di là di Dio, hypertheos dice Dionigi Areopagita. Ci si accosta a lui sondandone l’assenza, è la teologia negativa di cui parlavo prima; l’intelligenza misura i propri limiti sentendo rumoreggiare, sempre più lontano, l’oceano divino.

Saper guardare l’azzurro, lasciarci invadere, pulire Poi viene il momento in cui cessa ogni attività mentale, quando l’uomo si raccoglie e tace, diventando pura attesa. Nella nostra vita quotidiana è necessario che ci siano attimi di profonda emozione silenziosa. I padri parlano per esempio della sensazione che si impadronisce dell’uomo quando arriva sul bordo di un’alta scogliera, con il mare che si apre vertiginosamente davanti a lui. A volte bisogna sapersi fermare e ascoltare il silenzio, assaporare il silenzio, meravigliarsi, diventare come un calice pronto a essere colmato. Può essere un momento di calma in casa, una stanza in cui si è soli, una chiesa aperta in piena città, una passeggiata nel bosco. Può essere, nell’evangelo che si cerca di leggere ogni giorno, in un salmo, in un testo spirituale, una parola che tocca il cuore, che ci trafigge: allora non si prosegue, ci si ferma in un’attesa silenziosa, a volte colmata… Ma perché è proprio il cielo a fungere da simbolo alla trascendenza? Indubbiamente perché l’azzurro profondo – specialmente nei paesi mediterranei – è contemporaneamente fuori della nostra portata e presente ovunque: tutto avvolge, tutto penetra con la sua luce. Nelle lingue arcaiche il termine corrispondente – « cielo brillante » – indica la divinità. Dobbiamo saper guardare l’azzurro, lasciarcene invadere, lasciarci pulire, fino alle giunture delle nostre ossa. Perché mai molti giovani, che non vanno mai in chiesa, scalano le montagne, questi luoghi elevati, se non per entrare, in qualche modo, nell’azzurro? Perché vanno verso i mari del sud, dove l’acqua e il cielo si confondono in una sfera di pienezza, in una sfera d’azzurro?

« È ritrovata. Cosa? L’eternità. È il mare unito al sole » Eppure la sconvolgente rivoluzione dei tempi moderni fu la scoperta del cielo vuoto e illimitato, in cui né Dio né l’uomo sembrano più aver posto. Il cielo esultante dei salmi e del libro di Giobbe è diventato un’assenza nera. L’insensato di Nietzsche cerca invano Dio in un mondo in cui la terra va irrisoriamente alla deriva, in cui non c’è più né alto né basso, in cui fa sempre più freddo. Allora l’emozione suscitata dall’azzurro brillante rischia di ridursi a uno svago estivo. Il cielo divino va ritrovato altrove. Altrove? Nel « cuore » affermano i nostri asceti. In quel centro più centrale, in quella profondità più profonda in cui tutto il nostro essere si raccoglie e si apre su un abisso di luce: l’azzurro interiore, colore dello zaffiro, come osservava Evagrio Pontico. Uno dei nostri compiti quotidiani è proprio quello di destare in noi le forze del cuore profondo. Siamo soliti vivere nella testa e nel sesso, con il cuore spento. Ma lui solo può essere il crogiuolo in cui si trasfigurano l’intelligenza e il desiderio e, anche se non arriviamo fino all’abisso di luce, ne possono comunque scaturire delle scintille: un sussulto immenso e dolce infiamma il nostro cuore. Dobbiamo ritrovare il senso di questa emozione non emotiva, di questo sentimento non sentimentale, di questa vibrazione pacificante e sconvolgente di tutto l’essere, quando gli occhi si riempiono di lacrime di stupore e di gratitudine, tenerezza ontologica, silenzio colmato. Non riguarda solo i monaci, riguarda umilmente, parzialmente ogni uomo; arriverei a dire che è anche un problema di cultura.

Forze del cuore, amore della bellezza In Reparto C di Solzenicyn, una giovane donna, responsabile di un servizio in un ospedale, chiede al suo superiore, il « vecchio dottore », da dove gli vengano la capacità di simpatia e, indissociabilmente, la sicurezza della diagnosi. Questi le risponde di essere stato a lungo scavato, illuminato dall’amore di una donna; 1′amore infatti, se è la grazia così rara di sapere che un altro esiste, può fendere il « cuore di pietra » e trasformarlo in « cuore di carne ». Ma, aggiunge il « vecchio dottore », sono ormai anni che quella donna è morta. Adesso ha bisogno, in determinati momenti, di ritirarsi, di chiudersi, di fare silenzio in se stesso, di lasciare che il cuore si rappacifichi fino a diventare come un lago immobile sul quale si riflettono la luna e le stelle. Il silenzio e la pace rendono possibile la visita del Padre « che è nei cieli », e sullo specchio del cuore così visitato si inscrive la verità degli esseri e delle cose. Ed è anche una questione di cultura. Abbiamo bisogno di musica, di poesia, di romanzi, di canzoni, di tutta un’arte capace di essere anche arte popolare, in grado di destare le forze del cuore. A volte nel métro, a Parigi, mi raggiunge una canzone degli altipiani latino-americani: segue il confine sinuoso della morte e dell’amore, della rivolta e della celebrazione. È come la grande storia d’amore della letteratura araba: quella di Majnùn e di Laila. Majnùn, il folle, ama Laila, la notte. Laila ama Majnùn ma non gli rivela il proprio mistero e, sotto la forma di una gazzella, scompare nel deserto. Majnùn è ormai destinato all’erranza, e al canto (Queste osservazioni mi sono suggerite dal bel libro di Bernard Feillet, La nuit et le fou, Parigi 1983.). Abbiamo bisogno del canto di Majnùn, abbiamo bisogno di una bellezza che non sia bellezza di possesso, com’è così spesso il caso di oggi, ma proprio di spossesso, e forse di comunione, « la bellezza che crea la comunione », come afferma Dionigi Areopagita. E Giovanni Climaco parla di « quelle musiche profane che conducono alla gioia interiore, all’amore divino, alle sante lacrime ». Il genio del cristianesimo è segretamente « filocalico » e « filocalia » significa » amore della bellezza »: questa bellezza non dev’essere confinata nella liturgia, nel1′ascesi, ma deve risplendere anche nella cultura.

Agiosoritissa (Mother of God) of the 7th century

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Publié dans:immagini sacre |on 8 mars, 2016 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI 21,1-25,12 – LA PASSIONE DI PAOLO

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ATTI DEGLI APOSTOLI 21,1-25,12 – LA PASSIONE DI PAOLO

Usiamo la parola Passione  per aiutare a leggere l’intera sezione. Luca, nei primi 16 versetti, pone in evidenza come nel discepolo si rifletta la passione di Gesù. Nel Vangelo vi sono tre solenni annunci della Passione di Gesù, e qui Luca ne presenta tre che annunziano quella di Paolo. Il primo l’abbiamo già letto nel discorso di addio agli anziani di Efeso: «Lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che catene e tribolazioni mi attendono» (20,23). Durante il viaggio tra Mileto e Cesarea evidenziamo la sosta a Tiro. Qui i cristiani che li accolsero erano già stati avvisati dallo Spirito Santo e perciò dicono a Paolo “di non salire a Gerusalemme”. È logico che Paolo non accetti. “Allora ci accompagnarono verso la nave e, giunti sulla spiaggia ci inginocchiammo e pregammo”. Luca usa il noi perché è presente. “Giunti a Cesarea ci restammo sette giorni, nella casa di Filippo, uno dei sette” (6,5). Ma ecco che dopo alcuni giorni giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Questi prese la cintura di Paolo, si legò mani e piedi e disse: «Così dice lo Spirito Santo: in questo modo i Giudei in Gerusalemme legheranno l’uomo a cui appartiene questa cintura». Luca continua: «Noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non salire a Gerusalemme, ma non riuscimmo a dissuaderlo. Allora dicemmo: “Sia fatta la volontà di Dio”. Vennero con noi anche alcuni discepoli di Cesarea». L’incontro con i cristiani (21,17-25) Al loro arrivo a Gerusalemme “i cristiani li accolsero festosamente”. È facile pensare che si tratta di giudeo-cristiani ellenisti. Non così il giorno dopo quando Paolo si recò da Giacomo. Riuscì a raccontare un po’ “quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo suo”. Un po’. Infatti, l’impressione che dà il testo è che questo non interessava a Giacomo, a lui interessavano solo i giudeo-cristiani: «Essi hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i Giudei, sparsi tra i pagani, di abbandonare Mosè, dicendo di non fare circoncidere più i loro figli e di non seguire più le usanze tradizionali. Che facciamo?». Ascoltando Giacomo dire: “Che facciamo?”, pare di vedere una Chiesa chiusa nella fedeltà alla Legge di Mosè e a quelle tradizioni che, secondo Gesù, impediscono il vero culto a Dio (Mc 7,7). Giacomo invita Paolo a sottomettersi a quei riti di purificazione che ogni buon ebreo deve fare quando dal mondo pagano giunge a Gerusalemme. Paolo con la sua predicazione si era davvero immerso in quel mondo, ma l’aveva santificato con l’annuncio del Vangelo. Comunque, seguendo il suo principio: “farsi ebreo con gli ebrei” (1 Cor 9,21) si sottomise alla purificazione pur sapendo che la si può ottenere solo in Cristo. Ancor più, si sente ricordare da Giacomo la lettera che “lui”, non il Concilio, ha inviato ai pagani di “astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal mangiare sangue, ecc…”. Paolo deve aver costatato con tristezza che i giudeo-cristiani non conoscono ancora la libertà che si ha in Cristo e non sanno che Dio ha reso puro ogni cibo, anche se debbono aver sentito Pietro parlare di quello che gli è capitato a Ioppe e a Cesarea.

Paolo arrestato nel Tempio (21,26-40) Paolo stava concludendo la sua purificazione quando lo videro alcuni giudei della provincia romana dell’Asia. Lo arrestarono e si misero a urlare: «Aiuto! Uomini di Israele. Questo è l’uomo che, ovunque, va insegnando a tutti una dottrina contraria alla Legge e a questo luogo, e ora lo ha profanato introducendo dei pagani». Lo trascinarono fuori e tentavano di ucciderlo quando il comandante della coorte accorse con i soldati, lo liberò dalla folla e lo arrestò. Egli cercò di avere informazioni dalla folla, ma chi diceva una cosa e chi un’altra, mentre il popolo urlava: “A morte, a morte!”. Nel caso di Gesù dicevano: “In croce, in croce!”. I soldati lo portarono via, ma quando stava per entrare nella fortezza, Paolo disse al comandante: «Permettimi di rivolgere la parola al popolo». Glielo permise.

Il discorso di Paolo (22,1-21) Quando la gente udì che parlava in ebraico fece silenzio e Paolo disse: «Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa: Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma educato in questa città ai piedi di Gamaliele nelle più rigide norme della Legge». Gamaliele era un uomo zelante e di grande spiritualità. La tradizione rabbinica dice: “Quando egli morì, la gloria della Legge cessò e la purità e l’astinenza morirono”. Perciò Paolo può dire: «Educato da un così grande maestro ero pieno di zelo per Dio, come lo siete tutti voi oggi. Per questo ho perseguitato fino alla morte coloro che seguono questa Via». Si tratta della via della salvezza insegnata da Gesù, ma egli in coscienza sentiva che doveva perseguitarla e lo faceva con accanimento come «lo può dimostrare il sommo sacerdote e tutti gli anziani. Da loro ho ricevuto lettere per i nostri fratelli in Damasco con l’intenzione di condurre a Gerusalemme i prigionieri che fossi riuscito a fare. Ma mentre mi stavo avvicinando a Damasco una grande luce rifulse dal cielo attorno a me. Caddi a terra e udii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Risposi: “Chi sei, Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti”». Continuò a raccontare la sua chiamata così come l’abbiamo letta in 9,1-18. Ma è interessante annotare come qui, per attirare l’attenzione, qualifica Anania: «Uomo devoto osservante della Legge e di buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti». Ebbene lui mi battezzò e mi disse: «Il Dio dei nostri padri (significativo per gli uditori) ti ha condotto per mano a conoscere la sua volontà e a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua bocca perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito». È un testo molto importante. Esso esprime che la testimonianza che dovrà dare a Gesù tra i pagani è secondo la volontà del Dio dei Padri. Perciò non c’è nessuna rottura con la storia. Per dirla in altre parole: Gesù è la pienezza della Legge, il suo vero compimento. Chi lo rifiuta è in rottura con Dio, non cammina più con Dio nella storia. Con questo Paolo ha spiegato il suo cambiamento da osservante giudeo a cristiano, ma ha ancora una grande esperienza da raccontare. «Quando tornai a Gerusalemme e stavo pregando nel Tempio, entrai in estasi e vidi il Signore che mi diceva: “Affrettati, lascia Gerusalemme perché non accetteranno la tua testimonianza”. E io risposi: “Ma essi sanno che ero solito imprigionare quelli che credono in te e che ho approvato coloro che versavano il sangue di Stefano”. Ma il Signore mi disse: “Va’ perché io ti mando tra i pagani”». A questo punto la folla alzò la voce e urlando disse: “Togli di mezzo costui, non deve vivere”. È risuonato come per Gesù il “Crocifiggilo, Crocifiggilo”.

Cittadino romano (22,24-29) Il comandante lo fece riportare nella fortezza per salvarlo dalla folla, ma comandò che fosse interrogato a colpi di flagello. Voleva capire perché la folla urlava tanto. «Ma Paolo disse al centurione che gli stava accanto: “Avete il diritto di flagellare un cittadino romano?”». Ci si chiede: “Perché Paolo solo ora fa valere la sua cittadinanza romana?”. Ma forse è Luca che ha preferito trattare a parte questo tema. Lo evidenzia solo ora per fare meglio risaltare un dato decisivo che segna una svolta nella vicenda processuale di Paolo al punto da farlo giungere in modo impensato a Roma (23,11). Ora Paolo è sicuro. Nessuno potrà incatenarlo e flagellarlo se prima non è stato giudicato e dichiarato colpevole. È quello che cerca di fare il tribuno convocando i sommi sacerdoti e tutto il Sinedrio.

Paolo di fronte al Sinedrio (23,1-11) L’inizio di questa scena ricorda subito Gesù di fronte al Sinedrio. Appena Paolo si trovò davanti al Sinedrio disse: «Fratelli, io ho vissuto la mia vita in perfetta rettitudine davanti a Dio fino ad oggi». Sentendo questo il sommo sacerdote ordinò di percuoterlo sulla bocca. Gesù davanti al Sinedrio fu schiaffeggiato (Gv 18,22). Paolo continua a difendere la sua innocenza dicendo: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei e oggi sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (v. 6). Queste parole furono una bomba. Paolo lo sapeva che sarebbe stato così (v. 5). Tra gli uditori, infatti, c’erano molti sadducei e farisei. I primi sostengono che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti. I farisei invece sostengono il contrario. Le parole di Paolo suscitarono una tale disputa che rese impossibile la prosecuzione del processo, tanto più che i farisei dichiaravano Paolo innocente. Allora il tribuno comandò ai soldati di scendere e di ricondurre Paolo nella fortezza. La conclusione è che la notte seguente gli si presentò il Signore e gli disse: «Coraggio, come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma». Ma perché questo avvenga ci vorrà ancora molto tempo.

Complotto contro Paolo (22,12-34) L’avventura continua: l’odio dei Giudei era arrivato a un punto tale che alcuni «giurarono solennemente di non toccare né cibo né bevanda fino a che non avessero ucciso Paolo». Si presentarono ai capi dei sacerdoti e dissero: «Voi dovete dire al comandante che ve lo riporti qui col pretesto di esaminare meglio il caso. Noi siamo pronti a ucciderlo prima che arrivi qui». Ma il figlio della sorella di Paolo riuscì a sapere dell’agguato e andò da Paolo e Paolo lo mandò dal centurione che, informatosi bene, fece preparare duecento soldati e settanta cavalieri e di notte fece condurre Paolo fino a Cesarea dal governatore Felice. Con una lettera informò il governatore della situazione e comunicò agli accusatori che deponessero contro Paolo davanti al governatore Felice a Cesarea. Il processo davanti a Felice (24,1-22) Continua a realizzarsi quanto Gesù ha vissuto e annunciato ai suoi discepoli: «Vi perseguiteranno e vi porteranno nelle loro sinagoghe e prigioni, Vi trascineranno davanti a re e governatori a causa del mio nome. Avrete allora occasione per dare testimonianza di me» (Lc 21,12s). Paolo si trova ora davanti a un governatore dopo essere stato presentato davanti al Sinedrio come Gesù. L’accusa è composta dal sommo sacerdote e dagli anziani che ora si servono di un avvocato chiamato Tertullo, il quale comincia a parlare lodando il governatore come uomo di pace per poi accusare Paolo come un sedizioso. Dice infatti: «Abbiamo scoperto che quest’uomo è una peste che fomenta continui dissensi tra i giudei che sono nel mondo. Egli è il capo della setta dei Nazorei e ha tentato di profanare il Tempio. Per questo l’abbiamo arrestato». Paolo non ha un avvocato, ma sa difendersi: «Sono solo dodici giorni che mi sono recato a Gerusalemme per il culto e nessuno mi ha trovato nel Tempio a discutere con qualcuno. È vero che è secondo la “Via”, che loro chiamano setta, che io adoro il Dio dei miei antenati… Dopo molti anni di assenza sono venuto a offrire sacrifici e mentre ero impegnato nei riti di purificazione alcuni Giudei della provincia di Asia mi incontrarono. Sono loro i testimoni oculari che dovrebbero comparire davanti a te. Questi invece non hanno alcun motivo per farlo a meno che si tratti di ciò che gridai davanti a loro: “È a motivo della risurrezione dai morti che vengo giudicato davanti a voi”». Il governatore Felice capì quello che Lisia gli aveva scritto: «L’ho condotto davanti al Sinedrio e mi sono accorto che le accuse riguardavano questioni della loro Legge e che non c’erano imputazioni meritevoli di morte o di prigione. Lo mando da te solo per salvarlo da un complotto contro di lui». Anche il governatore ora ha le stesse convinzioni. Interrompe la seduta e la aggiorna alla venuta del comandante Lisia, mai avvenuta.

Conoscere la Via (24,23-27) Ora Paolo è veramente più libero. Il governatore infatti diede ordine al centurione che Paolo venisse custodito e che la sua prigionia risultasse mitigata senza impedire ai suoi di prestargli servizio. E forse è dalla conoscenza delle persone che frequentavano Paolo, che lui e la sua convivente Drusilla incominciarono a frequentarlo, sperando di avere da lui del denaro. Ma Paolo conosceva la loro vita dissoluta (Drusilla infatti era stata rubata a suo marito per mezzo di un mago) e ne approfittò per approfondire con loro la “Via” cioè la dottrina della fede cristiana. Qualcosa già conoscevano e l’approfondimento dovette procedere bene fino a quando Paolo incominciò a parlare di giustizia, di continenza e di giudizio. La conseguenza è che il governatore non discusse più con Paolo e che il suo ultimo atto di governatore nei riguardi di Paolo fu un’ingiustizia. Paolo avrebbe dovuto essere lasciato libero perché non si trovò nessun motivo di condanna contro di lui. Ma Felice lasciò Paolo in prigione per fare un piacere ai Giudei e consegnò il suo mandato nelle mani di Porcio Festo.

Paolo si appella a Cesare (25,1-12) Con il nuovo governatore i capi dei Giudei tornarono alla carica e gli chiesero di trasferire Paolo a Gerusalemme. Questo perché avevano disposto un tranello per ucciderlo durante il trasferimento. Festo dispose che il giudizio si facesse a Cesarea. Allora i Giudei scesero a Cesarea e gli imputarono numerose e gravi colpe senza riuscire a provarle, mentre Paolo disse: «Non ho commesso alcuna colpa né contro la Legge, né contro il Tempio, né contro Cesare». Festo allora per dimostrare ai Giudei che voleva aiutarli, chiese a Paolo se voleva salire a Gerusalemme per essere processato là. Ma Paolo tirò fuori i suoi diritti di cittadinanza romana e rispose: «Mi trovo davanti al tribunale di Cesare. Nessuno ha il diritto di consegnarmi a loro. Mi appello a Cesare». E Festo a lui: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai». La parola di Gesù: «Devi darmi testimonianza anche a Roma» adesso può diventare realtà. Al di là di tutte le trame umane è sempre il Signore che ha l’ultima parola. E Paolo continua a sperimentare che davvero cammina con Cristo nella Storia.

Preghiamo Signore, com’è stato bello vedere trasparire il tuo volto sul volto di Paolo. Adesso si comprende perché Paolo abbia detto ai cristiani: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo». Ma questo, quando, con la nostra vita, noi sacerdoti riusciremo a dirlo ai fedeli? Signore, insegnaci la contemplazione di te quando meditiamo il tuo Vangelo e allora, a poco a poco, riusciremo a imitarti sempre più e compiremo la volontà del Padre che vuole renderci simili a te. Ora ti rivolgiamo questa preghiera pensando ai destinatari della nostra missione: hanno bisogno di vederci come veri modelli del gregge, sottoposti all’azione dello Spirito. Signore Gesù, ascoltaci! Amen!

 Mario Galizzi

BENEDETTO XVI – LA BENEDIZIONE DIVINA PER IL DISEGNO DI DIO PADRE (EF 1,3-14)

http://www.vatican.va/latest/sub_index/hf_ben-xvi_aud_20120620_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 20 Giugno 2012

LA BENEDIZIONE DIVINA PER IL DISEGNO DI DIO PADRE (EF 1,3-14)

Cari fratelli e sorelle,

la nostra preghiera molto spesso è richiesta di aiuto nelle necessità. Ed è anche normale per l’uomo, perché abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno di Dio. Così per noi è normale richiedere da Dio qualcosa, cercare aiuto da Lui; e dobbiamo tenere presente che la preghiera che il Signore ci ha insegnato, il «Padre nostro», è una preghiera di richiesta, e con questa preghiera il Signore ci insegna le priorità della nostra preghiera, pulisce e purifica i nostri desideri e così pulisce e purifica  il nostro cuore. Quindi se di per sé è normale che nella preghiera richiediamo qualcosa, non dovrebbe essere esclusivamente così. C’è anche motivo di ringraziamento, e se siamo un po’ attenti vediamo che da Dio riceviamo tante cose buone: è così buono con noi che conviene, è necessario, dire grazie. E deve essere anche preghiera di lode: se il nostro cuore è aperto, vediamo nonostante tutti i problemi anche la bellezza della sua creazione, la bontà che si mostra nella sua creazione. Quindi, dobbiamo non solo richiedere, ma anche lodare e ringraziare: solo così la nostra preghiera è completa. Nelle sue Lettere, san Paolo non solo parla della preghiera, ma riporta preghiere certamente anche di richiesta, ma anche preghiere di lode e di benedizione per quanto Dio ha operato e continua a realizzare nella storia dell’umanità. E oggi vorrei soffermarmi sul primo capitolo della Lettera agli Efesini, che inizia proprio con una preghiera, che è un inno di benedizione, un’espressione di ringraziamento, di gioia. San Paolo benedice Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, perché in Lui ci ha fatto «conoscere il mistero della sua volontà» (Ef 1,9). Realmente c’è motivo di ringraziare se Dio ci fa conoscere quanto è nascosto: la sua volontà con noi, per noi; «il mistero della sua volontà».  «Mysterion», «Mistero»: un termine che ritorna spesso nella Sacra Scrittura e nella Liturgia. Non vorrei adesso entrare nella filologia, ma nel linguaggio comune indica quanto non si può conoscere, una realtà che non possiamo afferrare con la nostra propria intelligenza. L’inno che apre la Lettera agli Efesini ci conduce per mano verso un significato più profondo di questo termine e della realtà che ci indica. Per i credenti «mistero» non è tanto l’ignoto, ma piuttosto la volontà misericordiosa di Dio, il suo disegno di amore che in Gesù Cristo si è rivelato pienamente e ci offre la possibilità di «comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo» (Ef 3,18-19). Il «mistero ignoto» di Dio è rivelato ed è che Dio ci ama, e ci ama dall’inizio, dall’eternità. Soffermiamoci quindi un po’ su questa solenne e profonda preghiera. «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 1,3). San Paolo usa il verbo «euloghein», che generalmente traduce il termine ebraico «barak»: è il lodare, glorificare, ringraziare Dio Padre come la sorgente dei beni della salvezza, come Colui che «ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo». L’Apostolo ringrazia e loda, ma riflette anche sui motivi che spingono l’uomo a questa lode, a questo ringraziamento, presentando gli elementi fondamentali del piano divino e le sue tappe. Anzitutto dobbiamo benedire Dio Padre perché – così scrive san Paolo – Egli «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (v. 4). Ciò che ci fa santi e immacolati è la carità. Dio ci ha chiamati all’esistenza, alla santità. E questa scelta precede persino la creazione del mondo. Da sempre siamo nel suo disegno, nel suo pensiero. Con il profeta Geremia possiamo affermare anche noi che prima di formarci nel grembo della nostra madre Lui ci ha già conosciuti (cfr Ger 1,5); e conoscendoci ci ha amati. La vocazione alla santità, cioè alla comunione con Dio appartiene al disegno eterno di questo Dio, un disegno che si estende nella storia e comprende tutti gli uomini e le donne del mondo, perché è una chiamata universale. Dio non esclude nessuno, il suo progetto è solo di amore. San Giovanni Crisostomo afferma: «Dio stesso ci ha resi santi, ma noi siamo chiamati a rimanere santi. Santo è colui che vive nella fede» (Omelie sulla Lettera agli Efesini, 1,1,4). San Paolo continua: Dio ci ha predestinati, ci ha eletti ad essere «figli adottivi, mediante Gesù Cristo», ad essere incorporati nel suo Figlio Unigenito. L’Apostolo sottolinea la gratuità di questo meraviglioso disegno di Dio sull’umanità. Dio ci sceglie non perché siamo buoni noi, ma perché è buono Lui. E l’antichità aveva sulla bontà una parola: bonum est diffusivum sui; il bene si comunica, fa parte dell’essenza del bene che si comunichi, si estenda. E così poiché Dio è la bontà, è comunicazione di bontà, vuole comunicare; Egli crea perché vuole comunicare la sua bontà a noi e farci buoni e santi. Al centro della preghiera di benedizione, l’Apostolo illustra il modo in cui si realizza il piano di salvezza del Padre in Cristo, nel suo Figlio amato. Scrive: «mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1,7). Il sacrificio della croce di Cristo è l’evento unico e irripetibile con cui il Padre ha mostrato in modo luminoso il suo amore per noi, non soltanto a parole, ma in modo concreto. Dio è così concreto e il suo amore è così concreto che entra nella storia, si fa uomo per sentire che cosa è, come è vivere in questo mondo creato, e accetta il cammino di sofferenza della passione, subendo anche la morte. Così concreto è l’amore di Dio, che partecipa non solo al nostro essere, ma al nostro soffrire e morire.  Il Sacrificio della croce fa sì che noi diventiamo «proprietà di Dio», perché il sangue di Cristo ci ha riscattati dalla colpa, ci lava dal male, ci sottrae alla schiavitù del peccato e della morte. San Paolo invita a considerare quanto è profondo l’amore di Dio che trasforma la storia, che ha trasformato la sua stessa vita da persecutore dei cristiani ad Apostolo instancabile del Vangelo. Riecheggiano ancora una volta le parole rassicuranti della Lettera ai Romani: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?… Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura, potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-32.38-39). Questa certezza – Dio è per noi, e nessuna creatura può separarci da Lui, perché il suo amore è più forte – dobbiamo inserirla nel nostro essere, nella nostra coscienza di cristiani. Infine, la benedizione divina si chiude con l’accenno allo Spirito Santo che è stato effuso nei nostri cuori; il Paraclito che abbiamo ricevuto come sigillo promesso: «Egli – dice Paolo – è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria» (Ef 1,14). La redenzione non è ancora conclusa – lo sentiamo -, ma avrà il suo pieno compimento quando coloro che Dio si è acquistato saranno totalmente salvati. Noi siamo ancora nel cammino della redenzione, la cui realtà essenziale è data con la morte e la resurrezione di Gesù.  Siamo in cammino verso la redenzione definitiva, verso la piena liberazione dei figli di Dio. E lo Spirito Santo è la certezza che Dio porterà a compimento il suo disegno di salvezza, quando ricondurrà «al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10). San Giovanni Crisostomo commenta su questo punto: «Dio ci ha eletti per la fede ed ha impresso in noi il sigillo per l’eredità della gloria futura» (Omelie sulla  Lettera agli Efesini 2,11-14). Dobbiamo accettare che il cammino della redenzione è anche un cammino nostro, perché Dio vuole creature libere, che dicano liberamente sì; ma è soprattutto e prima un cammino Suo. Siamo nelle Sue mani e adesso è nostra libertà andare sulla strada aperta da Lui. Andiamo su questa strada della redenzione, insieme con Cristo e sentiamo che la redenzione si realizza. La visione che ci presenta san Paolo in questa grande preghiera di benedizione ci ha condotto a contemplare l’azione delle tre Persone della Santissima Trinità: il Padre, che ci ha scelti prima della creazione del mondo, ci ha pensato e creato; il Figlio che ci ha redenti mediante il suo sangue e lo Spirito Santo caparra della nostra redenzione e della gloria futura. Nella preghiera costante, nel rapporto quotidiano con Dio, impariamo anche noi, come san Paolo, a scorgere in modo sempre più chiaro i segni di questo disegno e di questa azione: nella bellezza del Creatore che emerge dalle sue creature (cfr Ef 3,9), come canta san Francesco d’Assisi: «Laudato sie mi’ Signore, cum tutte le Tue creature» (FF 263). Importante è essere attenti proprio adesso, anche nel periodo delle vacanze, alla bellezza  della creazione e vedere trasparire in questa bellezza il volto di Dio. Nella loro vita i Santi mostrano in modo luminoso che cosa può fare la potenza di Dio nella debolezza dell’uomo. E può farlo anche con noi. In tutta la storia della salvezza, in cui Dio si è fatto vicino a noi e attende con pazienza i nostri tempi, comprende le nostre infedeltà, incoraggia il nostro impegno e ci guida. Nella preghiera impariamo a vedere i segni di questo disegno misericordioso nel cammino della Chiesa. Così cresciamo nell’amore di Dio, aprendo la porta affinché la Santissima Trinità venga ad abitare in noi, illumini, riscaldi, guidi la nostra esistenza. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23), dice Gesù promettendo ai discepoli il dono dello Spirito Santo, che insegnerà ogni cosa.  Sant’Ireneo ha detto una volta che nell’Incarnazione  lo Spirito Santo si è abituato a essere nell’uomo. Nella preghiera dobbiamo noi abituarci a essere con Dio. Questo è molto importante, che impariamo a essere con Dio, e così vediamo come è bello essere con Lui, che è la redenzione. Cari amici, quando la preghiera alimenta la nostra vita spirituale noi diventiamo capaci di conservare quello che san Paolo chiama «il mistero della fede» in una coscienza pura (cfr 1 Tm 3,9). La preghiera come modo dell’«abituarsi» all’essere insieme con Dio, genera uomini e donne animati non dall’egoismo, dal desiderio di possedere, dalla sete di potere, ma dalla gratuità, dal desiderio di amare, dalla sete di servire, animati cioè da Dio; e solo così si può portare luce nel buio del mondo. Vorrei concludere questa Catechesi con l’epilogo della Lettera ai Romani. Con san Paolo, anche noi rendiamo gloria a Dio perché ci ha detto tutto di sé in Gesù Cristo e ci ha donato il Consolatore, lo Spirito di verità. Scrive san Paolo alla fine della della Lettera ai Romani: «A colui che ha il potere di confermarvi nel mio Vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le Scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti, perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen» (16,25-27). Grazie.

 

The Return of the Prodigal Son (1773) by Pompeo Batoni

The Return of the Prodigal Son (1773) by Pompeo Batoni dans immagini sacre 800px-Pompeo_Batoni_003

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COMMENTO A COR 5,17-21 DI MARIE-NOËLLE THABUT

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COMMENTAIRES DE MARIE-NOËLLE THABUT, DIMANCHE 6 MARS 2016

DEUXIEME LECTURE – DEUXIÈME LETTRE DE SAINT PAUL AUX CORINTHIENS  5, 17-21

(traduzione Google dal francese)

La difficoltà di questo testo è che siamo in grado di comprendere i due modi. Tutto può giocare sulla frase che si trova al centro Dio « cancellata per tutti gli uomini a causa dei loro peccati. » Questo può significare due cose: o prima ipotesi, fin dall’inizio del mondo, Dio contato i peccati degli uomini. Ma nella sua grande misericordia, ha ancora accettato di eliminare questo account a causa del sacrificio di Gesù Cristo. Questo è chiamato « sostituzione ». Gesù sarebbe venuto al nostro sito il peso di questo conto troppo pesante. Oppure, seconda ipotesi, Dio non ha mai fatto alcun conto del peccato dell’uomo e Cristo è venuto nel mondo per dimostrarlo. Per mostrarci che Dio è sempre amore e perdono. Come già detto il Salmo 102/103 ben prima della venuta di Cristo, « Dio mette via da noi i nostri peccati. » Ora tutto il lavoro della rivelazione biblica è proprio quello di farci passare dal primo al secondo ipotesi. Quindi dovremo porci tre domande: prima Dio mantiene i conti con noi? In secondo luogo, si può parlare di « sostituzione » per la morte di Cristo? In terzo luogo, se Dio non fa i conti con noi, se non possiamo parlare di « sostituzione » per la morte di Cristo, quindi come capire quale testo di Paolo? In primo luogo, non tiene conto di Dio con noi? Un contabile Dio è un’idea che nasce spontaneamente in mente probabilmente perché siamo un po ‘noi stessi contabili contro gli altri? Questa idea è stato senza dubbio quello del popolo eletti per la prima storia dell’Alleanza; non c’è da stupirsi: per che l’uomo scopre Dio col suo vero volto, Dio deve essere rivelato a lui. E vediamo Domenica dopo Domenica, il lavoro della rivelazione biblica. Cominciamo con Abramo, Dio non ha mai parlato di peccato con lui; Le disse Alleanza promessa di benedizione, progenie: troviamo la parola « merito » da nessuna parte. Le note della Bibbia « Abramo ebbe fede nel Signore e gli fu accreditato come giustizia » (Genesi 15: 6). La fede, la fiducia è l’unica cosa che conta. Il nostro comportamento seguirà. Dio non è nei conti: questo non significa che ora possiamo fare nulla; manteniamo la nostra piena responsabilità nella costruzione del Regno. Oppure, ricordiamo le successive rivelazioni di Dio a Mosè, in particolare il « Signore misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia »; e poi David che ha scoperto (in occasione del suo peccato appunto) che il perdono di Dio precede anche il nostro pentimento. O quella magnifica frase in cui Isaia ci dice che Dio sarà sempre sorprende perché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, proprio perché è solo il perdono per i peccatori. (Is 55: 6-8) Impossibile elencare tutto, ma l’Antico Testamento già capito che Dio è la compassione e il perdono e non dimenticare che il popolo di Israele, chiamato Dio « Padre » di fronte a noi. La favola di Jonas esempio è stato scritto solo per noi, non dimenticare che Dio è interessato al destino di questi pagani di Ninive, nemici ereditari del suo popolo. Seconda domanda, si può parlare di « sostituzione » per la morte di Cristo? Ovviamente, Dio non tener conto, in modo da quindi non abbiamo nessun debito da pagare, non abbiamo bisogno di Gesù ci ha la precedenza; D’altra parte, quando i testi del Nuovo Testamento parla di Gesù, si parla di solidarietà, ma senza sostituzione; e inoltre, se qualcuno potesse fare per noi, dove sarebbe la nostra libertà? Gesù non agisce al posto nostro; non sostituisce noi; non è il nostro rappresentante; Gesù è il nostro fratello maggiore, il « primogenito », come dice Paolo, il nostro pioniere, egli apre la porta, va a nostra testa; si mescola con i peccatori che chiedono il battesimo di Giovanni; sulla Croce egli accetterà di morire a causa della odio per gli uomini: egli si avvicina a noi in modo che possiamo avvicinarci a lui. Terza domanda: ma allora, come capire il nostro testo Paolo oggi? Prima condanna, Dio non ha mai fatto alcun conto i peccati degli uomini; seconda convinzione, Cristo è venuto nel mondo per dimostrarlo. Come disse a Pilato: « Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità ». Vale a dire, per mostrarci che Dio è sempre amore e perdono. Quando Paolo dice « cancellati tutti gli uomini a causa dei loro peccati », cioè nella nostra testa che cancella idee sbagliate circa il nostro Dio commercialista. I rimbalzi domanda: perché Gesù è morto? Cristo è venuto a testimoniare questo Dio d’amore tra i suoi contemporanei; si asciugò il rifiuto di quella rivelazione; e ha accettato di morire per aver troppo audaci, sono stato troppo imbarazzante per le autorità di posto che conoscevano meglio di lui era Dio. Morì di questo orgoglio degli uomini che hanno trasformato in odio, senza grazie. Anche all’interno di questo sfogo di orgoglio, ha sofferto l’umiliazione; in odio, aveva solo parole di perdono. Questo è il vero volto di Dio, infine, esposto allo sguardo degli uomini. « Chi ha visto me ha visto il Padre » (disse a Filippo, Giovanni 14: 9). Si capisce meglio allora la frase: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio per noi il peccato umano identificato, in modo che per mezzo di lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. « Sul volto di Cristo sulla croce, contempliamo fino a che punto l’orrore del peccato umano; ma fino a che punto sarà la dolcezza e il perdono di Dio. E questo può anche contemplare la nostra conversione. « Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto » già detto Zaccaria (Zc 12,10), tratto da San Giovanni (Gv 19, 37). Così i nostri cuori di pietra finalmente diventano cuori di carne, come dice Ezechiele, vale a dire, piena di dolcezza e di perdono di simile. Per ora rivolgersi a diventare i nostri ambasciatori per il messaggio.

6 MARZO 2016 | 4A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/2016/03-Quaresima_C/Omelie/04a-Domenica-Quaresima-C/14-04a-Domenica-C_2016-SC.htm

6 MARZO 2016 | 4A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

PARABOLA DEL FIGLIO PRODIGO O DEL PADRE MISERICORDIOSO « UN UOMO AVEVA DUE FIGLI… »

La Liturgia odierna è percorsa da una vibrazione di gioia, pur nell’austerità sostenuta del clima quaresimale riproposto puntualmente dal contenuto delle letture bibliche: nello sfondo, infatti, c’è sempre il dramma del peccato che allontana da Dio e dissocia dai fratelli (Vangelo), il ricordo della schiavitù egiziana ormai superata con il primo ingresso nella Terra promessa ad opera di Giosuè (1ª lettura), la necessità di « riconciliarci con Dio » passando per la via della Croce al seguito di Cristo (2ª lettura). Ciò nonostante, c’è in tutti questi brani una tensione verso il superamento dell’esperienza del male per celebrare l’amore perdonante di Dio e la riconciliazione con i fratelli. Di qui l’invito alla « gioia » che già risuona nella solenne antifona d’ingresso: « Rallègrati (Laetare), Gerusalemme… Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza… » (cf Is 66,10-11). Il Salmo responsoriale riprende questa tematica in chiave di ringraziamento: « Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode… » (Sal 34,2). Perciò questa Domenica si chiama anche « Domenica Laetare ». Tutto questo poi ritorna come motivo dominante al termine della parabola del « figliol prodigo »: « Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (Lc 15,32). Come si vede, è una gioia che nasce dalla sofferenza e dal dramma: ma appunto per questo è anche più grande, proprio perché gioia sofferta! « Vistolo da lontano, il padre commosso gli corse incontro » La parabola del figliol prodigo, che forse sarebbe meglio chiamare del « figlio ritrovato » per sottolineare di più l’aspetto positivo di tutta questa storia, è la terza delle tre « parabole della misericordia » che Luca raggruppa insieme (cap. 15) certamente per sottolineare con maggior forza l’amore di Dio per i peccatori. Le altre sono quelle della pecora smarrita e della dramma perduta (15,4-10). Come risulterà però dal commento che stiamo per fare, la nostra parabola non ribadisce soltanto il messaggio delle altre due, ma lo arricchisce, presentandoci un quadro di tensioni umane estremamente forte e soprattutto carico di allusioni polemiche. Più che le altre, infatti, la parabola del figliol prodigo intende rispondere all’accusa che rivolgono a Gesù i farisei e gli scribi di essere l’amico dei pubblicani e dei peccatori: « Costui riceve i peccatori e mangia con loro » (v. 2). E in realtà, se scorriamo il Vangelo, Gesù sta più volentieri con la gente perduta che con la « gente per bene »: si pensi a Matteo il pubblicano, all’adultera, alla Samaritana, a Zaccheo, ecc. È questa la sua missione: « Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto » (Lc 19,10). Per chi si riteneva già « salvato », come i farisei, era uno scandalo che Gesù avesse invece preferenza per i peccatori: se era vero che egli veniva da Dio, non poteva mescolarsi con la gente perduta. Dio deve pur premiare chi osserva la sua « legge » e punire chi se ne allontana! La parabola del figliol prodigo è una risposta a questi sottesi pensieri dei suoi ascoltatori. Il protagonista è il padre, che fa da punto di raccordo fra la prima e la seconda parte. La prima parte ci descrive la storia del figlio più giovane che, chiesta la sua porzione di eredità, se ne va lontano e la sperpera « vivendo da dissoluto » (v. 13). Costretto perfino a contendere il cibo ai porci (v. 16), alla fine « rientra in se stesso » (v. 17), si pente e ritorna alla casa paterna. Si attendeva niente più che di essere annoverato tra i « garzoni » di famiglia, e invece il padre, appena vistolo da lontano, « commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò » (v. 20). Quindi ordinò ai servi di rivestirlo con gli abiti migliori e di fare una grande festa, « perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (v. 24). La seconda parte ci descrive la reazione del figlio « per bene », che è sempre rimasto in casa a fare il suo dovere, come egli ci tiene a dichiarare. Appena ritornato dalla campagna e vista tutta quella festa, informatosi dell’accaduto, « s’indignò e non voleva entrare » (v. 28). Al padre che va ad invitarlo, egli rinfaccia la sua troppa bontà: « Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso » (vv. 29-30). Egli non si sente per niente interessato alla sorte del fratello: le parole aspre che adopera nei suoi riguardi tendono ad allontanarlo ancora, almeno dal suo cuore, e, se potesse, anche dal cuore del padre. Egli si sente come deprezzato nella sua fedeltà: tanto vale, allora, essere cattivi e dissoluti come è stato suo fratello! Non v’è dubbio che, misurando le cose con le strette bilance della giustizia umana, egli ha ragione.

« Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo » Ma è proprio qui il capovolgimento introdotto da Cristo nei nostri rapporti con Dio: egli li sottrae ad una misura di stretta giustizia, per collocarli su un piano di amore e di perdono. Solo in questa maniera potranno salvarsi gli uomini, anche quelli che si ritengono giusti e invece sono parziali, egoisti, ingenerosi, come si manifesta precisamente il fratello maggiore. Che anche egli sia cattivo, addirittura più cattivo del fratello, appare dal fatto che per tanti anni non ha saputo accorgersi della fortuna di poter stare sempre con il padre. Per lui la festa dell’amore c’è stata sempre, senza che neppure se ne accorgesse: « Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (vv. 31-32). Non conviene allora dilatare la festa e gioire perché anche altri, che erano lontani o sono andati lontano, hanno ritrovato la via di casa e hanno riscoperto il volto dell’amore? « La parabola del figliol prodigo non ha, quindi, come primo scopo quello di annunziare la Buona Novella ai poveri, ma, piuttosto, di giustificarla di fronte a coloro che la criticano. La giustificazione di Gesù è proprio questo amore sconfinato di Dio. Gesù, però, non si limita all’apologia. La parabola si arresta bruscamente, l’esito rimane aperto. Ed è qui che dovette rispecchiarsi la realtà che Gesù aveva davanti a sé. I suoi ascoltatori sono nella situazione del figlio maggiore che ora deve decidere se accettare la spiegazione datagli dal padre e partecipare anch’egli alla festa. Gesù non li condanna ancora, conserva una speranza e li vuole aiutare a vincere lo scandalo dell’Evangelo, a riconoscere che la loro « giustizia » e il loro egoismo li separa da Dio, affinché abbiano a trovare la grande gioia che l’Evangelo reca con sé (v. 32a). La difesa della Buona Novella si presenta contemporaneamente come un rimprovero e un tentativo di conquistare i cuori dei suoi avversari ». Come si vede, la parabola è più provocatoria che consolatoria, nel senso cioè che, annunciando il perdono di Dio, invita tutti noi a riconoscerci peccatori e a non vantarci di pretese nostre « giustizie » o meriti davanti a lui. Se non fosse lui ad aprire la porta del suo amore, né il figliol prodigo né quello che si riteneva buono potrebbero entrare nella sala del banchetto. È una buona lezione per tutti noi, in questo tempo di Quaresima, a « convertirci » alla gratuità del suo amore.

« È stato Dio a riconciliare a sé il mondo » A questa medesima lezione ci rimanda il densissimo brano paolino, ripreso dalla 2ª Lettera ai Corinzi (5,17-21), sul quale vorremmo intrattenerci per un attimo. Mi sembra che il pensiero fondamentale sia che Dio continua a salvare gli uomini « riconciliandoli » a sé in Cristo mediante la « predicazione apostolica », che viene fatta in suo nome e per suo incarico, così come fa un « ambasciatore »: « È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio » (vv. 19-20). Non è l’uomo che può « riconciliarsi » con Dio, proprio perché egli porta con sé il peso del peccato che, in quanto tale, è segno di inimicizia e di rottura: soltanto Dio può prendere l’iniziativa di « riconciliare a sé il mondo », cioè l’uomo e tutta la creazione che questi ha manipolato e corrotto, riabbracciandolo in un grande amplesso di amore e di perdono, come fece il padre con il figliol prodigo. Questo abbraccio di Dio, poi, gli è come strappato dal momento che Cristo è diventato nostro « fratello » e si è offerto al Padre sottomettendosi in tutto alla sua volontà: così egli si è fatto come « portatore » di tutti i peccati degli uomini, bruciandoli nel suo ardore di carità e di donazione. Si intravede in tal modo il significato profondo delle espressioni fortissime di Paolo, che concludono il brano odierno: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » (v. 21). Noi diventiamo « giustizia di Dio », cioè santità, per mezzo di Cristo che si fa « peccato » per noi! È ancora, in trasparenza, la storia del figliol prodigo: il grande amore di Dio sa vincere tutte le ripulse, le fughe, gli egoismi, le chiusure degli uomini e anche le presunzioni stupide e glaciali di chi si presume migliore degli altri.

Settimio CIPRIANI  (+)

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