LA CENA DEL SIGNORE – (1COR 11,17-34)

http://www.christusrex.org/www1/ofm/san/TSsion008.html

LA CENA DEL SIGNORE – (1COR 11,17-34)

(è molto lungo perché è uno studio, non metto: III commento, ma è da leggere)

P. G. Claudio Bottini ofm

sbf – Gerusalemme

Del tema dell’Eucaristia S. Paolo tratta due volte nella 1Cor e in contesti vivacemente segnati dai problemi della comunità cristiana. Non è fuori luogo dire che è grazie alle difficoltà dei corinzi che abbiamo questi testi sublimi della nostra fede. Il primo intervento si trova nella unità costituita da 1Cor 10,14-22 dove l’apostolo tratta il problema delle carni sacrificate agli idoli. Per dissuadere dall’idolatria porta il motivo del valore sacramentale della cena del Signore. Il calice della benedizione è partecipazione al sangue di Cristo; il pane che i corinzi spezzano è comunione col corpo di Cristo. Di conseguenza tutti formiamo un solo corpo, quello di Cristo, perché tutti di lui ci nutriamo (10,17a). L’unione dei credenti si fonda sulla partecipazione sacramentale al corpo e al sangue di Cristo, la quale a sua volta è segno della unione col Cristo nella stessa fede. Il secondo riferimento all’Eucaristia, più articolato e più complesso, è in 1Cor 11,17-34. Informato dei gravi abusi che si erano introdotti nelle assemblee conviviali a Corinto, Paolo reagisce richiamando il contenuto della tradizione, esattamente l’istituzione della Cena, tradizione che egli dice di aver ricevuta dal Signore, e riporta le parole della istituzione. Su questo brano in cui, come vedremo, Paolo sottolinea fortemente il legame essenziale che esiste tra Eucaristia e Chiesa, tra Cena del Signore e carità fraterna, ci fermeremo in questa riflessione.

I. CONTESTO E ARTICOLAZIONE Richiamando la divisione letteraria e tematica proposta vediamo che l’unità di 1Cor 11,17-34 si trova nella quinta parte della lettera e che abbraccia tutto il cap. 11, eccettuato il v. 1 che fa chiaramente parte dell’unità che precede. L’argomento generale può dirsi il problema posto dall’ordinamento dei raduni di preghiera a Corinto, che viene specificato poi concretamente in due temi: l’abbigliamento dei profeti e delle profetesse nelle assemblee cultuali (11,2-16), la celebrazione della Cena eucaristica (11,17-34). Il brano di 11,17-34, in base a forma e contenuto, può essere ulteriormente diviso in due paragrafi (11,17-22; 11,23-34). Il primo paragrafo si lascia chiaramente delimitare dalla ripetizione delle espressioni « Non posso lodarvi… » (v. 17); « In questo non vi lodo » (v. 22) che fanno inclusione. Prima Paolo aveva lodato la comunità (11,2), ma ora si vede costretto a biasimarla severamente e ne dà le ragioni. Il secondo paragrafo va dal v. 23 al v. 34. Alcuni autori lo suddividono ulteriormente, ma a me pare che esso non vi si presti facilmente, perché il procedere di Paolo è molto serrato dal punto di vista logico e formale. Paolo vi evoca la tradizione « ricevuta dal Signore » e ne mostra le conseguenze per il suo significato di atto cultuale e per coloro che vi partecipano indegnamente (vv. 23-32); poi dà delle regole pratiche di comportamento ai corinzi. Quanto al vocabolario vale la pena notare la ricorrenza insistente e significativa dello stesso termine « convenire / radunarsi » che ricorre ben cinque volte (vv. 17.18.20.33.34 cf. anche i termini concettualmente affini: « in assemblea », v. 18, « insieme »,v 20) e della terminologia giudiziaria: « colpevole » (v. 27), « condanna / condannare » (vv. 29.32), « giudicare » (vv. 31.32) a cui si possono aggiungere per affinità concettuale anche i termini: « in assemblea » (v. 18), « insieme » (v. 20), « Chiesa di Dio » (v. 22). E’ evidente il contrasto con « divisioni » (vv. 18.19), « proprio pasto » (v. 21) e gli atteggiamenti individualistici. La compattezza dell’intero brano è segnalata anche dalla formula di inclusione che si rileva al v. 17 (« poiché vi riunite… per il peggio ») e il v. 34 (« perché non vi riuniate a vostra condanna »). All’interno dell’unità letteraria i versetti da 23 a 26, che riferiscono la memoria eucaristica ricevuta e trasmessa da Paolo, spiccano per contenuto e formulazione. Al centro vi è il racconto, di cui Gesù è protagonista. Lo incorniciano gli interventi di Paolo che dichiara di aver ricevuto e trasmesso tale tradizione / racconto e ora ne interpreta il significato.

II. AMBIENTE VITALE Come si svolgevano a Corinto le assemblee conviviali e quali erano le cause delle divisioni? E’ difficile dare una risposta dettagliata e precisa. Gli studiosi cercano di delineare il quadro ambientale utilizzando gli elementi offerti dal testo paolino, dalla tradizione cristiana delle origini sull’Eucaristia e dalle testimonianze dell’ambiente giudaico e greco-romano sulle riunioni conviviali. Un punto fermo per la ricostruzione è la distinzione che Paolo fa tra la « Cena del Signore » (v. 20) e il « proprio pasto » (v. 21). Per « Cena del Signore » si intende chiaramente la consumazione del pane e del vino secondo il comando del Signore che l’apostolo dice di aver ricevuto e trasmesso ai corinzi. « Ma non si riduce a questo; tra il mangiare e bere il calice, su cui erano pronunciate le parole interpretative e oblative di Gesù, si consumava un pasto vero e proprio, con la tavola imbandita anche di companatico, cioè di pesce e probabilmente pure di carne » (G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, Bologna 1996 564). Per « proprio pasto » si intende invece una cena profana che aveva luogo al termine del giorno e poteva consistere di abbondanti cibi e bevande. Ora Paolo dice che questa cena veniva consumata in occasione del raduno liturgico, durante il quale « ognuno » – da intendere non di tutti ma dei membri facoltosi – mangia per proprio conto con la conseguenza che alcuni giungono a ubriacarsi e altri a soffrire la fame. In che rapporto erano i due pasti? Probabilmente il raduno liturgico della comunità aveva questi momenti: benedizione sul pane, pasto comunitario o agape fraterna, benedizione sul vino. A che punto si collocava quello che Paolo chiama il « proprio pasto »? Con certezza non si può dire, tuttavia si possono formulare due ipotesi: il cosiddetto « proprio pasto » aveva luogo prima che iniziasse il raduno liturgico con la celebrazione della « Cena del Signore »; il « proprio pasto » si svolgeva contemporaneamente all’agape fraterna tra rito della benedizione del pane e quello della benedizione del vino. La seconda ipotesi appare meno probabile. Difficile accettare che a Corinto si giungesse a questo eccesso di discriminazione, cioè che i ricchi mangiassero un pasto privato cui non erano ammessi i poveri e per giunta in concomitanza alla celebrazione della « Cena del Signore ». Più probabile invece che il « proprio pasto » consisteva in un’abbondante cena consumata solo dai ricchi prima del raduno liturgico della comunità. Questa ricostruzione è resa verosimile dalla stratificazione sociale della comunità cristiana di Corinto che risultava composta da una minoranza di credenti provenienti dal ceto medio e medio alto e da una maggioranza di fedeli appartenenti ai ceti più bassi della società inclusi gli schiavi. Certamente l’adesione al Vangelo e l’appartenenza alla stessa comunità di fede aveva creato legami spirituali e comunitari tra i credenti di Corinto, ma essi non riuscivano indubbiamente a cancellare del tutto le massicce differenze e separazioni tra le classi sociali presenti nella società greco-romana e dovute alle diverse condizioni economiche. Queste si esprimevano in tante forme, a cominciare dal modo di trattare gli ospiti a tavola. Il trattamento riservato a ricchi e ospiti di riguardo non era indubbiamente lo stesso di quello tenuto con i poveri. Se a ciò si aggiunge l’eventualità che il raduno liturgico della comunità si teneva nelle case dei membri ricchi, si comprende che questi potevano portare anche una giustificazione al loro modo diverso di accogliere gli ospiti senza per questo sentirsi in colpa. E’ probabilmente in questo quadro ambientale che si devono comprendere gli abusi introdottisi a Corinto e fortemente biasimati da Paolo. « Senza troppi complimenti, i ricchi cominciavano a cenare e così, quando sopraggiungevano gli altri e aveva inizio la celebrazione della cena del Signore, sulla tavola restavano pochi avanzi. In questo modo, la cena agapica di tutta la comunità assumeva un aspetto tristemente egoistico e fortemente discriminatorio: i ricchi si godevano in pace la sazietà, mentre i poveri erano obbligati a consumare i resti del banchetto o rimanevano a stomaco vuoto » (L. D. Chrupcaa, « Chi mangia indegnamente il corpo del Signore [1Cor 11,27]« , Liber Annuus 46 [1996] 65 con ampia presentazione dei problemi e delle soluzioni prospettate da vari studiosi). Chi aveva informato Paolo di questa situazione? Dovevano essere stati degli informatori a voce, perché egli afferma: « sento dire » (v. 18). L’apostolo se ne mostra molto preoccupato e sollecito a rimediare: rileva gli abusi e biasima la maniera di condurre le celebarzioni eucaristiche (vv. 17-22); riconduce alla norma suprema di ogni autentica celebrazione eucaristica, cioè a quanto Gesù fece (vv. 23-26); esorta e dà alcune disposizioni perché si celebri degnamente la Cena del Signore e non incorra nel suo giudizio di condanna (vv. 27-34). L’aspetto più originale dell’istruzione paolina sta nel collegamento tra il sacramento della Cena del Signore e la comunità cristiana, tra la memoria proclamatrice della morte del Signore e la comunione fraterna espressa nel pasto in comune, tra « celebrazione del corpo personale di Gesù, donato a noi nella morte, ed esistenza nostra di solidali membra del corpo ecclesiale di Cristo »(G. Barbaglio, « L’istituzione dell’Eucaristia [Mc 14,22-25; 1Cor 11,23-24 e par.]« , Parola Spirito e Vita 7 [1983] 141). Ancora una volta si vede come gli imperativi morali e spirituali di Paolo hanno degli indicativi teologici supremi. In questo caso, come un po’ in tutta la 1Cor, le motivazioni sono di natura cristologica e ecclesiologica.

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