20 MARZO 2016 | 6A DOMENICA DI QUARESIMA: LE PALME – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
20 MARZO 2016 | 6A DOMENICA DI QUARESIMA: LE PALME – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
« GLI APPARVE UN ANGELO DAL CIELO A CONFORTARLO »
La « benedizione delle palme », da cui la Domenica odierna prende nome, con la conseguente processione, intende rievocare il solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme, acclamato dalla folla festosa ed esultante. Però questa scena di entusiasmo popolare non ha un valore in sé e per sé: essa assume il suo significato nell’insieme degli eventi che la seguono e che culmineranno nella morte di croce. Una proclamazione, dunque, della « regalità » e della « messianicità » di Gesù che si realizzerà nella umiliazione e nella sofferenza: proprio in questa sua capacità di donarsi per gli altri fino alla morte rifulge il massimo della sua « gloria » e del suo splendore. In questa prospettiva la festosità dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme assume il suo significato più vero: è come un’anticipazione profetica della « gloria » futura del Servo di Jahvèh, che dovrà prima passare attraverso il torchio stritolante della Passione.
« Ho presentato il dorso ai flagellatori… » Sul tema del dolore e della morte ignominiosa di Cristo si muove tutta la intelaiatura della Liturgia odierna, la quale culmina nella lettura della storia della Passione, che ci viene presentata nella redazione di Luca. Nella prima lettura, che ci riporta solo una parte del così detto terzo canto del Servo sofferente di Jahvèh (Is 50,4-7), presentandosi come l’inviato del Signore il Servo preannuncia con piena lucidità le sofferenze che egli dovrà subire per attuare la sua missione: « Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi » (v. 6). Come si vede, viene anticipata la descrizione di una parte delle sofferenze del Cristo, quali ce le presenterà Matteo (26,67; 27,30). L’ultimo versetto ci descrive l’atteggiamento di piena « fiducia » del Servo nel Signore e di amore per i fratelli: « Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra… » (v. 7). Se il brano di Isaia è una « profezia » sulla Passione, la seconda lettura, ripresa da S. Paolo (Fil 2,6-11), è una altissima « meditazione » teologica sull’abbassamento di Cristo, che trova il suo punto più abissale nella « morte di croce » (vv. 6-8). Cristo però non muore per rimanere nella morte, ma per entrare nella « gloria » del Padre! È precisamente questo il contenuto della seconda parte dell’inno cristologico paolino: « Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (vv. 9-11). Come si vede, la luce di Pasqua sta già fugando la orribile tenebra che avvolse « tutta la terra » al momento della morte di Gesù sulla croce (Lc 23,44).
« Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » Siamo così arrivati al racconto della Passione in cui, più che altrove, gli Evangelisti, incluso Giovanni, si incontrano. Pur nello sfondo comune, però, ognuno di loro ha voluto evidenziare qualcosa di « particolare » in questa storia di sofferenza e di amore immenso, contrappuntata però da viltà, da ignominia e da capitolazioni ripugnanti. Più che commentare questo sublime racconto lucano, in cui più che altrove l’Evangelista adopera tutta la sua arte ed esprime la sua finezza e la sua sensibilità umana e cristiana, vorremmo anche noi « contrappuntare » qua e là il testo, fermandoci di preferenza su alcune sue « caratteristiche ». E prima di tutto l’assoluta « padronanza » di Cristo su tutti i fatti sconvolgenti della Passione; in questo Luca si avvicina molto a Giovanni. Gesù non si trova impreparato davanti alla furia devastatrice che tenterà di travolgerlo! Si veda il desiderio, quasi l’ansia, con cui egli ha atteso di celebrare l’ultima Pasqua coi suoi discepoli: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: Non la mangerò più, finché non si compia nel regno di Dio » (Lc 22,15-16). È chiaro che la Pasqua, che egli sta per celebrare con i suoi Apostoli, è la prefigurazione e l’inizio insieme dell’offerta sacrificale della sua vita, rappresentata dal pane e dal vino della cena posti lì davanti a tutti come « segno » della sua donazione alla morte: « Questo è il mio corpo che è dato per voi… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi » (vv. 19.20). Si noti quel « dato… versato per voi », tipicamente lucano (e paolino). Addirittura, Gesù si preoccupa più degli altri che di se stesso! Alle donne che lo seguono dolenti per la via del Calvario dice: « Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli… Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco? » (23,28.31). Non è lui lo sconfitto e l’umiliato che bisogna compiangere, quanto piuttosto gli uomini che lo condannano a morte. E anche il gesto ultimo del suo vivere non è contrassegnato da un sentimento come di fatalità e di abbandono da parte di Dio, ma da un placido affidarsi nelle mani del Padre. Mentre infatti negli altri Sinottici (Mt 27,46; Mc 15,34) Gesù muore quasi in un grido di disperazione (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »), in Luca dispone con serenità e padronanza assoluta della propria vita: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (23,46). « Dio » è diventato il « Padre », che non può non amare il Figlio! Con tutto questo non è che Luca abbia tentato di « sdrammatizzare » la storia della Passione, quasi preso da umana compassione verso il suo Signore sofferente. È bensì vero che egli ha omesso alcuni particolari troppo crudi come, ad esempio, l’imposizione della corona di spine nel pretorio di Pilato, come pure la « paura e l’angoscia » che afferrarono Gesù nell’orto del Getsemani. Strano, però, che il particolare più drammatico dell’agonia nell’orto ce lo fornisca proprio Luca! Mentre Gesù è come travolto dalla sofferenza e quasi da un senso di fallimento, « gli apparve un Angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia (letteralmente « agonia »), pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra » (vv. 43-44). È risaputo che alcuni codici anche autorevolissimi, come il « Vaticano », e alcune antiche versioni hanno omesso questi versetti, certamente a motivo della loro crudezza. Si aveva quasi paura di un Gesù bisognoso di conforto dall’alto e come sconvolto, anche fisicamente, davanti alla morte? C’è da dire anzi che il solo Luca adopera il termine « agonia » per esprimere questo stato d’animo di estrema lotta e sofferenza di Gesù nell’orto degli Ulivi. Ciò sta a significare che la padronanza di Gesù davanti alla Passione non lo sottrae ai limiti dell’umano e alle angosce della morte. Ma proprio per questo egli è immensamente grande, perché ha saputo sconfiggere la paura e la tentazione della disperazione, facendo affidamento soltanto in Dio: « Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà » (v. 42). L’umanità di Gesù, perciò, appare veramente « divina » proprio mentre si esprime nei suoi aspetti più dolenti e mortificanti. Direi che proprio questa è la dimensione « agonica » del cristianesimo, che Gesù ha lasciato in eredità ai suoi discepoli secondo la celebre espressione di Pascal: « Gesù è in agonia sino alla fine del mondo. Bisogna essere vigilanti per tutto questo tempo ».
« In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso » In questa prospettiva mi sembra che sia molto importante un altro tratto caratteristico del racconto di Luca: la sua capacità di « coinvolgere » i lettori nel dramma della Passione del Signore. Pur narrando una storia, egli non dimentica di essere un Evangelista, cioè un annunciatore della fede che, di per se stessa, tende a tradursi in vita. Egli ci racconta con compiacenza alcuni episodi, in cui la gente prende parte attiva alle umiliazioni e alle sofferenze del Signore con senso di umana solidarietà e, addirittura, di pentimento e di conversione. È il caso delle donne di Gerusalemme di cui solo Luca ci parla: « Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamento su di lui » (23,27). Anche le numerose persone, che assistono alla sua morte sul Calvario sono più curiose e sorprese che ostili, a differenza dei capi del popolo e dei soldati, come si può cogliere dalla seguente osservazione: « Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: « Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto ». Anche i soldati lo schernivano… » (23,35-36). Addirittura, ci sarà un senso di pentimento in più d’uno di loro: « Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto » (23,48). Anche il centurione romano, « visto ciò che era accaduto, glorificava Dio: Veramente quest’uomo era giusto » (23,47). Quello che sorprende qui non è tanto la confessione del centurione, che ritroviamo anche più forte presso gli altri Sinottici, quanto la capacità di intuire, in tutto quello che era successo di drammatico e di iniquo sotto i suoi occhi, la « gloria » di Dio che si rivelava. Soltanto Luca, infatti, adopera qui il verbo « glorificare ». È il paradosso della « stoltezza » della croce, di cui ci parla S. Paolo e che, per chi crede, diventa invece « potenza » e « sapienza di Dio » (1 Cor 1,18.24). La sofferenza e la croce di Cristo, dunque, coinvolgono e trasformano gli uomini, diventano addirittura « salvanti ». È il caso sorprendente del buon ladrone, appeso anche lui alla croce, che prende le difese di Gesù contro gli scherni dell’altro compagno di sventura: « Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male ». E aggiunse: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno ». Gli risponde: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso » (23,39-43). Per il buon ladrone la morte di Gesù sulla croce non è un fallimento, ma l’inizio della sua « regalità », addirittura l’ingresso nel suo « regno ». Strano « regno », però, quello di Cristo, il cui diritto di accesso è garantito solo a chi passa per la torchiatura della crocifissione, come il ladrone pentito, o a chi riconosce che nella morte di Gesù di Nazaret si esprime il « giudizio » di amore e di perdono di Dio su tutta la viltà e i tradimenti degli uomini, come hanno fatto il centurione romano, le pie donne, ecc. « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (23,34): è ancora il solo Luca che ha saputo esprimere, meglio di qualsiasi altro, questo aspetto estremamente consolante del dramma più oscuro e pauroso che si sia mai svolto nella nostra storia.
Settimio CIPRIANI (+)