Archive pour mars, 2016

FILIPPESI 3, 8-14

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COMMENTAIRES DE MARIE-NOËLLE THABUT, DIMANCHE 13 MARS 2016

DEUXIEME LECTURE – LETTRE DE SAINT PAUL AUX PHILIPPIENS  3, 8 – 14

(traduzione Google dal francese)

Qui troviamo l’immagine della corsa che san Paolo usa più volte nelle sue lettere. E in gara, è l’obiettivo che conta! Il punto di partenza, si deve fare in fretta a dimenticare! Immaginate un corridore che avrebbe trasformato senza fermarsi, è garantito da perdere, « Solo una cosa questioni: dimenticando ciò che sta dietro e proteso in avanti verso la parte anteriore, corro verso la meta per il premio … » Abbiamo bisogno di sapere voltare le spalle in qualche modo: e da quando è stato « sequestrato » da Cristo, come dice lui, Paul voltò le spalle a molte cose, in molte certezze. La parola « sequestrato » è molto forte nel linguaggio di Paolo: la sua vita era in realtà abbastanza sconvolto dal giorno in cui Cristo fu letteralmente lo prese sulla via di Damasco. Di solito, però, Paolo ha presentato la sua fede cristiana come la continuazione logica della sua fede ebraica. Ai suoi occhi, Gesù Cristo veramente soddisfatto le aspettative del Vecchio Testamento e non vi è continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento: per esempio, durante il suo processo davanti al tribunale romano a Cesarea, ha detto:  » Mosè ei profeti hanno previsto quello che doveva accadere (vale a dire che Gesù è il Messia) e non dico altro … « (At 26, 22). Ma qui, Paolo sottolinea la novità portata da Gesù Cristo: « Tutti i vantaggi che avevo prima, li considerano ora come un perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio ??Signore.  » La novità portata da Gesù Cristo, è radicale: ora siamo veramente una « nuova creazione »; questa espressione, ci siamo incontrati Domenica scorsa nella seconda lettera ai Corinzi; Qui, Paolo dice il contrario: « Grazie a lui, ho perso tutto; Considero tutto come rifiuti, per l’unico vantaggio, Cristo, nel quale Dio mi riconosce come diritto. « Tradurre: » ciò che prima mi sembrava più importanti, i miei vantaggi, i miei privilegi, ora non importa più a me che lo sterco « . Questi « benefici » di cui egli parla: era l’orgoglio di appartenenza al popolo d’Israele; era la fede, la fedeltà, inestirpabile, la speranza di questo popolo; è stata la pratica regolare, scrupolosa di tutti i comandamenti, che egli chiama « l’obbedienza alla legge di Mosè ». Ma ora, Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita: « Tutto io reputo una rifiutare per un guadagno di Cristo ». Ora possiede la proprietà che supera tutto, l’unica ricchezza in tutto il mondo ai suoi occhi: « conoscenza » di Cristo; per parlare di questo, Gesù impiegato parabole: per esempio ha detto « il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo, il quale un uomo ha scoperto: lo nasconde di nuovo, e nella sua gioia che se ne va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. « (Mt 13, 44). Il vero tesoro della nostra vita, dice San Paolo, è quello di aver scoperto Cristo; e sa di che parla, lui che è stato il primo persecutore degli apostoli! La sua vita è stata sconvolta da questa scoperta, da questa « conoscenza » di Cristo. Una conoscenza che non è intellettuale: in senso biblico, sapendo che qualcuno sta vivendo nella sua intimità, è quello di amare e condividere la sua vita. E ‘in questo senso di intimità condivisa che Paolo parla del legame che unisce la società, e con lui tutti i battezzati in Gesù Cristo. Perché è così insistente su di esso? Perché siamo nel contesto di un conflitto molto grave che ha attraversato la comunità Filippesi sulla circoncisione; abbiamo già incontrato qualche settimana fa: alcuni cristiani di origine ebraica ci avrebbe voluto imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo; è la circoncisione che pensa quando parla di « obbedienza alla Legge di Mosè »; in che modo sappiamo Apostoli affrontato la questione che minacciava di dividere le comunità, nel corso di un incontro a Gerusalemme, un mini-consiglio: nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè viene superato; Battesimo nel Nome di Gesù ‘ci ha fatti figli di Dio: « Sei stato battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo », ha detto Paolo in Galati (Gal 3, 27). La circoncisione non è più necessario per servire il popolo della Nuova Alleanza, dal momento che l’Alleanza è permanentemente sigillato una volta per tutte in Gesù Cristo: «In Gesù Cristo, Dio mi riconosce come diritto. Questa giustizia non di me stesso è, vale a dire dalla mia obbedienza alla Legge di Mosè, ma della fede in Cristo: è la giustizia che viene da Dio e si basa sulla fede. « Una delle grandi scoperte di Paolo è che la nostra salvezza non è la fine dei nostri meriti, i nostri sforzi … la salvezza di Dio è gratis! Questo è lo stesso significato di « grazia », ??se ci pensi … Il libro della Genesi era già dicendo: « Abramo ebbe fede nel Signore e il Signore è sembrato giusto. « (Gen 15: 6). In altre parole, la nostra giustizia viene solo da Dio, solo credere! Ma il motivo per cui egli parla di « comunione delle sofferenze della Passione di Cristo, riprodurre la sua morte, con la speranza di risurrezione dai morti »? E ‘, ovviamente, non per accumulare meriti per buona misura! Paul ha appena detto esattamente il contrario! Vuol dire che questa nuova vita che stiamo conducendo ora, in Cristo Gesù, innestato su di lui (per usare l’immagine della vite a San Giovanni) ci porta a prendere la stessa strada come lui. « Comunicare con la passione della sofferenza di Cristo » è quello di accettare di riprodurre il comportamento di Cristo, accetta gli stessi rischi, che sono i rischi per l’annuncio del Vangelo; Gesù aveva detto: « Nessuno è profeta in patria », e lui è stato ben avvertito i suoi apostoli che essi non sarebbero stati trattati meglio di loro padrone. La questione è se saremmo stati in grado di dire con St. Paul che l’unico possesso che conta per noi è la conoscenza di Cristo? Tutto il resto è solo « feccia »!

complemento – Una delle idee principali di San Paolo è che Cristo è venuto a compiere la Scrittura: il rapporto tra l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento, tra l’Alleanza e la Nuova Alleanza è fatta di continuità e rottura: è perché Paolo è un Ebreo che è cristiano, e che la continuità … ma ora dobbiamo abbandonare pratiche ebraiche per consentire « cattura » da Cristo, e che la rottura.

GESÙ E L’ADULTERA « NON RICORDATE PIÙ LE COSE PASSATE! ECCO, FACCIO UNA COSA NUOVA »- OMELIA 13 MARZO

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13 MARZO 2016 | 5A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

GESÙ E L’ADULTERA « NON RICORDATE PIÙ LE COSE PASSATE! ECCO, FACCIO UNA COSA NUOVA »

C’è una ideale continuità fra i testi biblici della Domenica scorsa e quelli della presente Domenica. Questa « continuità » va vista soprattutto nel tema della « novità » che Dio produce in favore del suo popolo, nel tema del perdono e della misericordia, oltre che nella generale « movenza » verso il traguardo beatificante della Pasqua.

« Non pensate più alle cose antiche »

Alla « novità » già ci invitava la volta scorsa s. Paolo nel bellissimo testo di 2 Cor 5,17: « Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove ». È una citazione dal passo di Isaia che ci è proposto oggi come prima lettura, in cui il Profeta preannuncia ai suoi compagni di esilio la imminente « liberazione » dalla schiavitù babilonese. Tale liberazione, poi, è vista e sentita come una riproduzione delle gesta dell’ »esodo » antico: passaggio del Mar Rosso, naufragio dell’esercito faraonico, miracoli di provvidenza e di assistenza nell’estenuante viaggio del deserto, ecc. Ecco dunque come si esprime in termini altamente profetici il Deutero-Isaia: « Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalieri, esercito ed eroi insieme; essi giacciono morti: mai più si alzeranno; si spensero come un lucignolo, sono estinti: « Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa… Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi »" (Is 43,16-21). Lo sfondo del primo esodo è evidente. Però, è altrettanto chiaro che il « nuovo » intervento salvifico di Dio supererà e trascenderà quello di prima. Di qui l’invito a « non pensare più alle cose antiche » (v. 18). Il  » nuovo  » perciò ha una doppia dimensione nella prospettiva biblica: una dimensione che chiamerei evocativo-iterativa, per cui il passato in quanto dono di salvezza viene sempre riproposto all’uomo ed è come segno sacramentale della fedeltà di Dio al suo amore (l’esodo continua sempre!); e una dimensione creativa, nel senso che Dio non si chiude nel passato, ma porta a compimento il suo disegno salvifico con una capacità « inventiva » che supera tutte le attese, generando stupore e meraviglia. Nel « nuovo » di Dio perciò si riassume il passato e si anticipa il futuro. Proprio per questo la fase definitiva della instaurazione del regno di Dio, raffigurato dalla Gerusalemme celeste che scende « da presso Dio come una sposa preparata per il suo sposo », viene annunziata nell’Apocalisse con le parole stesse di Isaia: « E colui che sedeva sul trono disse: Ecco, io faccio nuove tutte le cose » (21,5). Tutto questo per il cristiano vuol dire molto, sia per quanto lo riguarda individualmente, sia per quanto lo riguarda come membro della comunità ecclesiale. Egli è chiamato a essere « creatura nuova in Cristo », realizzando in sé la pienezza della salvezza operata dal suo Signore. Ma chi può dire di aver « assimilato » tutto quanto Cristo ha detto e fatto per la nostra salvezza? È per questo che ognuno di noi è « vecchio », cioè in ritardo in rapporto alla salvezza compiutasi in Cristo: l’esodo non si è ancora pienamente realizzato in noi! A maggior ragione ognuno di noi è vecchio in rapporto al progetto di Dio, che anticipa il futuro e che potrà sbocciare solo dopo che si saranno esaurite le potenzialità salvifiche insite nel passato e nel presente. Come potrà nascere la Gerusalemme celeste, se non saremo riusciti a impiantare quella « terrestre », sì da farne in qualche maniera una « prefigurazione » anticipata? Abbiamo sopra detto che non c’è frattura nel disegno di Dio, ma solo crescita verso i traguardi sempre nuovi che egli si propone e promette a tutti noi. Di qui il « dinamismo » della vita cristiana, la quale risulta sempre impari davanti alla infinita « novità » rappresentata da Cristo nella totalità del suo mistero, che si estende fino al giorno del suo ritorno nella gloria. « Dimentico del passato e proteso verso il futuro… » È quanto S. Paolo ci descrive meravigliosamente nella seconda lettura, ripresa dalla Lettera ai Filippesi, in cui ci fa vedere come uno squarcio del suo cuore e ci fa sentire le vibrazioni del suo spirito. È un brano interessante perché, più che esporci una dottrina, ci presenta un tracciato di vita cristiana che è la esperienza stessa dell’Apostolo. Orbene, tutto il suo sforzo è quello di « assimilarsi » a Cristo, pur nella coscienza lucida di non poter raggiungere giammai tale obiettivo. Lungi però dallo scoraggiarsi, egli si impegna sempre di più a camminare, anzi a « correre », per « conquistare » Cristo. Per « correre » più speditamente, poi, si disfà di tutti gli inutili bardamenti del passato, con tutto il loro accattivante luccichio, in un autentico atteggiamento di « esodo ». « Fratelli, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo… E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti… Fratelli, io non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Fil 3,8-14). Mi sembra che questo brano esprima mirabilmente il senso del « nuovo » che Cristo ha introdotto nel mondo, soprattutto con il dono della sua Pasqua che, per un verso, si riallaccia al passato e per un altro ci spinge in avanti fino alla consumazione ultima nella storia, dove « mangeremo » la Pasqua senza fine. In tutto questo immenso spazio di tempo i cristiani, a imitazione di Paolo, devono sforzarsi di penetrare fino in fondo il mistero della risurrezione di Cristo che agirà con « potenza » anche in noi, diventandogli però prima « conformi » nel mistero della sua « morte » (cf vv. 10-11). In ultima analisi, tutto il « nuovo » della vita cristiana si compendia nel mistero pasquale, alla riscoperta del quale ci prepara l’itinerario quaresimale. « Va’ e d’ora in poi non peccare più » Anche il brano evangelico ci rivela qualcosa della « novità » di Cristo, presentandocelo tutto pieno di amore e di misericordia: proprio il contrario di quello che volevano che fosse gli scribi e i farisei, che gli hanno trascinato davanti la donna adultera perché la condannasse! In questo senso anche il Vangelo si pone in ideale continuità con la parabola del figliol prodigo, letta la Domenica scorsa, con l’unica differenza che là il « padre », pieno di benevolenza e di perdono, rappresentava Dio; qui invece è Cristo stesso il protagonista di tutta la scena: Cristo, perciò, è l’immagine perfetta del Padre anche nella capacità di amare e di perdonare. Probabilmente la continuità non è soltanto nel significato del brano, ma anche nella identità dell’autore. Pur trovandosi, infatti, in Giovanni, l’episodio dell’adultera è chiaramente di sapore sinottico, tanto che alcuni antichi codici e versioni lo omettono e altri poi lo spiazzano trasferendolo in Luca 21,38: molti studiosi moderni in realtà l’attribuiscono al terzo Evangelista, al cui stile e ai cui contenuti meglio si confà. Del resto, tutto questo è secondario in rapporto al significato teologico del brano che a noi interessa di più in questa sede. Sapendolo dunque « amico » dei pubblicani e dei peccatori, alcuni scribi e farisei conducono a Gesù « una donna sorpresa in adulterio » (Gv 8,3) e richiedono da lui un giudizio, che non poteva essere se non di condanna, dato che la Legge mosaica esigeva per tale colpa addirittura la lapidazione. La richiesta di parere perciò non è sincera: in tal modo essi volevano soltanto « metterlo alla prova », come dice il Vangelo (v. 6), e avere un motivo « di che accusarlo ». In caso di assoluzione, infatti, avrebbero potuto denunciarlo come violatore della Legge; in caso di condanna, lo avrebbero messo in contraddizione con se stesso. Il tranello sembrava combinato in maniera tale da non consentire via d’uscita. Invece Gesù capovolge la situazione e vi incastra i suoi stessi avversari: più che un giudizio sulla donna, ognuno dovrà esprimere un « giudizio » su se stesso! Forse a questo è orientato quel misterioso e silenzioso « scrivere » di Gesù a terra (vv. 6.8), ripetuto per ben due volte: quasi un invito a « leggersi » dentro, più che a leggere nelle tavole della Legge, per trovare la soluzione al quesito postogli con spirito surrettizio. Se ci fosse poi stato qualche dubbio ancora sul suo pensiero, egli lo dichiara apertamente: « Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei » (v. 7). Fu a questo punto che essi « udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi » (v. 9). Ognuno di essi certamente si sentì messo sotto accusa, a prescindere dagli specifici peccati di cui la coscienza poteva rimproverarlo: non è peccato soltanto l’adulterio! E come si può condannare il fratello o la sorella, quando ci si sente noi stessi colpevoli davanti a Dio? È un richiamo molto brusco che Cristo fa qui alla nostra condizione di peccatori e alla incapacità di essere i giudici degli altri: « Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello » (Lc 6,42). Proprio per questo il « giudizio » va lasciato solo a Dio, il quale non è meno esigente di noi: solo che il suo giudizio invece che congelare e chiudere l’uomo nella umiliazione del suo peccato, tende a liberarlo perché si possa ricostruire più autenticamente in una « nuova » innocenza del suo spirito. È quanto Gesù, rimasto finalmente solo, dice all’adultera: « Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neanche io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più » (vv. 10-11). Come si vede, Gesù non spreca il suo perdono: egli perdona per rendere gli uomini diversi, perché vincano il « peccato » che è in loro. Un giudizio perciò, quello di Dio, per la vita, tutto diverso dai nostri giudizi che sono soltanto per la condanna e per la morte, e perciò normalmente ingiusti. Soprattutto nell’imminenza della Pasqua, che è essa stessa il più grande « giudizio » di perdono e di amore, noi tutti abbiamo bisogno di sottrarci alla tentazione di giudicare da noi e fra di noi, per « lasciarci » giudicare soltanto da Dio. È ancora quello che S. Paolo ci ricorda nella già citata Lettera ai Filippesi, quando scrive che egli vuol essere trovato davanti a Dio « non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma da quella che deriva _dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede » (Fil 3,9). Soltanto così potremo essere « creature nuove », capaci di stare con faccia libera davanti al Signore, come l’adultera che egli ha « rinnovato » nel fondo del cuore offrendole il suo perdono.

Settimio CIPRIANI  (+)

Saint Paul

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Publié dans:immagini sacre |on 10 mars, 2016 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II (UN ALTRO CONSOLATORE, LO SPIRITO SANTO) (1991)

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GIOVANNI PAOLO II (UN ALTRO CONSOLATORE, LO SPIRITO SANTO)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 marzo 1991

1. Nel discorso d’addio agli Apostoli, durante l’ultima Cena, alla vigilia della sua passione, Gesù promise: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre” (Gv 14, 16). Il titolo “Consolatore” traduce qui la parola greca Parakletos, nome dato da Gesù allo Spirito Santo. “Consolatore”, infatti, è uno dei sensi possibili di Paraclito. Nel discorso del Cenacolo Gesù suggerisce questo senso, perché promette ai discepoli la presenza continua dello Spirito come rimedio alla tristezza provocata dalla sua dipartita (cf. Gv 16, 6-8). Lo Spirito Santo, mandato dal Padre, sarà “un altro Consolatore”, inviato nel nome di Cristo, la cui missione messianica deve concludersi con la sua dipartita da questo mondo per ritornare al Padre. Questa dipartita, che avviene mediante la morte e la risurrezione, è necessaria perché possa venire l’“altro Consolatore” (Gv 16, 7). Gesù lo afferma chiaramente quando dice: “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II presenta questo invio dello “Spirito di verità” come momento conclusivo del processo rivelativo e redentivo rispondente all’eterno disegno di Dio (Dei Verbum, 4). E noi tutti nella Sequenza di Pentecoste lo invochiamo: “Veni . . ., Consolator optime”. 2. Nelle parole di Gesù sul Consolatore si sente l’eco dei libri dell’Antico Testamento, e in particolare del “Libro di consolazione d’Israele” compreso negli scritti raccolti sotto il nome del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio . . . Parlate al cuore di Gerusalemme . . . è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità” (Is 40, 1-2). E in seguito: “Giubilate, o cieli: rallègrati, o terra; gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo” (Is 49, 13). Il Signore è per Israele come una donna che non può dimenticare il suo bambino. E anzi Isaia insiste col far dire al Signore: “Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 15). Nella oggettiva finalità della profezia di Isaia, oltre l’annuncio del ritorno di Israele a Gerusalemme dopo l’esilio, la “consolazione” promessa racchiude un contenuto messianico, che i pii israeliti, fedeli all’eredità dei loro padri, hanno avuto presente fino alle soglie del Nuovo Testamento. Così si spiega ciò che leggiamo nel Vangelo di Luca circa il vecchio Simeone, il quale “aspettava il conforto (o consolazione) d’Israele; lo Spirito Santo, che era su di lui, gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia del Signore” (Lc 2, 25-26). 3. Secondo Luca, che parla di fatti avvenuti e narrati nel contesto del mistero dell’Incarnazione, è lo Spirito Santo a compiere la promessa profetica legata alla venuta del primo Consolatore, Cristo. È Lui, infatti, a operare in Maria il concepimento di Gesù, Verbo incarnato (cf. Lc 1, 35); è Lui a illuminare Simeone e a condurlo al Tempio al momento della presentazione di Gesù (cf. Lc 2, 27); è in Lui che Cristo, all’inizio del ministero messianico, dichiara, riferendosi al profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4, 18; cf. Is 61, 1-2). Il Consolatore di cui parlava Isaia, visto in prospettiva profetica, è Colui che porta la Buona Novella da parte di Dio, confermandola con dei “segni”, cioè con delle opere contenenti i beni salutari di verità, di giustizia, di amore, di liberazione: la “consolazione d’Israele”. E quando Gesù Cristo, compiuta la sua opera, lascia questo mondo per andare al Padre, annunzia “un altro Consolatore”, cioè lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome del Figlio (cf. Gv 14, 26). 4. Il Consolatore, lo Spirito Santo, sarà con gli Apostoli; quando Cristo non sarà più sulla terra, vi sarà nei lunghi tempi dell’afflizione, che dureranno per secoli (cf. Gv 16, 17). Sarà dunque con la Chiesa e nella Chiesa, specialmente nei periodi di lotte e di persecuzioni, come Gesù stesso promette agli Apostoli con quelle parole riportate nei Vangeli sinottici: “Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire: perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire” (Lc 12, 11-13; cf. Mc 13, 11): “non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10, 20). Parole riferibili alle tribolazioni subite dagli Apostoli e dai cristiani delle comunità da loro fondate e presiedute; ma anche a tutti coloro che, in qualunque luogo della terra, in tutti i secoli, avranno da soffrire per Cristo. E in realtà sono molti coloro che in tutti i tempi, anche recenti, hanno sperimentato questo aiuto dello Spirito Santo. Ed essi sanno, e possono testimoniare, quale gioia è la vittoria spirituale che lo Spirito Santo ha loro concesso di riportare. Tutta la Chiesa di oggi lo sa, e ne è testimone. 5. Fin dagli inizi, in Gerusalemme, non mancano alla Chiesa contrarietà e persecuzioni. Ma già negli Atti degli Apostoli leggiamo: “La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo” (At 9, 31). Era lo Spirito Consolatore promesso da Gesù che aveva sostenuto gli Apostoli e gli altri seguaci di Cristo nelle prime prove e sofferenze, e continuava a concedere alla Chiesa il suo conforto anche nei periodi di tregua e di pace. Da Lui dipendeva quella pace, e quella crescita delle persone e delle comunità nella verità del Vangelo. Così sarebbe stato sempre nei secoli. 6. Una grande “consolazione” per la Chiesa primitiva fu la conversione e il battesimo di Cornelio, un centurione romano (cf. At 10, 44-48). Era il primo “pagano” che entrava nella Chiesa, insieme con la sua famiglia, battezzato da Pietro. Da quel momento andarono moltiplicandosi coloro che, convertiti dal paganesimo, specialmente per l’attività apostolica di Paolo di Tarso e dei suoi compagni, rinforzavano la moltitudine dei cristiani. Pietro, nel suo discorso all’assemblea degli Apostoli e degli “anziani” riuniti a Gerusalemme, riconobbe in quel fatto l’opera dello Spirito Consolatore: “Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta tra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del Vangelo e venissero alla fede. E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi” (At 15, 7-9). La “consolazione” per la Chiesa apostolica era che nel dare lo Spirito Santo, come dice Pietro, Dio “non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede” (At 15, 9). Una “consolazione” era anche l’unità che a questo proposito si era espressa in quella riunione di Gerusalemme: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi” (At 15, 28). Quando la lettera che riferiva le decisioni liberatrici di Gerusalemme fu letta alla comunità di Antiochia, tutti “si rallegrarono per la consolazione (greco paraklesei) che infondeva” (At 15, 31). 7. Un’altra “consolazione” dello Spirito Santo fu per la Chiesa la stesura del Vangelo come testo della Nuova Alleanza. Se i testi dell’Antico Testamento, ispirati dallo Spirito Santo, sono già per la Chiesa una sorgente di consolazione e di conforto, come dice San Paolo ai Romani (Rm 5, 4), quanto più lo saranno i libri che riferiscono “tutto ciò che Gesù fece e insegnò dal principio” (At 1, 1). Di questi possiamo dire a maggior ragione che sono stati scritti “per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15, 4). È, d’altra parte, una consolazione da attribuire allo Spirito Santo (cf. 1 Pt 1, 12) l’attuazione della predizione di Gesù, cioè che “il Vangelo del Regno sarà annunziato a tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti” (Mt 24, 14). Tra queste “genti”, che coprono ogni epoca, vi sono anche quelle del mondo contemporaneo, che sembra così distratto e persino smarrito tra i successi e le attrattive del suo troppo unilaterale progresso di ordine temporale. Anche a queste genti – e a noi tutti – si estende l’opera dello Spirito Paraclito che non cessa di essere consolazione e conforto con la “Buona Novella” di salvezza.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (S. PAOLO, LETTERA EFESINI 6,10-20) del Card. Carlo Maria Martini

http://www.oessg-lgimt.it/OESSG/cultura/ilcombattimentospiritualeCarloMariaMartini.htm

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (S. PAOLO, LETTERA EFESINI  6,10-20)   del Card. Carlo Maria Martini

Statua di San Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le mura, con sullo sfondo il ritratto di Benedetto XVI, il Papa che ha voluto “l’anno Paolino”.    » Rivestitevi dell’armatura di Dio , per poter resistere e superare tutte le prove  » Dalla lettera di San Paolo apostolo agli Efesini (6,10-20)   « …Fratelli, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi… ».   Il testo di Paolo in Ef 6, 10-17 presenta il cristiano come colui che ha lottato fino in fondo contro il nemico e l’ha vinto con la propria morte. È un brano molto denso, ricco di mètafore. Occorre vedere quali realtà Paolo voleva annunziare attraverso tali metafore. Il brano può essere diviso in tre parti: la prima parte contiene due esortazioni; segue poi, nella seconda, il motivo di queste esortazioni; infine, nella terza, l’elenco dell’armatura spirituale di cui rivestirci. 1) Le due esortazioni sono: fortificatevi nello Spirito e rivestitevi dell’armatura di Dio. Si tratta quindi di un consiglio dato a qualcuno che si trova di fronte a una situazione difficile. L’esortazione ad armarsi, a rivestirsi, la troviamo pure in Rm 13, 12 e in 2 Cor 10, 4. Quello agli Efesini è però il brano nel quale maggiormente viene svolta la metafora della panoplia, l’armatura completa del servitore di Dio, di colui che segue da vicino Gesù. 2) Il motivo: perché dobbiamo armarci così? Perché la nostra lotta è una lotta spirituale, contro i principati, le potestà, gli spiriti maligni. Possiamo tradurre facilmente queste espressioni in una realtà comprensibile perché essa è di evidenza quotidiana. Dobbiamo, cioè, vivere in un’atmosfera – lo spazio tra terra e cielo – che è invasa da elementi maligni, contrari al Vangelo, nemici di Dio. L’atmosfera in cui viviamo è satura di potenze contrarie a Cristo e quindi la nostra lotta si annuncia difficile. Questa mentalità, questa atmosfera che è frutto in parte della potenza del male e in parte dell’uomo soggiogato da questa potenza del male, crea una situazione nella quale siamo immersi e che ci minaccia da ogni parte. Da qui la necessità di armarsi con l’armatura di Dio. 3) Tale armatura viene descritta con sei metafore: la cintura, la corazza, i calzari, lo scudo, l’elmo, la spada.  Che cosa significa ciascuna di queste metafore? Prima di esse c’è una esortazione che permette di comprendere la situazione nella quale ci si trova: «State in piedi»; tenetevi in piedi. Si tratta, quindi, di persona pronta alla battaglia; ed è in questa situazione di prontezza che viene descritta l’armatura. La prima metafora è la cintura della verità. Quale verità è arma per noi? Per capire bene bisogna notare che questa metafora, come pure le altre, sono attinte largamente dal Vecchio Testamento. Chi scriveva questo brano conosceva a memoria interi passi del Vecchio Testamento e ne supponeva la conoscenza anche nei suoi lettori. Soprattutto due brani del Vecchio Testamento sono qui utilizzati per questa descrizione. – Il primo brano è tratto da 1s 11, il germoglio di Jesse, del quale viene descritta la veste, il modo di presentarsi e di combattere; – il secondo brano è tratto da 1s 59, in cui si descrive, a un certo punto, l’armatura di Dio. Nell’Antico Testamento, quindi, è l’armatura di Dio stesso, oppure dell’inviato, del prediletto di Dio, ad essere descritta. Qui l’armatura di Dio è trasferita al servo di Dio, a: colui che segue Gesù. Dice 1s 11, 5: «Cintura dei suoi fianchi è la fedeltà» (trad. della C.E.I); nella Bibbia dei LXX il vocabolo usato è alétheia, la verità e il testo greco lo riporta esattamente. La verità di cui si cinge, come di una veste stabile, colui che combatte è, quindi, la coerenza; è quella fedeltà che è coerenza piena, stile coerente di vivere e di agire. Per poter combattere contro l’atmosfera maligna, l’atmosfera pestifera nella quale viviamo, occorre essere armati di una profonda coerenza fra ciò che proclamiamo e ciò che dobbiamo internamente sentire e vivere tra noi. E questa coerenza è tanto più importante in quanto noi predichiamo la parola di Dio. Chi non vive ciò che predica si mette a poco a poco nella condizione di essere esposto agli assalti del nemico. Se la nostra predicazione fosse continuamente confrontata con ciò che sentiamo interiormente, con ciò di cui siamo persuasi, sarebbe più facile e più accessibile a tutti. È vero che questo profondo confronto fra coerenza interiore ed esteriore farà talora riconoscere di essere lontani da ciò che si predica, ma l’umiltà del riconoscerlo è già un aspetto della coerenza, è un modo di mostrare che desideriamo averla. La metafora seguente è la corazza della giustizia. In Is 59, 17 si descrive l’armatura di Dio. Dio si è rivestito di giustizia come di una corazza. La giustizia è qui espressa come l’attività di Dio che salva i poveri e umilia i peccatori. Dio che impetuosamente compie le sue opere, che è salvezza e punizione. Nella nostra situazione, dovremmo tradurla come il partecipare allo zelo di Cristo per la giustizia del Padre. Questa corazza che ci cinge completamente, che ci difende, è il rivestirci di quei sentimenti che fanno gridare a Cristo per le strade di Palestina: «A Dio ciò che è di Dio »; cioè, che gli fanno proclamare la giustizia del Padre, e, come giustizia, l’opera di salvezza per chi si pente e il castigo per chi non si pente. Per noi, il partecipare all’intimo zelo di Cristo per la giustizia del Padre, è questa corazza che ci cinge, ci avvolge, che ci difende dai nemici. La terza metafora: calzati i piedi di alacre zelo per il Vangelo della pace. Si descrive qui piuttosto una situazione. Pronti a partire per l’annuncio del Vangelo della pace. La realtà della metafora è la prontezza a portare il Vangelo. In Is 52, 7 troviamo: «Come sono belli i piedi del messaggero che annuncia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza … ». Fuori di metafora viene indicato l’ardore, il desiderio di predicare il Vangelo, sapendo che è beneficio per gli uomini e che porta loro la pace. Quindi anche la gioia di chi ha trovato il tesoro (la donna che ritrova la dracma e chiama le vicine piena di gioia: Le 15, 8ss). Questa è una caratteristica importante del ministero del Vangelo, soprattutto oggi, in cui il ‘pluralismo’ – quando diventa pluralismo filosofico, culturale, religioso – sembra in qualche modo togliere l’ ardore di predicare il Vangelo della pace. Qualcuno vorrebbe addirittura sostituire e correggere l’imperativo di Matteo « Andate e predicate a tutte le genti» (Mt 28, 19) con l’esortazione « Andate e imparate da tutte le genti », perché ci sono valori ovunque e si dice, non conta tanto portare il messaggio quanto ascoltare umilmente ciò che gli altri hanno da dirci. E si rischia di perdere l’ansia di predicare il Vangelo della pace. Ci chiediamo se ci sia una soluzione a questa difficoltà. La soluzione c’è e non è certamente quella di abolire il pluralismo. Credo anzi che quanto più cresce il dialogo, tanto più deve crescere l’approfondimento della vita evangelica, Se queste due cose crescono insieme, allora è possibile ed è facile conciliare un immenso rispetto per tutte le culture, razze, valori, con un immenso ardore di portare il Vangelo, che è una proposta trascendentale, non commensurabile con nessun altro valore, ma capace di illuminarli e trasformarli tutti. Quindi questa arma, questa disposizione è estremamente importante per difendersi dall’atmosfera che invece tende piuttosto a livellare tutti i valori. Conciliare l’ardore del Vangelo con la stima dei valori altrui e l’opera mirabile a cui è chiamata la Chiesa di oggi, se vuole conservare il suo slancio missionario. Quarta metafora: in tutte le occasioni, impugnate lo scudo della fede. I dardi infuocati lanciati dal maligno (l’espressione è presa dal Salmo 11) sono le mentalità del mondo di peccato che, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino, ci circonda e ci invita ad interpretare cose e situazioni della nostra vita con metri esclusivamente psicologi, sociologi, economici, assalendoci da ogni parte per toglierci il tesoro della fede. Lo scudo per opporsi a questa mentalità è lo scudo della fede, cioè la considerazione evangelica di tutta la realtà umana, continuamente richiamata. Quinta metafora: l’elmo della salvezza, anzi l’elmo dell’opera salvifica, come dice il testo greco. L’espressione è presa da I s 59, 17, e in Isaia vuol dire che Dio è pronto a salvare. Il greco ha un verbo (dexasthe) che vuole dire accettare l’elmo della salvezza; quindi accettate l’azione salvifica di Dio in voi come unica vostra protezione, unica vostra speranza; vi protegge il capo perché essa è la cosa più essenziale. Sesta metafora: la spada dello Spirito che è la parola di Dio. Cos’è la spada dello Spirito? Ci sono tre passi che possono aiutarci: Is 49, 2 dove si parla di « bocca come spada »; Eh 4,12 dove si parla di « spada come parola»; infine Is 11, 4 dove si dice che « con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio ». La parola di Dio non è qui il logos, cioè la predicazione, ma il rhéma, cioè gli oracoli divini. Quindi penserei come «spada dello Spirito» non tanto la predicazione di Gesù, ma la sua lotta contro Satana, quando si difende citando gli oracoli di Dio. «Sta scritto … »; cioè, gli oracoli di Dio furono per Lui, e sono per noi, difesa. Quando siamo assediati dalla mentalità del mondo che ci vorrebbe fare interpretare tutte le cose in maniera puramente umana, dobbiamo ricorrere ai grandi oracoli di Dio nella Bibbia per avere una parola di chiarezza su queste cose e respingere le interpretazioni sbagliate della storia del mondo e della nostra esistenza.  Queste le esortazioni di Paolo. Possiamo concludere riassumendo: quali situazioni suppongono e quali esortazioni offrono queste parole? . a) Suppongono prima di tutto che noi siamo in una situazione veramente rischiosa; cioè che nel mondo di oggi è rischioso e pericoloso vivere il Vangelo fino in fondo. Dobbiamo avere questo senso della difficoltà perché esso è realismo. Se ci troviamo di fronte a realtà avverse senza osare guardarle in faccia; se viviamo pensando che ci circondano continue difficoltà e rischi, possiamo vivere in una perpetua e sterile apprensione. Ma quando abbiamo analizzato il fondo, sulla base della Scrittura e abbiamo conosciuto l’avversario, vedendo le vie attraverso le quali il mondo è portato al male e come esse si manifestano, allora anche davanti a tutto il mistero del male, nella sua interezza, possiamo sentirci pieni della forza di Dio. Una profonda analisi e sintesi del mistero della perversione fatto con l’aiuto della Scrittura può metterci davanti ad una situazione di rischio, di timore, di pericolo, ma non di paura, perché vediamo con chiarezza tutta la vastità dell’avversario e tutta la potenza di Dio. b) Seconda osservazione: si tratta di una lotta che non ha né sosta né quartiere; cioè, contro un avversario astuto e terribile che è fuori di noi e dentro di noi. Questo; oggi, lo si dimentica troppo spesso, vivendo in una atmosfera di ottimismo deterministico per cui tutte le cose devono andare di bene in meglio, senza pensare alla drammaticità e alle fratture della storia umana, senza sapere che la storia ha le sue tragiche regressioni e i suoi rischi, i quali minacciano proprio chi non se l’aspetta, cullato in una visione di un evoluzionismo storico che procede sempre per il meglio. c) Terza osservazione: solo chi si arma di tutto punto potrà resistere. Qui vorrei ricordare una delle regole di Sant’Ignazio il quale aveva chiarissima l’idea che il nemico attacca valutando la situazione del cristiano. Bisogna conoscerlo bene, perché il nemico gira per vedere se c’è anche soltanto un elemento mancante nell’armatura. È quindi una lotta che deve prenderci tutti e trasformarci, santificandoci completamente. Un’ultima parola a proposito di un’assenza rilevabile in questo brano: la preghiera. In realtà la preghiera viene nominata, ma non qui. La si ricorda alla fine del brano e con un’esortazione intensissima: «Con ogni sorta di preghiere e di suppliche pregate incessantemente mossi dallo Spirito … » (Ef 6, 18). Tutte queste armi vanno, quindi, continuamente affinate nell’esercizio della preghiera che non le supplisce – la preghiera non supplisce lo zelo, lo spirito di fede, l’impegno, la capacità di donarsi – ma è quella nella quale tutte quante sono avvolte e nella quale vengono continuamente ritemprate nella lotta.

Depiction of God the Father (detail), Pieter de Grebber, 1

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https://en.wikipedia.org/wiki/God_the_Father

Publié dans:immagini sacre |on 9 mars, 2016 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA LIBERTÀ DEI FIGLI DI DIO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20130704_essere-figli-liberi.html

PAPA FRANCESCO – LA LIBERTÀ DEI FIGLI DI DIO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 4 luglio 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 152, Ven. 05/07/2013)

Se esistesse una «carta d’identità» per i cristiani, certamente la libertà figurerebbe fra i tratti caratteristici. La libertà dei figli di Dio — ha spiegato in proposito Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata questa mattina giovedì 4 luglio nella cappella della Domus Sanctae Marthae — è il frutto della riconciliazione con il Padre operata da Gesù, il quale ha assunto su di sé i peccati di tutti gli uomini e ha redento il mondo con la sua morte sulla croce. Nessuno, ha puntualizzato il Pontefice, ci può privare di questa identità. Con il Papa hanno concelebrato tra gli altri il cardinale Telesphore Placidus Toppo, arcivescovo di Ranchi, India, e l’arcivescovo Piero Marini, presidente del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali, il quale accompagnava alcuni dipendenti del dicastero. La riflessione del Santo Padre si è basata sul brano del vangelo di Matteo (9, 1-8) nel quale si narra il miracolo della guarigione del paralitico. Il Papa si è soffermato sui sentimenti che devono aver scosso l’anima dell’uomo invalido quando, portato su una lettiga, sente Gesù dirgli: «coraggio figlio, ti sono perdonati i peccati». Quelli che erano vicini a Gesù in quel momento e hanno udito le sue parole «hanno detto: “Questo bestemmia, soltanto Dio può perdonare i peccati”. E Gesù per fargli capire bene ha chiesto loro: “Cosa è più facile: perdonare i peccati o guarire? E ha guarito. Gesù, dice san Pietro, passò facendo il bene, sanando tutti, guarì, guarendo tutti». «Ma Gesù — ha proseguito il vescovo di Roma — quando guariva un malato non era soltanto un guaritore. Quando insegnava alla gente, pensiamo nelle beatitudini, non era soltanto un catechista, un predicatore di morale. Quando bastonava l’ipocrisia dei farisei e dei sadducei non era un rivoluzionario che voleva cacciare via i romani. No, queste cose che Gesù faceva — la guarigione, l’insegnamento, le parole forti contro l’ipocrisia — erano soltanto un segno, un segno di qualcosa di più che Gesù stava facendo: perdonare i peccati». Riconciliare il mondo in Cristo in nome del Padre: «questa è la missione di Gesù. Tutte le altre, le guarigioni, l’insegnamento, i rimproveri sono soltanto segni di quel miracolo più profondo che è la ri-creazione del mondo. Una bella preghiera della Chiesa dice: “O Signore, tu che hai creato meravigliosamente il mondo, più meravigliosamente lo hai redento, lo hai ricreato”». La riconciliazione è dunque la ri-creazione del mondo e la missione più profonda di Gesù è la redenzione di tutti noi peccatori. E «Gesù — ha aggiunto il Papa — questo lo fa non con parole, non con gesti, non camminando sulla strada, no! Lo fa con la sua carne. È proprio lui, Dio, che diventa uno di noi, uomo, per guarirci da dentro». Ma, si è chiesto il Pontefice, «si può dire che Gesù si è fatto un peccatore? Non è proprio così, perché lui non poteva peccare. San Paolo dice la parola giusta: non si è fatto peccatore si è fatto peccato (cfr. 2 Corinzi 5, 21). Lui ha preso su di sé tutto il peccato. E questo è bello, questa è la nuova creazione», è «Gesù che scende dalla gloria e si abbassa fino alla morte e morte di croce. Quella è la sua gloria e questa è la nostra salvezza. E la croce alla fine, si fa peccato (cfr. 2 Corinzi 5, 21)». Riferendosi alla prima lettura della messa, tratta dal libro della Genesi (22, 1-19) il Papa ha ricordato poi che mentre Abramo aveva risposto immediatamente al figlio Isacco che lo invocava davanti al fuoco del sacrificio «a Gesù che diceva “Padre mio” il Padre non risponderà. E lui soltanto dirà: “Padre perché mi hai abbandonato?”». Gesù «era diventato peccato per liberarci (cfr. 2 Corinzi 5, 21)», questo «è il miracolo più grande» attraverso il quale Gesù ci ha resi figli di Dio e ci ha dato la libertà dei figli. E proprio per questo «noi possiamo dire: “Padre”. Altrimenti non avremmo mai potuto dirlo». «Questo — ha aggiunto il Papa — è il grande miracolo di Gesù. Noi schiavi del peccato, ci ha resi liberi» ci ha guarito. «Ci farà bene pensare a questo — ha aggiunto — e pensare che è tanto bello essere figli. È tanto bella questa libertà dei figli, perché il Figlio è a casa. Gesù ci ha aperto le porte di casa, noi adesso siamo a casa. Adesso si capisce questa parola di Gesù: “coraggio figlio ti sono perdonati i peccati”. Quella è la radice del nostro coraggio: sono libero, sono figlio, mi ama il Padre e io amo il Padre. Chiediamo al Signore la grazia di capire bene questa opera sua». Dio «ha riconciliato a sé il mondo in Cristo — ha concluso — affidando a noi la parola della riconciliazione. E la grazia di portare avanti con forza, con la libertà dei figli, questa parola di riconciliazione. Noi siamo salvati in Gesù Cristo» e nessuno potrà mai privarci di questa grazia.

 

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