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20 MARZO 2016 | 6A DOMENICA DI QUARESIMA: LE PALME – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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20 MARZO 2016 | 6A DOMENICA DI QUARESIMA: LE PALME – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« GLI APPARVE UN ANGELO DAL CIELO A CONFORTARLO »

La « benedizione delle palme », da cui la Domenica odierna prende nome, con la conseguente processione, intende rievocare il solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme, acclamato dalla folla festosa ed esultante. Però questa scena di entusiasmo popolare non ha un valore in sé e per sé: essa assume il suo significato nell’insieme degli eventi che la seguono e che culmineranno nella morte di croce. Una proclamazione, dunque, della « regalità » e della « messianicità » di Gesù che si realizzerà nella umiliazione e nella sofferenza: proprio in questa sua capacità di donarsi per gli altri fino alla morte rifulge il massimo della sua « gloria » e del suo splendore. In questa prospettiva la festosità dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme assume il suo significato più vero: è come un’anticipazione profetica della « gloria » futura del Servo di Jahvèh, che dovrà prima passare attraverso il torchio stritolante della Passione.

« Ho presentato il dorso ai flagellatori… » Sul tema del dolore e della morte ignominiosa di Cristo si muove tutta la intelaiatura della Liturgia odierna, la quale culmina nella lettura della storia della Passione, che ci viene presentata nella redazione di Luca. Nella prima lettura, che ci riporta solo una parte del così detto terzo canto del Servo sofferente di Jahvèh (Is 50,4-7), presentandosi come l’inviato del Signore il Servo preannuncia con piena lucidità le sofferenze che egli dovrà subire per attuare la sua missione: « Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi » (v. 6). Come si vede, viene anticipata la descrizione di una parte delle sofferenze del Cristo, quali ce le presenterà Matteo (26,67; 27,30). L’ultimo versetto ci descrive l’atteggiamento di piena « fiducia » del Servo nel Signore e di amore per i fratelli: « Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra… » (v. 7). Se il brano di Isaia è una « profezia » sulla Passione, la seconda lettura, ripresa da S. Paolo (Fil 2,6-11), è una altissima « meditazione » teologica sull’abbassamento di Cristo, che trova il suo punto più abissale nella « morte di croce » (vv. 6-8). Cristo però non muore per rimanere nella morte, ma per entrare nella « gloria » del Padre! È precisamente questo il contenuto della seconda parte dell’inno cristologico paolino: « Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (vv. 9-11). Come si vede, la luce di Pasqua sta già fugando la orribile tenebra che avvolse « tutta la terra » al momento della morte di Gesù sulla croce (Lc 23,44).

« Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » Siamo così arrivati al racconto della Passione in cui, più che altrove, gli Evangelisti, incluso Giovanni, si incontrano. Pur nello sfondo comune, però, ognuno di loro ha voluto evidenziare qualcosa di « particolare » in questa storia di sofferenza e di amore immenso, contrappuntata però da viltà, da ignominia e da capitolazioni ripugnanti. Più che commentare questo sublime racconto lucano, in cui più che altrove l’Evangelista adopera tutta la sua arte ed esprime la sua finezza e la sua sensibilità umana e cristiana, vorremmo anche noi « contrappuntare » qua e là il testo, fermandoci di preferenza su alcune sue « caratteristiche ». E prima di tutto l’assoluta « padronanza » di Cristo su tutti i fatti sconvolgenti della Passione; in questo Luca si avvicina molto a Giovanni. Gesù non si trova impreparato davanti alla furia devastatrice che tenterà di travolgerlo! Si veda il desiderio, quasi l’ansia, con cui egli ha atteso di celebrare l’ultima Pasqua coi suoi discepoli: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: Non la mangerò più, finché non si compia nel regno di Dio » (Lc 22,15-16). È chiaro che la Pasqua, che egli sta per celebrare con i suoi Apostoli, è la prefigurazione e l’inizio insieme dell’offerta sacrificale della sua vita, rappresentata dal pane e dal vino della cena posti lì davanti a tutti come « segno » della sua donazione alla morte: « Questo è il mio corpo che è dato per voi… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi » (vv. 19.20). Si noti quel « dato… versato per voi », tipicamente lucano (e paolino). Addirittura, Gesù si preoccupa più degli altri che di se stesso! Alle donne che lo seguono dolenti per la via del Calvario dice: « Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli… Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco? » (23,28.31). Non è lui lo sconfitto e l’umiliato che bisogna compiangere, quanto piuttosto gli uomini che lo condannano a morte. E anche il gesto ultimo del suo vivere non è contrassegnato da un sentimento come di fatalità e di abbandono da parte di Dio, ma da un placido affidarsi nelle mani del Padre. Mentre infatti negli altri Sinottici (Mt 27,46; Mc 15,34) Gesù muore quasi in un grido di disperazione (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »), in Luca dispone con serenità e padronanza assoluta della propria vita: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (23,46). « Dio » è diventato il « Padre », che non può non amare il Figlio! Con tutto questo non è che Luca abbia tentato di « sdrammatizzare » la storia della Passione, quasi preso da umana compassione verso il suo Signore sofferente. È bensì vero che egli ha omesso alcuni particolari troppo crudi come, ad esempio, l’imposizione della corona di spine nel pretorio di Pilato, come pure la « paura e l’angoscia » che afferrarono Gesù nell’orto del Getsemani. Strano, però, che il particolare più drammatico dell’agonia nell’orto ce lo fornisca proprio Luca! Mentre Gesù è come travolto dalla sofferenza e quasi da un senso di fallimento, « gli apparve un Angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia (letteralmente « agonia »), pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra » (vv. 43-44). È risaputo che alcuni codici anche autorevolissimi, come il « Vaticano », e alcune antiche versioni hanno omesso questi versetti, certamente a motivo della loro crudezza. Si aveva quasi paura di un Gesù bisognoso di conforto dall’alto e come sconvolto, anche fisicamente, davanti alla morte? C’è da dire anzi che il solo Luca adopera il termine « agonia » per esprimere questo stato d’animo di estrema lotta e sofferenza di Gesù nell’orto degli Ulivi. Ciò sta a significare che la padronanza di Gesù davanti alla Passione non lo sottrae ai limiti dell’umano e alle angosce della morte. Ma proprio per questo egli è immensamente grande, perché ha saputo sconfiggere la paura e la tentazione della disperazione, facendo affidamento soltanto in Dio: « Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà » (v. 42). L’umanità di Gesù, perciò, appare veramente « divina » proprio mentre si esprime nei suoi aspetti più dolenti e mortificanti. Direi che proprio questa è la dimensione « agonica » del cristianesimo, che Gesù ha lasciato in eredità ai suoi discepoli secondo la celebre espressione di Pascal: « Gesù è in agonia sino alla fine del mondo. Bisogna essere vigilanti per tutto questo tempo ».

« In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso » In questa prospettiva mi sembra che sia molto importante un altro tratto caratteristico del racconto di Luca: la sua capacità di « coinvolgere » i lettori nel dramma della Passione del Signore. Pur narrando una storia, egli non dimentica di essere un Evangelista, cioè un annunciatore della fede che, di per se stessa, tende a tradursi in vita. Egli ci racconta con compiacenza alcuni episodi, in cui la gente prende parte attiva alle umiliazioni e alle sofferenze del Signore con senso di umana solidarietà e, addirittura, di pentimento e di conversione. È il caso delle donne di Gerusalemme di cui solo Luca ci parla: « Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamento su di lui » (23,27). Anche le numerose persone, che assistono alla sua morte sul Calvario sono più curiose e sorprese che ostili, a differenza dei capi del popolo e dei soldati, come si può cogliere dalla seguente osservazione: « Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: « Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto ». Anche i soldati lo schernivano… » (23,35-36). Addirittura, ci sarà un senso di pentimento in più d’uno di loro: « Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto » (23,48). Anche il centurione romano, « visto ciò che era accaduto, glorificava Dio: Veramente quest’uomo era giusto » (23,47). Quello che sorprende qui non è tanto la confessione del centurione, che ritroviamo anche più forte presso gli altri Sinottici, quanto la capacità di intuire, in tutto quello che era successo di drammatico e di iniquo sotto i suoi occhi, la « gloria » di Dio che si rivelava. Soltanto Luca, infatti, adopera qui il verbo « glorificare ». È il paradosso della « stoltezza » della croce, di cui ci parla S. Paolo e che, per chi crede, diventa invece « potenza » e « sapienza di Dio » (1 Cor 1,18.24). La sofferenza e la croce di Cristo, dunque, coinvolgono e trasformano gli uomini, diventano addirittura « salvanti ». È il caso sorprendente del buon ladrone, appeso anche lui alla croce, che prende le difese di Gesù contro gli scherni dell’altro compagno di sventura: « Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male ». E aggiunse: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno ». Gli risponde: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso » (23,39-43). Per il buon ladrone la morte di Gesù sulla croce non è un fallimento, ma l’inizio della sua « regalità », addirittura l’ingresso nel suo « regno ». Strano « regno », però, quello di Cristo, il cui diritto di accesso è garantito solo a chi passa per la torchiatura della crocifissione, come il ladrone pentito, o a chi riconosce che nella morte di Gesù di Nazaret si esprime il « giudizio » di amore e di perdono di Dio su tutta la viltà e i tradimenti degli uomini, come hanno fatto il centurione romano, le pie donne, ecc. « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (23,34): è ancora il solo Luca che ha saputo esprimere, meglio di qualsiasi altro, questo aspetto estremamente consolante del dramma più oscuro e pauroso che si sia mai svolto nella nostra storia.

Settimio CIPRIANI  (+)

Jesus enters Jerusalem and the crowds welcome him, by Pietro Lorenzetti, 1320

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https://en.wikipedia.org/wiki/Triumphal_entry_into_Jerusalem

Publié dans:immagini sacre |on 17 mars, 2016 |Pas de commentaires »

LA MISERICORDIA DI DIO VERSO COLORO CHE SI PENTONO DEI LORO PECCATI – SAN MASSIMO CONFESSORE

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010328_massimo-confessore_it.html

LA MISERICORDIA DI DIO VERSO COLORO CHE SI PENTONO DEI LORO PECCATI – SAN MASSIMO CONFESSORE

Dalle « Lettere » di san Massimo Confessore, abate (Lett. 11; PG 91, 454-455)

« Tutti i predicatori della verità, tutti i ministri della grazia divina e quanti dall’inizio fino a questi nostri garni hanno parlato a noi della volontà salvifica di Dio, dicono che nulla è tanto caro a Dio e tanto conforme al suo amore quanto la conversione degli uomini mediante un sincero pentimento dei peccati. E proprio per ricondurre a sé gli uomini Dio fece cose straordinarie, anzi diede la massima prova della sua infinita bontà. Per questo il Verbo del Padre, con un atto di inesprimibile umiliazione e con un atto di incredibile condiscendenza si fece carne e si degnò di abitare tra noi. Fece, patì e disse tutto quello che era necessario a riconciliare noi, nemici e avversari di Dio Padre. Richiamò di nuovo alla vita noi che ne eravamo stati esclusi. Il Verbo divino non solo guarì le nostre malattie con la potenza dei miracoli, ma prese anche su di sé l’infermità delle nostre passioni, pagò il nostro debito mediante il supplizio della croce, come se fosse colpevole, lui innocente. Ci liberò da molti e terribili peccati. Inoltre con molti esempi ci stimolò ad essere simili a lui nella comprensione, nella cortesia e nell’amore perfetto verso i fratelli. Per questo disse: « Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc 5, 32). E ancora: « Non sono i sani che hanno bisogno del.:medico, ma i malati » (Mt 9, 12). Disse inoltre di essere venuto a cercare la pecorella smarrita e di essere stato mandato alle pecore perdute della casa di Israele. Parimenti, con la parabola della dramma perduta, alluse, sebbene velatamente, a un aspetto particolare della sua missione: egli venne per ricuperare l’immagine divina deturpata dal peccato. Ricordiamo poi quello che dice in un’altra sua parabola: « Così vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito … » (Lc 15, 7). Il buon samaritano del vangelo curò con olio e vino e fasciò le ferite di colui che era incappato nei ladri ed era stato spogliato di tutto e abbandonato sanguinante e mezzo morto sulla strada. Lo pose sulla sua cavalcatura, lo portò all’albergo, pagò quanto occorreva e promise di provvedere al resto. Cristo è il buon samaritano dell’umanità. Dio è quel padre affettuoso, che accoglie il figliol prodigo, si china su di lui, è sensibile al suo pentimento, lo abbraccia, lo riveste di nuovo con gli ornamenti della sua paterna gloria e non gli rimprovera nulla di quanto ha commesso. Richiama all’ovile la pecorella che si era allontanata dalle cento pecore di Dio. Dopo averla trovata che vagava sui colli e sui monti, non la riconduce all’ovile a forza di spintoni e urla minacciose, ma se la pone sulle spalle e la restituisce incolume al resto del gregge con tenerezza e amore. Dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi darò riposo (cfr. Mt 11, 28). E ancora: « Prendete il mio giogo sopra di voi » (Mt 11, 29). Il giogo sono i comandamenti o la vita vissuta secondo i precetti evangelici. Riguardo al peso poi, forse pesante e molesto al penitente, soggiunge: « Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero » (Mt 11, 30). Insegnandoci la giustizia e la bontà di Dio, ci comanda: Siate santi, siate perfetti, siate misericordiosi come il Padre vostro celeste (cfr. Lc 6, 36); « Perdonate e vi sarà perdonato » (Lc 6, 37) e ancora: « Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro » (Mt 7, 12). »

Orazione O Dio, che dai la ricompensa ai giusti e non rifiuti il perdono ai peccatori pentiti, ascolta la nostra supplica: l’umile confessione delle nostre colpe ci ottenga la tua misericordia. Per il nostro Signore.

A cura dell’Istituto di Spiritualità: Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino

           

BRANO BIBLICO SCELTO – LUCA 19,28-40

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Luca%2019,28-40

BRANO BIBLICO SCELTO – LUCA 19,28-40

28Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. 29Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli 30dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. 31E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”». 32Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. 33Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». 34Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». 35Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. 36Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. 37Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, 38dicendo:

«Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore.Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».

39Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». 40Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».  

COMMENTO Luca 19,28-40 L’ingresso di Gesù in Gerusalemme // Mt 21,1-11 //Mc 1,1-11 // Gv 12,12-19

L’ingresso di Gesù nella città santa segna in Luca, come negli altri sinottici, l’inizio della sezione dedicata al ministero di Gesù a Gerusalemme (Lc 19,28–21,38). Ma per il terzo evangelista questo episodio riveste un’importanza particolare in quanto rappresenta anche la conclusione della lunga sezione in cui, sullo sfondo del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, ha riportato una quantità di materiale narrativo inedito riguardante la predicazione di Gesù (cfr. 9,51–19,27). L’evangelista introduce il racconto con questa frase: «Dette queste cose, Gesù proseguì (eporeueto, camminò) avanti (a loro) salendo verso Gerusalemme» (v. 28). Con questo versetto, che si ricollega chiaramente con l’inizio del racconto del viaggio (9,51: «… decise di [rese duro il suo volto per] andare (poreuesthai) verso Gerusalemme») egli vuol sottolineare che, entrando a Gerusalemme, Gesù porta a compimento l’insegnamento impartito precedentemente; al tempo stesso mette in luce il carattere estremamente determinato della scelta di Gesù che, proprio come aveva iniziato il suo viaggio, così ora avanza sicuro, precedendo tutti gli altri, verso la città santa. Il racconto che segue si articola, parallelamente a quello di Marco, in due scene: invio dei due discepoli per prelevare il puledro (vv. 29-34); ingresso messianico (vv. 35-40).

Invio dei discepoli (vv. 29-34) La prima scena del racconto ha come protagonisti i discepoli: «Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui. E se qualcuno vi chiederà: Perché lo sciogliete?, direte così: Il Signore ne ha bisogno» (vv. 29-31). Seguendo Marco, Luca racconta che Gesù raggiunge due località ormai vicine a Gerusalemme, chiamate Bètfage e Betania, presso il monte chiamato degli Ulivi. In realtà, venendo da Gerico, giunge prima a Betania e poi a Betfage. Anche Luca osserva che esse si trovano presso il monte degli Ulivi, che aveva una chiara connotazione escatologica (cfr. Zc 14,4). Manca qualsiasi indicazione di tempo. Solo dal confronto con gli altri sinottici appare che il fatto è avvenuto nel primo giorno della settimana (domenica). L’evangelista non dice il nome dei due discepoli inviati da Gesù. Seguendo Marco, riporta le istruzioni date loro da Gesù, ma rende più perentoria la sua richiesta tralasciando l’assicurazione che egli rimanderà subito il puledro. In sintonia con Marco, l’evangelista descrive poi come sono andate le cose: «Gli inviati andarono e trovarono tutto come aveva detto. Mentre scioglievano il puledro, i proprietari dissero loro: Perché sciogliete il puledro? Essi risposero: Il Signore ne ha bisogno» (vv. 32-34). Sono i «proprietari» (e non i presenti, come in Marco) che chiedono ai discepoli perché fanno ciò; al che essi rispondono che il Signore ne ha bisogno. La realizzazione puntuale di quanto aveva previsto mette in luce la conoscenza soprannaturale di Gesù, che non subisce passivamente gli eventi ma li affronta e li dirige secondo un piano prestabilito. L’attribuzione a Gesù dell’appellativo «Signore» non è così insolito in Luca come lo è invece in Marco. Il fatto che Gesù scelga intenzionalmente di entrare in Gerusalemme cavalcando un puledro costituisce un riferimento, anche se implicito, alla profezia che annunzia l’ingresso del Messia nella città santa (Zc 9,9; cfr. 14,3-4).

Ingresso messianico (vv. 35-40) Il racconto prosegue con la descrizione di quanto i discepoli hanno fatto con il puledro: «Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada» (vv. 35-36). Il soggetto delle azioni qui descritte sono sempre i discepoli. Il fatto che, diversamente da quanto riferisce Marco, siano essi a «far salire» Gesù sul puledro potrebbe essere un’allusione alla consacrazione regale di Salomone (cfr. 1Re 1,33). Il particolare dei mantelli ricorda la proclamazione di Ieu come re di Israele (2Re 9,13); Luca non menziona, come Marco, l’uso delle fronde che richiamavano invece la festa delle capanne (Lv 23,40) e la dedicazione del tempio (2Mac 10,7). Nel seguito del racconto Luca si distacca notevolmente da Marco. Egli osserva: «Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:  Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (vv. 37-38). Nell’accenno esplicito alla discesa di Gesù dal monte degli Ulivi si può intuire un’allusione a Zc 14,14 («In quel giorno i suoi piedi si poseranno sul monte degli Ulivi…»). I temi della gioia e della lode a Dio per i suoi prodigi, che nel terzo vangelo accompagnano la manifestazione del Messia, servono qui ad accentuare il tono messianico del racconto. Luca riferisce le parole non dei presenti in genere (come fa Marco), ma quelle dei discepoli. Tralasciando la parole «Osanna», riporta anch’egli la frase: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore». È questa una citazione del Sal 118,26, nella quale però egli ha aggiunto il termine «re», rendendo così esplicito il carattere messianico dell’ingresso in Gerusalemme. Omette poi la frase successiva di Marco («Benedetto il regno che viene del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli») e ad essa sostituisce l’acclamazione: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli». Queste parole riecheggiano l’inno pronunziato dagli angeli sulla grotta di Betlemme (Lc 2,14: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama»), con la differenza però che sia la gloria che la pace si situano in cielo: le promesse messianiche si stanno realizzando mediante la comunicazione della gloria e della pace, le quali però si trovano per il momento ancora in cielo. Luca conclude il racconto distaccandosi ancora una volta da Marco. Questi annota che l’entrata di Gesù a Gerusalemme e nel tempio è seguita dal suo immediato ritorno a Betania. Luca invece prosegue: «Alcuni farisei tra la folla gli dissero: Maestro, rimprovera i tuoi discepoli. Ma egli rispose: Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre» (vv. 39-40). Con questa aggiunta l’evangelista mette in risalto il rifiuto della regalità di Gesù da parte degli esponenti ufficiali del giudaismo; la risposta di Gesù si richiama a una frase di Abacuc, secondo il quale sono le pietre stesse della casa a pronunziare la condanna di coloro che l’hanno costruita con guadagni illeciti (2,11: «La pietra griderà dalla parete»). In realtà i discepoli saranno messi a tacere, ma le pietre della città di Gerusalemme, ormai distrutta, pronunceranno la condanna di coloro che hanno rifiutato il loro messia. E di fatto l’evangelista riporterà subito dopo un brano in cui Gesù annuncia la distruzione di Gerusalemme (19,41-44).

Linee interpretative Le differenze del racconto di Luca da quello di Marco fanno pensare non tanto che egli conoscesse un testo in parte diverso dal suo, quanto piuttosto che abbia rimaneggiato intenzionalmente la sua fonte. Anche per Luca l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, pochi giorni prima della Pasqua, assume un carattere drammatico e provocatorio. Gesù sta per confrontarsi in modo cruciale con i supremi rappresentati della religione giudaica, che egli stesso aveva più volte sottoposto a dura critica. Egli sa che è giunto il momento di dare ai suoi discepoli un segno inequivocabile delle sue scelte, accettandone fino in fondo le conseguenze. Non è come un fuscello in balia di un mare tempestoso, ma come un regista che mette in atto una scena lungamente meditata, dimostrando così un coraggio e una determinazione senza confronto. Con i cambiamenti che ha apportato alla sua fonte Luca vuole però sottolineare maggiormente il carattere messianico dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. A prescindere dalla profezia di Zc 9,9 il semplice entrare cavalcando un asinello, accolto con manifestazioni di stima e di affetto, poteva corrispondere all’immagine di uno stimato maestro che si reca alle feste pasquali accompagnato da una piccola folla di seguaci. Ma Luca offre numerosi indizi che dovrebbero dare pieno valore a quella profezia, quali il fatto che siano i discepoli a far salire Gesù sul puledro, l’esplosione della gioia e della lode di Dio, l’accenno ai suoi prodigi, l’appellativo di re attribuito a Gesù, l’accenno alla pace e alla gloria. In tal modo l’evangelista aiuta i lettori a identificare in Gesù il Messia che prende possesso della sua città. Nel terzo vangelo Gesù inizia dunque la settimana della sua passione come il re messianico, portatore di pace, che entra nella sua città acclamato dai suoi discepoli, circondato da un alone di gioia messianica che esplode nella lode a Dio per quanto ha fatto e sta per compiere in favore del suo popolo. I rappresentanti ufficiali del giudaismo esprimono fin d’ora il loro rifiuto e pertanto si attirano un terribile giudizio. I discepoli invece lo accompagnano con fede e con gioia. Ciò rappresenta un invito alla comunità per la quale Luca scrive il suo vangelo e a tutti i lettori perché non si lascino spaventare dalle sofferenze che aspettano Gesù nella città santa, ma si dispongano a seguirlo con la stessa fede e la stessa gioia.

St. Joseph and the Child Jesus

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Publié dans:immagini sacre |on 16 mars, 2016 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – 19 MARZO – SAN GIUSEPPE EDUCATORE

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PAPA FRANCESCO – 19 MARZO – SAN GIUSEPPE EDUCATORE

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 19 marzo 2014

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, 19 marzo, celebriamo la festa solenne di san Giuseppe, Sposo di Maria e Patrono della Chiesa universale. Dedichiamo dunque questa catechesi a lui, che merita tutta la nostra riconoscenza e la nostra devozione per come ha saputo custodire la Vergine Santa e il Figlio Gesù. L’essere custode è la caratteristica di Giuseppe: è la sua grande missione, essere custode. Oggi vorrei riprendere il tema della custodia secondo una prospettiva particolare: la prospettiva educativa. Guardiamo a Giuseppe come il modello dell’educatore, che custodisce e accompagna Gesù nel suo cammino di crescita «in sapienza, età e grazia», come dice il Vangelo. Lui non era il padre di Gesù: il padre di Gesù era Dio, ma lui faceva da papà a Gesù, faceva da padre a Gesù per farlo crescere. E come lo ha fatto crescere? In sapienza, età e grazia. Partiamo dall’età, che è la dimensione più naturale, la crescita fisica e psicologica. Giuseppe, insieme con Maria, si è preso cura di Gesù anzitutto da questo punto di vista, cioè lo ha “allevato”, preoccupandosi che non gli mancasse il necessario per un sano sviluppo. Non dimentichiamo che la custodia premurosa della vita del Bambino ha comportato anche la fuga in Egitto, la dura esperienza di vivere come rifugiati – Giuseppe è stato un rifugiato, con Maria e Gesù – per scampare alla minaccia di Erode. Poi, una volta tornati in patria e stabilitisi a Nazareth, c’è tutto il lungo periodo della vita di Gesù nella sua famiglia. In quegli anni Giuseppe insegnò a Gesù anche il suo lavoro, e Gesù ha imparato a fare il falegname con suo padre Giuseppe. Così Giuseppe ha allevato Gesù. Passiamo alla seconda dimensione dell’educazione, quella della «sapienza». Giuseppe è stato per Gesù esempio e maestro di questa sapienza, che si nutre della Parola di Dio. Possiamo pensare a come Giuseppe ha educato il piccolo Gesù ad ascoltare le Sacre Scritture, soprattutto accompagnandolo di sabato nella sinagoga di Nazareth. E Giuseppe lo accompagnava perché Gesù ascoltasse la Parola di Dio nella sinagoga. E infine, la dimensione della «grazia». Dice sempre San Luca riferendosi a Gesù: «La grazia di Dio era su di lui» (2,40). Qui certamente la parte riservata a San Giuseppe è più limitata rispetto agli ambiti dell’età e della sapienza. Ma sarebbe un grave errore pensare che un padre e una madre non possono fare nulla per educare i figli a crescere nella grazia di Dio. Crescere in età, crescere in sapienza, crescere in grazia: questo è il lavoro che ha fatto Giuseppe con Gesù, farlo crescere in queste tre dimensioni, aiutarlo a crescere. Cari fratelli e sorelle, la missione di san Giuseppe è certamente unica e irripetibile, perché assolutamente unico è Gesù. E tuttavia, nel suo custodire Gesù, educandolo a crescere in età, sapienza e grazia, egli è modello per ogni educatore, in particolare per ogni padre. San Giuseppe è il modello dell’educatore e del papà, del padre. Affido dunque alla sua protezione tutti i genitori, i sacerdoti – che sono padri –, e coloro che hanno un compito educativo nella Chiesa e nella società. In modo speciale, vorrei salutare oggi, giorno del papà, tutti i genitori, tutti i papà: vi saluto di cuore! Vediamo: ci sono alcuni papà in piazza? Alzate la mano, i papà! Ma quanti papà! Auguri, auguri nel vostro giorno! Chiedo per voi la grazia di essere sempre molto vicini ai vostri figli, lasciandoli crescere, ma vicini, vicini! Loro hanno bisogno di voi, della vostra presenza, della vostra vicinanza, del vostro amore. Siate per loro come san Giuseppe: custodi della loro crescita in età, sapienza e grazia. Custodi del loro cammino; educatori, e camminate con loro. E con questa vicinanza, sarete veri educatori. Grazie per tutto quello che fate per i vostri figli: grazie. A voi tanti auguri, e buona festa del papà a tutti i papà che sono qui, a tutti i papà. Che san Giuseppe vi benedica e vi accompagni. E alcuni di noi hanno perso il papà, se n’è andato, il Signore lo ha chiamato; tanti che sono in piazza non hanno il papà. Possiamo pregare per tutti i papà del mondo, per i papà vivi e anche per quelli defunti e per i nostri, e possiamo farlo insieme, ognuno ricordando il suo papà, se è vivo e se è morto. E preghiamo il grande Papà di tutti noi, il Padre. Un “Padre nostro” per i nostri papà: Padre Nostro…

E tanti auguri ai papà!

Publié dans:PAPA FRANCESCO, SAN GIIUSEPPE |on 16 mars, 2016 |Pas de commentaires »

GESÙ STORICO: INDAGINE ATTORNO A UN “PROBLEMA” – PARTE XI – L’INGRESSO A GERUSALEMME

http://www.instoria.it/home/gesu_storico_XI.htm

GESÙ STORICO: INDAGINE ATTORNO A UN “PROBLEMA” – PARTE XI – L’INGRESSO A GERUSALEMME

di Luigi Pezzella  

Una cosa è certa, Gesù entra in Gerusalemme da re. Con l’entrata in Gerusalemme di Gesù e lo stuolo dei suoi seguaci, la rivendicazione del ruolo davidico viene dichiarata esplicitamente. Gesù entra in Gerusalemme come rappresentante della promessa della sovranità che ora viene, sul dorso di un asino.  Osserviamo nel dettaglio tutto ciò che oggi ai nostri occhi può sembrare trascurabile, ma per i contemporanei di Gesù ogni particolare è gravido di regalità.  Iniziamo col prendere in considerazione l’uso della cavalcatura, ossia l’asino. Esso era impiegato in origine, secondo la testimonianza biblica, da personaggi autorevoli (cf. Gdc5,10; 10,4; 2Sam 13,29; 18,9). Sulla groppa dell’asino si stendeva una coperta, legata attorno al dorso dell’animale in modo da non scivolare (22.3; Gdc 19,10; 2Sam 16,1 17,23;19,27; 2Re 4,24).  A. Rolla ci fa notare che il rapporto tra l’uso dell’asino e la regalità è una specie di topos dell’Antico Testamento, infatti con questo passo confronta il racconto della consacrazione regale di Salomone in 1Re 1,28-40; quando Davide, oramai vecchio permette al figlio di adoperare la propria mula. Rolla:“cedendo a Salomone la propria mula, Davide mostrava a tutti la volontà di trasmettergli il potere regio”.  Per Joseph Ratzinger molto più importante di 1Re 1,28-40 sono Gen 49,11 e Zc 9,9. Gen49,11: “Il sovrano che nascerà da Giuda godrà dei frutti migliori e disponibili in abbondanza avrà la possibilità di legare a una vite scelta il suo asinello”.  Il v.11 qui in questione, appartiene alla sezione dei vv.8-12, dedicata a Giuda, il quale è descritto come vincitore dei suoi nemici e dominatore dei popoli.  Zc 9,9: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme, ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso e cavalca un asino, un puledro figlio di asino”.  In Zaccaria è esplicito il richiamo regale della cavalcatura dell’asino. Secondo il nostro modo di vedere, l’ingresso in Gerusalemme in groppa ad un asino sarebbe più importante della modalità del reperimento dello stesso, in quanto l’ingresso ha caratteristiche solenni vicine anche a quelle che sono gli odierni onori, ma Derret ci fa notare che anche il reperimento della cavalcatura ha in sé una chiara rivendicazione regale.  Derret spiega: “tutto questo ha a che fare con il diritto regale dell’angheria, consistente nella requisizione di mezzi di trasporto conosciuto anche nella cultura ebraica, come appare in 1Sam 12,3-5”. Conferma questa tesi anche Ratzinger quando afferma che: “Gesù rivendica il diritto regale della requisizione dei mezzi di trasporto, un diritto noto in tutta l’antichità”.  Inoltre, ci sono due particolari che vanno evidenziati. Il primo è il particolare dei mantelli, che in Mc.11,8 si dice: “vengono stesi per terra sulla via.” Verrebbe da chiedersi che senso abbia stendere i mantelli per farli calpestare da un asino. Se Gesù era già su una cavalcatura, che evocava significati ben precisi, che valore aveva stendere anche i mantelli per terra? Di Palma risponde con un accostamento a 2Re 9,11-13, spiega: “in questo brano (2Re) Ieu aveva ricevuto la visita di un discepolo del profeta Eliseo e da costui era stato unto re. I suoi colleghi ufficiali, sentito quanto Ieu aveva raccontato sulla venuta del profeta, lo acclamano re e, in segno di onore, stendono i propri vestiti a terra, come oggi si usa stendere tappeti su cui, in occasioni ufficiali, le grandi personalità camminano”.  Il secondo particolare è quello delle fronde tagliate dagli alberi per strada mentre Gesù cammina in groppa all’asino calpestando tappeti:“il saluto col rito dell’agitare i rami di palma richiama il nazionalismo ebraico di matrice maccabaica, in particolare due episodi: 1 Mac 13,51, quando Simone riconquistò l’Acra di Gerusalemme e “fecero ingresso in quel luogo il ventitré del secondo mese dell’anno 171 [142 a.C.], con canti di lode e con palme”; quando Giuda dedicò nuovamente l’altare del Tempio (164 a.C.) racconta 2Mac10,7 che “tenendo in mano bastoni ornati, rami verdi e palme, innalzavano inni a colui che aveva fatto ben riuscire la purificazione del suo proprio tempio”.  Un’altra osservazione in merito la fornisce P. Sacchi: “Nel Testamento greco di Neftali 5,4, dove i rami di palma dati a Levi sul Monte degli Ulivi simboleggiano il potere conferitogli su tutto Israele, ritroviamo la stessa espressione giovannea indicante le palme: mentre Levi era come il sole, ecco un giovane che gli dà in aggiunta dodici foglie di palma”.  In questo contesto regale, al suo ingresso in Gerusalemme, Gesù viene “salutato” con Osanna! Benedetta la basileia del nostro padre Davide che ora viene. Osanna, stando a 2Sam 14,14 e 2Re 6,25 significa: “Aiuto mio re!”. Stegemann osserva: “Il grido della folla, di speranza nella basileia di David che ora viene, e quindi nell’instaurazione della promessa dinastia davidica, non è ripreso né nel testo matteano né nel parallelo lucano (Mt.21,9; Lc.19,38). Ciò si spiega da sé, nel senso che il correttivo introdotto da Matteo e Luca porta alla luce in senso politico la versione marciana dell’episodio dell’ingresso”. Pinchas Lapide sulla questione: “Il grido di Osanna nel contesto del Salmo 118 relativo alla basileia di Davide che ora viene, è un’esortazione a liberare i supplicanti, ha una forte coloritura politica, poiché sarebbe un invito rivolto al figlio di Davide, Gesù, a cacciare i romani dalla terra d’Israele.  Il Nuovo Testamento ha trasformato questo grido di liberazione in un innocuo ossequio religioso. La folla avrebbe detto nel giorno dell’ingresso: “salvaci dai romani”, mentre i Vangeli hanno depoliticizzato l’espressione”. Sanders sostiene che l’episodio dell’ingresso in Gerusalemme è direttamente connesso all’esecuzione di Gesù come re dei giudei/giudaiti. Sanders: “si può tuttavia senz’altro pensare che l’ingresso di Gesù in Gerusalemme fosse un segnale esplicito: re, sì, in un senso preciso, non conquistatore militare”. Infatti, nell’attesa biblica e nella dominazione di Dio in quanto re compaiono idee bellicose ma non militari. Stegemann a questo pensiero aggiunge: “in realtà la rivendicazione del trono di David non dovette mai essere manifestata con l’appoggio delle armi, ma resta pur sempre una pretesa politica che la potenza occupante romana seppe reprimere.”  Inoltre Stegemann ci informa di un caso analogo alla pretesa regale gesuana di Simon ben Giora. Egli era figlio di un proselita originario di Gerasa, quindi della decapoli. Sembra che all’inizio avesse formato una banda di rivoltosi e che fece la sua comparsa nei territori giudaiti di confine dove alla maniera dei banditi sociali rapinava e saccheggiava le case dei ricchi (Bell.2,652). Ma le circostanze finirono, per così dire, per politicizzarlo. Fuggito davanti a un esercito inviatogli da Anania dalla toparchia dell’Acrabatene, si unì ai sicari rifugiatisi a Masada. Dopo che gli zeloti e gli idumei ebbero tolto di mezzo Anania, mirò al potere assoluto a Gerusalemme e avanzò anche rivendicazioni politiche promettendo libertà agli schiavi. (Bell.4,508). Merita osservare che Giuseppe ricorda anche che la sua non fu più una banda di soli schiavi o banditi, ma anche di non pochi cittadini che gli prestavano ubbidienza come a un re (Bell.4,510). Egli riuscì quindi a raccogliere intorno a sé non soltanto banditi sociali, ma anche persone in vista (ibid.) e, come avevano fatto Menehem e prima ancora Giuda, Simone e Atronge, rivendicò il ruolo di anti-re.  Non è allora un caso che anche Giuseppe ricordi il tipico motivo del capo militare carismatico, la forza fisica e l’audacia straordinarie (Bell. 4,503). Ma soprattutto vi sono indizi che per il suo antiregno (messianico) Simone s’ispirasse coscientemente al modello di David. Giuseppe racconta che Simone iniziò col conquistare Hebron in Idumea, ossia la città di David quando ancora non era re (2Sam 2,1 ss: 5,3ss.). Singolare è anche che Giuseppe parli spesso di donne o della moglie di Simone che l’accompagnava, come si trattasse del seguito di una casa reale (Bell.2,563; 4,505.538), e soprattutto che ne descriva l’ingresso in Gerusalemme, dov’era stato chiamato dagli avversari di Giovanni di Giscala, come accoglienza trionfale, come salvatore e protettore (Bell.4,575).  È probabile che questa rivendicazione salvica messianico davidica si rifletta anche nelle monete della rivolta, che recano la scritta “anno 4” e “ per la liberazione di Sion”. Come che sia, Simone non venne meno alla sua rivendicazione regale sino alla fine, quando fallito il tentativo di fuga affrontò i romani in tunica bianca e mantello di porpora (Bell.7,29). Di fatto i romani lo considerarono il capo più prestigioso della rivolta, dal momento che lo condussero a Roma come vittima sacrificale nel corteo trionfale e lo giustiziarono accanto al foro (cf. Bell.6,434; 7,118ss. 153 ss.).  Resta infine la questione del rapporto fra l’attesa della basileia tou theou e l’attesa della “sovranità di David nostro padre”. Chiedono Theissen Merz: “si tratta forse di un malinteso (della folla) ingenerato dalla predicazione della “sovranità regale di Dio?”. Stegemann propende per pensare che la risposta sia quella di Ps. Sal17, dove le due attese coesistono. Con riguardo a Ps. Sal17, la prospettiva della restaurazione ad opera del nuovo David ha il suo momento culminante nella proclamazione della durata eterna della sovranità divina. Messianismo regale e regalità davidica possono quindi andare di pari passo, anche se non necessariamente.  Stegemann conclude: “l’attesa connessa a Gesù come futuro re sul trono di David interpreta la sua regalità come rappresentanza terrena della basileia tou theou”.  In breve, nel Vangelo, all’ingresso di Gesù in Gerusalemme sono connessi tre episodi che, più o meno, sono chiare indicazioni che a Gesù era associata la speranza di ristabilimento della dinastia davidica: guarigione del cieco Bartimeo; ingresso regale in Gerusalemme; rivendicazione regale del ristabilimento dell’ordine del santuario del tempio.  In questo contesto rientra anche la denominazione di Gesù come re dei giudaiti. Non stupisce molto che il tema della dignità regale di Gesù stia al centro dell’interrogatorio di Pilato. Inoltre Di Palma aggiunge: “c’è da dire che forse le autorità di Gerusalemme capirono più dei discepoli il significato di quei gesti e il loro rimprovero sulla proclamazione figlio di Davide potrebbe essere letta anche in chiave positiva, poiché essi sembrerebbero preoccuparsi del fatto che Gesù agendo così, si esponesse ad accuse di natura politica (sedizione e ribellione). Ed è possibile che in origine, a livello di tradizione, fosse così, mentre nella redazione il senso sia stato cambiato, lasciando intendere che essi si opponevano alla proclamazione della regalità di Gesù”. Questo ci introduce nell’ultima parte della nostra indagine storica su Gesù di Nazareth, cioè sul processo e sulla sua condanna a morte. Chi condannò veramente Gesù? Quali procedure giuridiche e quali leggi furono applicate?  Soprattutto, la redazione della letteratura post-mortem (Paolo, sinottici etc.) è narrazione o interpretazione soggettiva dei fatti storici?

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