27 MARZO 2016 | SANTA PASQUA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
27 MARZO 2016 | SANTA PASQUA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
« CRISTO, NOSTRA PASQUA, È STATO IMMOLATO! »
Il Papa Paolo VI, parlando ai fedeli in uno dei consueti appuntamenti dell’Angelus domenicale, per esortarli a prepararsi alla Pasqua ormai vicina, così diceva: « È l’avvenimento supremo della storia del mondo: e la sua annuale celebrazione ci richiama al centro del mistero di Cristo, la sua morte e la sua risurrezione; mistero che si riverbera su tutta l’umanità, e ne penetra gli ignoti destini; e mistero che si riflette, lo sappiamo o no, lo vogliamo o no, su ciascuno di noi personalmente. Arriva sul quadrante del tempo con la sua puntuale memoria, che dà una misura, se non altro, alla filosofia della terra, e per noi un senso alla teologia della storia » (20 marzo 1977). Veramente la Pasqua, a ben esaminarla, compendia tutto il senso della nostra vita e l’aspirazione, anche se molte volte solo irriflessa, della storia umana: un traguardo lontano, ma che già sprigiona forze sotterranee, per cui, non soltanto la morte sarà vinta per sempre, ma anche il male e l’ingiustizia saranno riscattate per la forza onnipotente di Dio. Il Cristo che risorge è il « primo frutto » di questa vittoria radicale sulla morte e sul peccato che la genera: con la risurrezione Dio lo ha « giustificato » davanti al mondo proclamandolo innocente e santo, mentre gli uomini lo avevano assassinato come « malfattore ». C’è dunque un esito positivo a tutte le frementi attese di giustizia e di bontà che sorreggono gli oppressi, i sofferenti, i non compresi, i perseguitati, gli « umiliati e offesi » dell’umanità intera: Dio non delude mai le speranze degli uomini! In questo senso anche per chi non ha fede la Pasqua può rappresentare se non altro un sogno, un desiderio del cuore: può dare « una misura alla filosofia della terra », come ci ricordava all’inizio Paolo VI. Per noi credenti, però, essa deve dare « un senso alla teologia della storia ».
« Togliete il lievito vecchio… » Cerchiamo pertanto di cogliere alcune linee di questa meravigliosa « teologia » nelle letture bibliche della solenne Liturgia pasquale. Data la possibilità di scelta, come seconda lettura abbiamo preferito il brano della 1 Cor 5,6b-8 invece che Col 3,14, perché ci sembra più adatta a sorreggere il tipo di riflessione che vorremmo qui proporre. In questo brevissimo tratto S. Paolo, con il suo solito stile denso e conciso, ci insegna il senso profondo della Pasqua cristiana, leggendo in chiave « prefigurativa » alcuni elementi cerimoniali della Pasqua giudaica. Nel contesto immediatamente precedente egli aveva rimproverato i cristiani di Corinto per aver tollerato il caso dell’incestuoso senza intervenire a eliminare o punire così grave immoralità, che rischiava di diffondere forme di ulteriore lassismo in mezzo alla comunità, a guisa di un « fermento » malefico. Di qui l’invito che l’Apostolo rivolge ai suoi cristiani: « Togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siate azzimi. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità » (1 Cor 5,7-8). Il riferimento alla Pasqua deve essere stato occasionato proprio dal fatt che la lettera è stata quasi certamente scritta nella imminenza di questa festa (primavera del 56 o del 57). Come è risaputo, durante tutto il periodo della festa di Pasqua gli Ebrei dovevano mangiare solo « pane azzimo », cioè non fermentato, in ricordo della precipitosa fuga dalla prigionia egiziana: « Per sette giorni voi mangerete azzimi. Già dal primo giorno farete sparire il lievito dalle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al giorno settimo, quella persona sarà eliminata da Israele… » (Es 12,15). Interpretando questa prassi liturgica in chiave morale, S. Paolo invita i cristiani a « rinnovarsi » interiormente, eliminando tutto il « vecchio » che c’è nella loro vita, nei loro pensieri, nei loro sentimenti: « Togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siete azzimi » (v. 7). Come si vede, il « lievito » viene qui preso come simbolo del male, che è sempre una realtà di decadenza e di corrompimento dello spirito; mentre il pane azzimo è simbolo della purezza, della « sincerità » del cuore (v. 8), della novità « primaverile » della vita: non si dimentichi che la Pasqua è festa di primavera! Abbiamo qui un esempio tipico della morale paolina: diventare ciò che si è. « Poiché siete azzimi », dal momento cioè che Cristo vi ha rinnovati, dovete vivere sempre in questa « novità di vita » (Rm 6,4). Cristo ci ha rinnovati, diventando lui la « nostra Pasqua »: « Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato » (v. 7). Con questa frase fortissima S. Paolo intende dire che Gesù compendia in sé tutto il significato teologico della vecchia Pasqua ebraica: liberazione dalla schiavitù d’Egitto, nuova alleanza di amore con il suo popolo, immissione nella Terra promessa, ecc. E non solo la compendia, ma anche la sostituisce e la trascende, facendosi lui Pasqua « nuova » per il nuovo popolo di Dio. Questo è avvenuto nella sua « immolazione » di croce, quando egli si è presentato come l’agnello « senza difetti e senza macchia » (1 Pt 1,19), che ci ha salvati con il suo « sangue prezioso » (ivi). L’immolazione e la manducazione dell’agnello pasquale, che per gli Ebrei costituiva il gesto culminante e come l’anima della loro festa, tendeva dunque a significare una realtà più grande che si è compiuta in Cristo: per questo Giovanni dirà che Gesù muore proprio quando gli Ebrei stavano per immolare l’agnello pasquale (19,31.36). Dicendo poi che Cristo è la « nostra Pasqua » (v. 7), S. Paolo intende sottrarre la solennità pasquale a ogni « ritualismo », nel senso che ormai, identificandosi essa con il Cristo morto e risorto, è chiaro che non potremo celebrarla degnamente se non « inserendoci » nel suo stesso mistero di morte e di risurrezione. È quanto egli insegna in Rm 6,4-7 quando, parlando del Battesimo come sacramento della nostra inserzione nel mistero pasquale, così si esprime: « Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova… Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto è ormai libero dal peccato ». Anche S. Atanasio, in una delle sue Epistole pasquali invitava i cristiani a celebrare « la festa del Signore non con le parole soltanto, ma con le opere » della loro vita. « Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro » Certo, per arrivare ad assimilare fino in fondo la forza di rinnovamento e di trasformazione della Pasqua bisogna « percorrere » un non facile itinerario di fede. Credo che sia proprio quello che intende insegnarci il brano di Vangelo ripreso da Giovanni (20,1-9), che ci descrive due episodi relativi alla risurrezione, intrecciati fra di loro. Nella prima scena ci viene presentata l’andata di Maria di Magdala, di buon mattino, al sepolcro e l’immediato ritorno a Gerusalemme per annunciare a Simon Pietro e al discepolo « che Gesù amava »: « Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto » (vv. 1-2). Il secondo episodio ci descrive la corsa dei due Apostoli al sepolcro, per verificare l’accaduto: « Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti » (vv. 4-9). La prima cosa da osservare in questi due episodi è la comune attestazione della « difficoltà » di credere alla risurrezione del Signore: non appena Maria di Magdala si accorge che « la pietra era stata ribaltata dal sepolcro » (v. 1), pensa subito al furto del cadavere del Signore; e i due Apostoli che, avvertiti, vi accorrono precipitosamente, ci vanno con la stessa preoccupazione. Nessuno pensa alla possibilità che Cristo fosse risorto dai morti, come pur aveva ripetutamente preannunciato! E anche quando, poco dopo, Maria di Magdala piangente davanti al sepolcro si vedrà comparire Gesù, lo prenderà per il giardiniere e gli domanderà ancora: « Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto, e io andrò a prenderlo » (v. 17). Tutto questo dice indubbiamente un grande attaccamento a Gesù: si pensa a lui, se ne vuol rivivere in qualche modo la memoria, però si è convinti che tutto è finito con la sua morte e deposizione nella tomba! La seconda cosa da osservare è l’interesse che il quarto Evangelista ha nei riguardi di quell’anonimo discepolo che egli definisce solo con la circonlocuzione « quello che Gesù amava » (v. 2): corre più veloce di Pietro, arriva per primo al sepolcro, ma non vi entra; poi finalmente vi entrò « e vide e credette » (v. 8). Vince in tutto Pietro, salvo che nell’entrare nel sepolcro e verificare possibili tracce di quanto vi fosse accaduto. Che significa tutto questo? Qualcuno ha voluto pensare a una specie di « concorrenza » e quasi di rivalità fra Pietro e Giovanni, che dovrebbe identificarsi con il « discepolo che Gesù amava ». Credo molto più semplicemente che si tratti di una descrizione con caratteri « allegorizzanti » in cui Giovanni, proprio perché è il discepolo « amato » da Gesù, previene Pietro per la « chiaroveggenza dell’amore » (D. Mollat). D’altra parte, Pietro è colui che verifica le condizioni della fede, nel senso che, pur essendo arrivato in ritardo, entra per primo nel sepolcro e si rende conto che, dato l’ordine in cui si trovavano le bende e il sudario, non poteva essersi verificato nessun caso di precipitoso trafugamento del cadavere. A questo punto anche l’altro discepolo « entrò nel sepolcro e vide e credette » (v. 8). Pietro e Giovanni sono in tal modo i primi testimoni del Cristo risorto, perché insieme si sono aiutati a percorrere il cammino della fede: Pietro ha avuto più lucidità di mente, Giovanni ha avuto più fiamma di amore. È la sintesi di questi due elementi che crea il cristiano completo: capacità di intuire e capacità di amare. Questa sintesi di intelligenza e di amore è soprattutto necessaria davanti al mistero del Cristo risorto, perché non ci fermiamo a una sterile confessione di fede che ci dia solo gioia e sicurezza, ma penetriamo nell’intimo di questo mistero lasciandoci « trasformare » in pieno dalla forza « vivificante » dell’evento pasquale, per diventare a nostra volta fermento di risurrezione per il mondo intero.
Settimio CIPRIANI (+) Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflesisoni biblico-liturgiche, Elledici, Torino
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