Archive pour mars, 2016

The Second Station – Jesus Receives the Cross

The Second Station - Jesus Receives the Cross dans immagini sacre 2

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Publié dans:immagini sacre |on 15 mars, 2016 |Pas de commentaires »

L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE – DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=4234

L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE – DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

“Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”. I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano… Nelle scuole dell’antico impero romano c’era anche un programma di insegnamento morale. Lo si faceva in modo molto concreto. Si proponevano ai giovani esempi da seguire: dei saggi, degli eroi morti per la patria, dei grandi strateghi, e degli uomini di governo. Quando dopo la pace di Costantino l’impero divenne ufficialmente cristiano, questo programma non corrispondeva più alle esigenze dei tempi. Si cercarono quindi di sostituire questi esempi pagani con esempi cristiani, cioè con i santi  sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dei martiri e dei cristiani perfetti apparsi nella storia della Chiesa. Essi furono commemorati anche nella liturgia. Si è formato anche un calendario che propone l’esempio di un determinato santo quel giorno o quell’altro dell’anno. Nello stesso tempo i fedeli furono convinti che i santi sono come “un riflesso del sole e dell’acqua”. Qui si può osservare la luce senza essere accecati dallo splendore. Ma resta pur vero che il primo esempio ad essere contemplato e seguito è  lo stesso Gesù Cristo.I suoi primi discepoli non avevano altro libro da imparare che tenere davanti ai loro occhi ciò che avevano veduto nel loro Maestro. Perciò nella storia della spiritualità il tema della imitazione di Cristo occupa un posto importante. “Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”. Eppure ogni tanto venne qualche dubbio e qualche obiezione contro questo ideale. Lo espresse presempio Martin Lutero. Pensava che uno che imita un altro finisce per vederlo davanti a sè, separato da sè. In tal modo Cristo appare un ideale così sublime che l’uomo non può pretendere di essere capace imitarlo. Bisogna quindi che Cristo sia non “davanti a noi”, ma “dentro di noi”. In altre parole si dice, dobbiamo vivere non “secondo Cristo”, ma “in Cristo”, identificarci con Lui. Così si esprime già San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). La risposta a queste obiezioni è facile. E’ certo che Cristo non si può imitare come qualche eroe umano. Non ne abbiamo la forza. Ma i cristiani sono consapevoli che Cristo vive in loro per mezzo del suo Spirito ricevuto nel battesimo ed è in forza di questo Spirito che possiamo imitarlo secondo le nostre possibilità, lasciando che Lui stesso compia la sua opera in noi. I predicatori amano illustrare questo aspetto con un esempio. Si racconta che un giovane pittore sia stato un grande ammiratore del famoso maestro Domenichino. Decise di imitare uno dei suoi quadri in una chiesa. Lavorava con successo fino a quando doveva riprodurre il volto della persona. Per quanti sforzi facesse, il risultato era sempre negativo, usciva fuori sempre un volto differente. Disperato, buttò il pannello per terra. In quel momento si avvicinò un vecchio signore che già da lungo lo osservava, prese il pennello e con poca fatica finì il quadro. E questa volta era la vera riproduzione del grande maestro. Il giovane lo gurdò sbalordito: “Signore, lei è un angelo!”. Il vecchio sorrise: “No non sono un angelo, sono Domenichino”. I santi hanno una simile esperienza. Dopo tanti fallimenti e dopo tante debolezze, sentono che Cristo vive in loro e che Lui stesso dipinge la sua immagine nel loro cuore. I pittori umani insegnano ai loro discepoli il metodo da seguire, il Mestro divino comunica a loro anche il suo talento. Allora la via della imitazione di Cristo diventa facile. Lo si può illustrare con un altro esempio. La leggenda racconta che il santo principe Venceslao portava ai poveri legna e cibo nel duro inverno e in questa occasione andava a piedi nudi attraverso la neve. Il paggio che lo seguiva non sopportava il freddo e si lamentava. Allora il santo gli consigliò di mettere i suoi piedi accuratamente nelle sue tracce, nelle impronte sulla neve. Facendo così il paggio si sentì meravigliosamente riscaldato. Frequentemente nei luoghi di pellegrinaggio è costruita una Via Crucis in forma vistosa. Ad ogni “stazione”  è consacrata una cappella speciale. Le preghiere cor­rispondenti esortano i fedeli a meditare sui diversi mo­menti della passione del Salvatore e a riflettere sulla pro­pria vita, perché anch’essa è un cammino doloroso, ad imitazione di Gesù. Del resto una Via crucis si osserva in tutte le chiese cattoliche di rito latino. Ma si sentono anche voci contrarie. Alcuni fanno obiezioni contro questo ‘dolorismo’ medievale e porta­no l’esempio delle icone delle Chiese orientali dove Cri­sto è rappresentato come glorioso, cioè come colui che ha vinto il male e tutte le sue conseguenze. Vederlo so­lo nella nella sua sofferenza diminuisce il suo valore e dissua­de dalla gioia di seguirlo. Inoltre vi si nota un modo di pensare troppo analitico che separa due aspetti di per sé indivisibili. Nella vita di Cristo vi è una “umiliazione fino alla morte’ e insieme la ‘glorificazione’ infinita. Sa­rebbero una ‘dopo’ l’altra, o vanno piuttosto insieme? Nella prima metà di questo secolo il teologo orien­tale Sergej Bulgakov propose la sua spiegazione della ke­nosi di Cristo interpretando il testo fondamentale di San Paolo ai Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo di na­tura divina… spogliò se stesso (in greco ekenosen, lette­ralmente: evacuò se stesso), facendosi obbediente fino alla morte e alla morte della croce; per questo Dio l’ha esaltato…» (Fil 2,5 ss). L’autore non vuol negare 1′inse­gnamento tradizionale secondo il quale Cristo ha sof­ferto eroicamente come uomo. Tuttavia, per compren­dere la sofferenza dell’uomo, si deve partire da Cristo Dio, non vi può essere una incoerenza fra l’atteggiamento umano e l’atteggiamento divino. Anche nella vita divina in seno alla SS. Trinità il Fi­glio si ‘spoglia’, non tiene niente come proprio, rice­vendo tutto il pensiero, tutta la volontà dal Padre. Ma questa ‘umiliazione celeste’ costituisce la sua gloria e la sua beatitudine infinita, senza qualsiasi traccia di sof­ferenza. Incarnandosi, facendosi uomo, Cristo trasferi­sce questo stesso atteggiamento nella realtà del mondo peccaminoso che si ribella al Padre.  Ed a causa di que­sta resistenza del mondo peccaminoso, l’umiliazione del Figlio di Dio comporta la sofferenza che è insepara­bile da ogni situazione peccaminosa. Ma con questo non dobbiamo immaginarci che la beatitudine di Cristo Dio non esista più. In modo misterioso, la sofferenza e la beatitudine sono unite. La beatitudine è come un fuo­co che progressivamente brucia la sofferenza per arri­vare allo stato glorioso anche nell’umanità. Questo vale solo per il Cristo individuale o anche per il Cristo mistico, per i suoi santi? I diari dei mistici ci insegnano che anche nella loro vita le grandi sofferen­ze si trasformavano in una gioia indicibile. Solo così poteva scrivere santa Teresa d’Avila: «O patire o mori­re», cioè senza la sofferenza la vita non mi interessa più. In altro luogo attesta che soffriva molto, ma che Dio non l’ha mai lasciata patire senza una consolazione particolare. I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano con la ferma convinzione che questo viene progressivamente superato dal fuoco divino, dalla luce splendente dello Spirito che risiede nei nostri cuori.  

P. Tomáš Špidlík, insigne gesuita,cardinale dal 2003, nasce il 17 dicembre 1919 a Boskovice, in Moravia. I suoi studi vengono più volte interrotti a causa del lavoro giovanile forzato, imposto prima dai soldati tedeschi, poi dai soldati romeni, quindi dai russi.Nel 1949 Špidlík è ordinato sacerdote a Maastricht. Nel 1951 viene chiamato a Roma alla Radio Vaticana. I programmi di quella emittente, specie per i Paesi d’oltre cortina, erano un prezioso aiuto ad una libertà in pericolo di essere soffocata lentamente ma inesorabilmente. Dal suo impegno alla Radio Vaticana scaturirà una speciale missione che l’accompagnerà sempre e che lo farà conoscere in patria nonostante il dominio comunista. Le prediche domenicali in lingua ceca di p. Špidlík hanno suscitato un tale interesse da essere pubblicate e tradotte in varie lingue dell’Europa dell’Est, come in ceco, polacco, romeno., ma anche in italiano. L’opera di p. Špidlík è frutto di anni e anni di diligente ricerca e riflessione, insieme ad una grande, artistica sensibilità per la cultura contemporanea.Riportiamo una meditazione che parla del giusto rapporto con il Dio di Gesù Cristo che rifugge da ogni tipo di dolorismo, e non si accontenta di imitare la santità, ma cerca di viverla con la forza dello Spirito che opera dentro ognuno di noi.  

FONTE: Tomas Spidlik, Conosci il Padre,Cristo e lo Spirito?, Edizioni Lipa, Roma, 2005, pp. 106-110. (L’autore) Špidlík, scritti vari – autore: Tomáš Špidlík

LE DOMANDE DELL’UOMO -DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/228q05a1.html

LE DOMANDE DELL’UOMO -DI GIANFRANCO RAVASI

« Alla radice della domanda sta la ricerca di senso che è strutturale allo stesso esistere umano, come diceva il celebre protagonista dell’Apologia di Socrate di Platone:  « Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta ». È proprio per questo che il bambino è implacabile coi suoi « Perché? »". A partire da queste premesse illustrate nell’introduzione l’arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura ha sintetizzato alcune riflessioni nel libro Questioni di Fede. 150 risposte ai perché di chi crede e di chi non crede (Milano, Mondadori, 2010, pagine 336, euro 19,50). Anticipiamo alcuni stralci del volume che il 5 ottobre uscirà nelle librerie.

La domanda è l’anima della religione, non solo perché la preghiera è supplica, richiesta, invocazione di aiuto o di rivelazione:  si pensi ai Salmi biblici o alla prassi arcaica dell’interrogazione oracolare della divinità, anche nel caso di richieste molto concrete, come una guerra da intraprendere (1 Samuele, 14, 37) o l’esito di una malattia (2 Re, 8, 8). C’è un’altra e più profonda motivazione nella domanda religiosa ed è quella di sondare il mistero di Dio, la sua trascendenza e « incomprensibilità ». Mi è stato chiesto:  Dio padre e madre? Giovanni Paolo i disse che Dio è madre. Le femministe americane cancellano dalla Bibbia le forme « maschiliste ». D’altra parte la Bibbia forse non è così radicale nella supremazia maschile, e Giovanni Paolo II ha parlato di « reciprocità e complementarità » dei sessi, partendo proprio dalle Sacre Scritture. Perché, allora, temere di dire che Dio è papà e mamma? La studiosa tedesca Hanna-Barbara Gerl, in un saggio dal titolo significativo, Gott – Vater und Mutter (Dio, Padre e Madre), elencava, accanto a un’ottantina di immagini maschili di Dio offerte dalla Bibbia, almeno una ventina di rappresentazioni femminili. Ecco solo due esempi dal libro di Isaia:  « Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai » (49, 15); « Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò » (66, 13). Ripetutamente nell’Antico Testamento sono attribuite a Dio « viscere materne » (rahamim), segno di amore spontaneo, istintivo, assoluto. È quindi legittimo parlare di una dimensione « materna » di Dio, ricordando però che si tratta sempre di un antropomorfismo, di un simbolo, come quello paterno, per esprimere l’ineffabile mistero divino e per raffigurare la realtà dell’Inconoscibile. La Bibbia, essendo parola di Dio incarnata, privilegia il volto paterno di Dio anche per i condizionamenti culturali dell’orizzonte in cui si è manifestata. È lecito, perciò, ridimensionare certe letture troppo letterali della « maschilità » di Dio, senza però negare i valori che essa esprime, come è necessario collocare Gesù nel suo tempo storico senza per questo negare la sua « maschilità », e come è giusto trascrivere un certo linguaggio ecclesiale eccessivamente legato a moduli e forme « maschiliste ». La moderna sensibilità sulla « reciprocità e complementarità » dei sessi, esaltata a più riprese soprattutto da Papa Giovanni Paolo II, ha stimolato questa operazione di interpretazione dei testi biblici. Naturalmente non potevano mancare le degenerazioni, specialmente nei Paesi anglosassoni, ove si è consolidato un femminismo cristiano piuttosto aggressivo. Alcune studiose sono giunte fino al rifiuto totale della Bibbia come testo « fallocratico »; altre hanno imboccato strade di ribaltamento radicale, arrivando a banalità come la trascrizione della Trinità in « Madre-Figlio-Nipote » (!); altre hanno introdotto un processo, non sempre sereno, di « depatriarcalizzazione » della tradizione ebraico-cristiana. Emblematica in questo senso è l’opera In memoria di lei (pubblicata nel 1983) della teologa Elisabeth Schüssler Fiorenza. D’altronde, già nel 1895 negli Usa era apparsa The Woman’s Bible (« La Bibbia della donna ») di taglio polemico. L’Antico Testamento, comunque, riguardo alla femminilità offre un insegnamento molto più aperto di quanto s’immagini. Certo, l’ »incarnazione » della parola di Dio fa emergere il contesto socioculturale dell’antico Israele, come quando il Siracide, sapiente del II secolo prima dell’era cristiana, scrive che è « meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna » (42, 14). Ma si pensi anche all’incidenza di figure femminili come Sara, Rachele, Debora, Rut, Anna, Giuditta, Ester, la donna del capitolo 31 dei Proverbi, o la straordinaria protagonista del Cantico dei Cantici, o Maria e la Sposa dell’Apocalisse nel Nuovo Testamento. Anche la bipolarità sessuale è celebrata nella sua pienezza, soprattutto nella Genesi. La famosa « costola » di Adamo non è il segno di una dipendenza, ma di un’identità di natura, tanto che in sumerico un unico vocabolo, ti, significa contemporaneamente « costola » e « femminilità » e, d’altra parte, il canto finale di Adamo è:  « Essa è carne dalla mia carne, ossa dalle mie ossa (…) I due saranno una carne sola », espressione appunto di identità strutturale. Non per nulla si ricorrerà a un libero gioco etimologico per spiegare i due termini ebraici che indicano « uomo » e « donna »:  essi sono ‘ish e ‘isshah, in pratica la stessa parola al maschile e al femminile (Genesi, 2, 23-24). Altrettanto suggestivo è l’altro celebre asserto della Genesi:  « Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò » (1, 27). La costruzione del testo secondo le regole stilistiche ebraiche identifica l’ »immagine » divina che c’è in noi con l’essere « maschio e femmina », non perché Dio sia sessuato, ma per il valore simbolico della sessualità, cioè la sua capacità d’amare e di procreare (la generazione) attraverso la comunione tra uomo e donna, capacità che la rende un’analogia del Dio creatore. A questo proposito è significativo quanto Giovanni Paolo II affermava nella Mulieris dignitatem (1988):  « L’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, creato come uomo e donna (per l’analogia che si può presumere tra il Creatore e la creatura), esprime anche l’unità dei due nella comune umanità. Questa unità dei due, che è segno della comunione interpersonale, indica che nella creazione dell’uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina ». Concludendo, possiamo affermare la legittimità di una nuova interpretazione della Bibbia e della Tradizione, che semplifichi le incrostazioni socioculturali, ma che conservi il valore teologico della paternità e della maternità di Dio, della maschilità e della femminilità umana e della loro unità e diversità. Goethe molto acutamente affermava che « noi possiamo parlare di Dio antropomorficamente (in modo umano) perché noi stessi siamo teomorfi (fatti in forma divina) ».

(©L’Osservatore Romano 3 ottobre 2010)

« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »

http://leggiamolabibbia.blogspot.it/2015/04/tutto-e-compiuto-padre-nelle-tue-mani.html

Publié dans:immagini sacre |on 14 mars, 2016 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – « SORGI, SIGNORE! SALVAMI! »: SALMO 3 (2011)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110907.html

BENEDETTO XVI – « SORGI, SIGNORE! SALVAMI! »: SALMO 3

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 7 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

riprendiamo oggi le Udienze in Piazza San Pietro e, nella “scuola della preghiera” che stiamo vivendo insieme in queste Catechesi del mercoledì, vorrei iniziare a meditare su alcuni Salmi, che, come dicevo nel giugno scorso, formano il “libro di preghiera” per eccellenza. Il primo Salmo su cui mi soffermo è un Salmo di lamento e di supplica pervaso di profonda fiducia, in cui la certezza della presenza di Dio fonda la preghiera che scaturisce da una condizione di estrema difficoltà in cui si trova l’orante. Si tratta del Salmo 3, riferito dalla tradizione ebraica a Davide nel momento in cui fugge dal figlio Assalonne (cfr v. 1): è uno degli episodi più drammatici e sofferti nella vita del re, quando suo figlio usurpa il suo trono regale e lo costringe a lasciare Gerusalemme per salvarsi la vita (cfr 2Sam 15ss). La situazione di pericolo e di angoscia sperimentata da Davide fa dunque da sottofondo a questa preghiera e aiuta a comprenderla, presentandosi come la situazione tipica in cui un tale Salmo può essere recitato. Nel grido del Salmista, ogni uomo può riconoscere quei sentimenti di dolore, di amarezza e insieme di fiducia in Dio che, secondo la narrazione biblica, avevano accompagnato la fuga di Davide dalla sua città. Il Salmo inizia con un’invocazione al Signore:

«Signore, quanti sono i miei avversari! Molti contro di me insorgono. Molti dicono della mia vita: “Per lui non c’è salvezza in Dio!”» (vv. 2-3).

La descrizione che l’orante fa della sua situazione è quindi segnata da toni fortemente drammatici. Per tre volte si ribadisce l’idea di moltitudine – “numerosi”, “molti”, “tanti” – che nel testo originale è detta con la stessa radice ebraica, così da sottolineare ancora di più l’enormità del pericolo, in modo ripetitivo, quasi martellante. Questa insistenza sul numero e la grandezza dei nemici serve a esprimere la percezione, da parte del Salmista, dell’assoluta sproporzione esistente tra lui e i suoi persecutori, una sproporzione che giustifica e fonda l’urgenza della sua richiesta di aiuto: gli oppressori sono tanti, prendono il sopravvento, mentre l’orante è solo e inerme, in balìa dei suoi aggressori. Eppure, la prima parola che il Salmista pronuncia è “Signore”; il suo grido inizia con l’invocazione a Dio. Una moltitudine incombe e insorge contro di lui, generando una paura che ingigantisce la minaccia facendola apparire ancora più grande e terrificante; ma l’orante non si lascia vincere da questa visione di morte, mantiene saldo il rapporto con il Dio della vita e a Lui per prima cosa si rivolge, in cerca di aiuto. Però i nemici tentano anche di spezzare questo legame con Dio e di incrinare la fede della loro vittima. Essi insinuano che il Signore non può intervenire, affermano che neppure Dio può salvarlo. L’aggressione quindi non è solo fisica, ma tocca la dimensione spirituale: “il Signore non può salvarlo” – dicono -, il nucleo centrale dell’animo del Salmista va aggredito. È l’estrema tentazione a cui il credente è sottoposto, è la tentazione di perdere la fede, la fiducia nella vicinanza di Dio. Il giusto supera l’ultima prova, resta saldo nella fede e nella certezza della verità e nella piena fiducia in Dio, e proprio così trova la vita e la verità. Mi sembra che qui il Salmo ci tocchi molto personalmente: in tanti problemi siamo tentati di pensare che forse anche Dio non mi salva, non mi conosce, forse non ne ha possibilità; la tentazione contro la fede è l’ultima aggressione del nemico, e a questo dobbiamo resistere così troviamo Dio e troviamo la vita. L’orante del nostro Salmo è quindi chiamato a rispondere con la fede agli attacchi degli empi: i nemici – come ho detto – negano che Dio possa aiutarlo, egli invece Lo invoca, Lo chiama per nome, “Signore”, e poi si rivolge a Lui con un “tu” enfatico, che esprime una rapporto saldo, solido, e racchiude in sé la certezza della risposta divina:

«Ma tu sei mio scudo Signore, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa. A gran voce grido al Signore ed egli mi risponde dalla sua santa montagna» (vv. 4-5).

La visione dei nemici ora scompare, non hanno vinto perché chi crede in Dio è sicuro che Dio è il suo amico: resta solo il “Tu” di Dio, ai “molti” si contrappone ora uno solo, ma molto più grande e potente di molti avversari. Il Signore è aiuto, difesa, salvezza; come scudo protegge chi si affida a Lui, e gli fa sollevare la testa, nel gesto di trionfo e di vittoria. L’uomo non è più solo, i nemici non sono imbattibili come sembravano, perché il Signore ascolta il grido dell’oppresso e risponde dal luogo della sua presenza, dal suo monte santo. L’uomo grida, nell’angoscia, nel pericolo, nel dolore; l’uomo chiede aiuto, e Dio risponde. Questo intrecciarsi di grido umano e risposta divina è la dialettica della preghiera e la chiave di lettura di tutta la storia della salvezza. Il grido esprime il bisogno di aiuto e si appella alla fedeltà dell’altro; gridare vuol dire porre un gesto di fede nella vicinanza e nella disponibilità all’ascolto di Dio. La preghiera esprime la certezza di una presenza divina già sperimentata e creduta, che nella risposta salvifica di Dio si manifesta in pienezza. Questo è rilevante: che nella nostra preghiera sia importante, presente, la certezza della presenza di Dio. Così, il Salmista, che si sente assediato dalla morte, confessa la sua fede nel Dio della vita che, come scudo, lo avvolge all’intorno con una protezione invulnerabile; chi pensava di essere ormai perduto può sollevare il capo, perché il Signore lo salva; l’orante, minacciato e schernito, è nella gloria, perché Dio è la sua gloria. La risposta divina che accoglie la preghiera dona al Salmista una sicurezza totale; è finita anche la paura, e il grido si acquieta nella pace, in una profonda tranquillità interiore:

«Io mi corico, mi addormento e mi risveglio: il Signore mi sostiene. Non temo la folla numerosa che intorno a me si è accampata» (vv. 6-7).

L’orante, pur in mezzo al pericolo e alla battaglia, può addormentarsi tranquillo, in un inequivocabile atteggiamento di abbandono fiducioso. Intorno a lui gli avversari si accampano, lo assediano, sono tanti, si ergono contro di lui, lo deridono e tentano di farlo cadere, ma egli invece si corica e dorme tranquillo e sereno, sicuro della presenza di Dio. E al risveglio, trova Dio ancora accanto a sé, come custode che non dorme (cfr Sal 121,3-4), che lo sostiene, lo tiene per mano, non lo abbandona mai. La paura della morte è vinta dalla presenza di Colui che non muore. E proprio la notte, popolata di timori atavici, la notte dolorosa della solitudine e dell’attesa angosciata, ora si trasforma: ciò che evoca la morte diventa presenza dell’Eterno. Alla visibilità dell’assalto nemico, massiccio, imponente, si contrappone l’invisibile presenza di Dio, con tutta la sua invincibile potenza. Ed è a Lui che di nuovo il Salmista, dopo le sue espressioni di fiducia, rivolge la preghiera: «Sorgi, Signore! Salvami, Dio mio!» (v. 8a). Gli aggressori “si innalzavano” (cfr v. 2) contro la loro vittima, chi invece “si alzerà” è il Signore, e sarà per abbatterli. Dio lo salverà, rispondendo al suo grido. Perciò il Salmo si chiude con la visione della liberazione dal pericolo che uccide e dalla tentazione che può far perire. Dopo la richiesta rivolta al Signore di alzarsi a salvare, l’orante descrive la vittoria divina: i nemici che, con la loro ingiusta e crudele oppressione, sono simbolo di tutto ciò che si oppone a Dio e al suo piano di salvezza vengono sconfitti. Colpiti alla bocca, non potranno più aggredire con la loro distruttiva violenza e non potranno più insinuare il male del dubbio nella presenza e nell’azione di Dio: il loro parlare insensato e blasfemo è definitivamente smentito e ridotto al silenzio dall’intervento salvifico del Signore (cfr v. 8bc). Così, il Salmista può concludere la sua preghiera con una frase dalle connotazioni liturgiche che celebra, nella gratitudine e nella lode, il Dio della vita: «La salvezza viene dal Signore, sul tuo popolo la tua benedizione» (v. 9). Cari fratelli e sorelle, il Salmo 3 ci ha presentato una supplica piena di fiducia e di consolazione. Pregando questo Salmo, possiamo fare nostri i sentimenti del Salmista, figura del giusto perseguitato che trova in Gesù il suo compimento. Nel dolore, nel pericolo, nell’amarezza dell’incomprensione e dell’offesa, le parole del Salmo aprono il nostro cuore alla certezza confortante della fede. Dio è sempre vicino – anche nelle difficoltà, nei problemi, nelle oscurità della vita – ascolta, risponde e salva nel suo modo. Ma bisogna saper riconoscere la sua presenza e accettare le sue vie, come Davide nella sua fuga umiliante dal figlio Assalonne, come il giusto perseguitato del Libro della Sapienza e, ultimamente e compiutamente, come il Signore Gesù sul Golgota. E quando, agli occhi degli empi, Dio sembra non intervenire e il Figlio muore, proprio allora si manifesta, per tutti i credenti, la vera gloria e la definitiva realizzazione della salvezza. Che il Signore ci doni fede, venga in aiuto della nostra debolezza e ci renda capaci di credere e di pregare in ogni angoscia, nelle notti dolorose del dubbio e nei lunghi giorni del dolore, abbandonandoci con fiducia a Lui, che è nostro “scudo” e nostra “gloria”. Grazie.

LA PENITENZA NEL NUOVO TESTAMENTO – Paolo VI

 http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm

LA PENITENZA NEL NUOVO TESTAMENTO

 Paolo VI *

Cristo, che nella sua vita fece sempre ciò che insegnò, prima di dare inizio al suo ministero, trascorse quaranta giorni e quaranta notti nella preghiera e nel digiuno. Inaugurò poi la sua missione pubblica con un messaggio colmo di gioia: Il regno di Dio è vicino; ma aggiunse subito il comando: Fate penitenza e credete al Vangelo (Mc. 1,15). Si può dire che queste parole sono come il compendio di tutta la vita cristiana. Non si può accedere al regno di Cristo se non per mezzo della metànoia, cioè attraverso quell’intimo e totale cambiamento e rinnovamento dell’uomo, dei suoi pensieri, giudizi, modi di vivere. Questo rinnovamento si attua nell’uomo alla luce della santità ‘e dell’amore di Dio, che negli ultimi tempi si sono manifestate e comunicate a noi in pienezza nel Figlio. L’invito del Figlio di Dio alla metànoia ci stimola in modo più incalzante, in quanto egli non solo ce la predica, ma ce ne offre l’esempio in se stesso. Cristo infatti è modello supremo per coloro che fanno penitenza, lui che volle portare la pena non per il suo peccato, ma per quello degli altri. Dinanzi a Cristo, l’uomo viene illuminato da una luce nuova e, riconoscendo la santità di Dio, prende coscienza della gravità del peccato. La parola di Cristo gli trasmette il messaggio che invita a ritornare a Dio, e gli concede il perdono dei peccati. L’uomo riceve in pienezza questi doni nel battesimo, che lo configura alla passione, alla morte e alla risurrezione del Signore. Tutta la vita del battezzato si pone così sotto il sigillo di questo mistero. Dunque ogni cristiano, seguendo il Maestro, deve rinnegare se stesso, prendere la sua croce e partecipare alle sofferenze di Cristo. Trasformato così ad immagine della sua morte, è reso capace di meritare la gloria della risurrezione. Sempre al seguito del Maestro, deve vivere non più per sé, ma per Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui; deve vivere anche per ,i suoi fratelli «per completare nella sua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa» (Cfr. Col. I, 24). Inoltre, poiché la Chiesa è legata a Cristo con un vincolo strettissimo, la penitenza del singolo cristiano ha un suo intimo rapporto con tutta la comunità ecclesiale. Infatti non solo per mezzo del battesimo egli riceve nella Chiesa il dono fondamentale della metànoia, ma sempre nella Chiesa, questo dono viene rinnovato e rafforzato, per mezzo del sacramento della penitenza, in quelle membra del corpo di Cristo che sono cadute in peccato. «Coloro che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono dell’offesa che gli hanno fatto e, nello stesso tempo, si riconciliano con la Chiesa che è stata ferita dal loro peccato e che coopera alla loro conversione con l’amore, l’esempio e la preghiera» (Cfr. Lumen Gentium, n. 11). E’ nella Chiesa infine che la piccola opera penitenziale, imposta ad ognuno nel sacramento, viene resa partecipe in modo speciale dell’infinita espiazione di Cristo. Il penitente poi, per una disposizione generale della Chiesa, può intimamente unire alla soddisfazione sacramentale tutto ciò che fa, soffre e sopporta. Così, il dovere di portare sempre la morte del Signore nel corpo e nell’anima, investe in ogni momento e in ogni aspetto tutta la vita del cristiano.

* Constitutio Apostolica « Paenitemini» – A.A.S. LVIII, 1966 pp. 179-180.

Joh-08,01_Woman_Adultery

Joh-08,01_Woman_Adultery dans immagini sacre 19%20SIGNOL%20LA%20FEMME%20ADULTERE
http://www.artbible.net/3JC/-Joh-08,01_Woman_Adultery_Femme_Adultere/slides/19%20SIGNOL%20LA%20FEMME%20ADULTERE.html

Publié dans:immagini sacre |on 11 mars, 2016 |Pas de commentaires »
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