RICOEUR, LA VITA BUONA È AVER CURA DELL’ALTRO

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RICOEUR, LA VITA BUONA È AVER CURA DELL’ALTRO   

« »Discrimine » è la realizzazione di una comunità retta da istituzioni giuste, che nel loro operato pongano al centro l’idea che la » diseguaglianza » si vince dando « a ciascuno la sua parte »».

Paul Ricoeur (« Avvenire », 12/10/’07)

Definirei la prospettiva etica con questi tre termini: « auspicio della vita buona, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste ». Le tre componenti della definizione sono egualmente importanti. Parlando innanzitutto della vita buona, desidererei sottolineare il modo grammaticale di questa espressione tipicamente « aristotelica »: è ancora quello dell’ »ottativo » e non già quello dell’imperativo. È, nel senso più forte della parola, un auspicio (« souhait »): «Possa io, possa tu, possiamo noi vivere bene», e anticipiamo l’adempimento di questo auspicio con una esclamazione del tipo: «Felice colui che…!». Se la parola « auspicio » sembra troppo debole, parliamo – senza particolare fedeltà a Heidegger – di « cura »: cura di sé, cura dell’altro, cura delle istituzioni. Ma la cura di sé è un buon punto di partenza? Non sarebbe più opportuno partire dalla cura dell’altro? Se tuttavia insisto su questa prima componente, è proprio per sottolineare che il termine « sé » – che amerei associare a quello di « stima » sul piano etico fondamentale, riservando quello di « rispetto » al piano morale, « deontologico » della nostra ricerca – non si confonde affatto con l’io (« moi »), e quindi con una posizione « egologica » che dall’incontro con l’altro sarebbe necessariamente sovvertita. Sono due le cose fondamentalmente stimabili in sé: innanzitutto, la capacità di scegliere in base a delle ragioni, di preferire questo a quello – in breve, la capacità di agire « intenzionalmente »; poi, la capacità di introdurre cambiamenti nel corso delle cose, di cominciare qualcosa nel mondo, la capacità di « iniziativa ». In tal senso, la stima di sé è il momento riflessivo della « praxis »: apprezzando le nostre azioni apprezziamo noi stessi in quanto ne siamo autori, e quindi in quanto altra cosa da semplici forze della natura o semplici strumenti. Si dovrebbe sviluppare tutta una teoria dell’azione per mostrare come la stima di sé accompagni la « gerarchizzazione » delle nostre azioni. Passiamo al secondo momento: vivere bene « con e per gli altri ». In che modo la seconda componente della prospettiva etica, che designo con il bel nome di « sollecitudine », si connette con la prima? La stima di sé, con la quale abbiamo cominciato, non porta in sé, in ragione del suo carattere riflessivo, il pericolo di un ripiegamento sull’io, di una chiusura, di contro all’apertura sull’orizzonte della vita buona? Nonostante questo pericolo certo, la mia tesi è che la sollecitudine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma ne « dispiega l’implicita dimensione dialogale ». Stima di sé e sollecitudine non possono viversi e pensarsi l’una senza l’altra. Dire « sé » non è dire « io ». « Sé » implica altro da sé, affinché possa dire di qualcuno che stima se stesso come un altro. In verità, solo per astrazione si può parlare della stima di sé senza metterla in coppia con una richiesta di reciprocità, secondo uno schema di stima incrociata, riassunta nell’esclamazione « anche tu »: anche tu sei un essere di iniziativa e di scelta, capace di agire secondo ragioni e « gerarchizzando » dei fini; e, stimando buoni gli oggetti della tua ricerca, sei capace di stimare te stesso. L’altro (« autrui ») è colui che può dire « io » al pari di me e, come me, considerarsi un agente, autore e responsabile dei suoi atti. Altrimenti, nessuna regola di reciprocità sarebbe possibile. Il miracolo della reciprocità sta nel fatto che le persone siano riconosciute come insostituibili nello scambio stesso. Questa « reciprocità degli insostituibili » è il segreto della sollecitudine. In apparenza, la reciprocità sembrerebbe completa solo nell’amicizia, ove l’uno stima l’altro « quanto » sé. Ma la reciprocità non esclude una certa inadeguatezza, come nella « sottomissione » del discepolo al maestro. L’ineguaglianza tuttavia è corretta dal « riconoscimento » della superiorità del maestro, riconoscimento che ristabilisce la reciprocità. Inversamente, l’ineguaglianza può provenire dalla debolezza dell’altro, dalla sua sofferenza. In questo caso è compito della compassione ristabilire la reciprocità, nella misura in cui, nella compassione, colui che pareva il solo a donare riceve, attraverso la gratitudine e la riconoscenza, più di quanto abbia donato. La sollecitudine ristabilisce l’eguaglianza là ove essa non è data, come invece nell’amicizia tra eguali. Vivere bene, con e per l’altro, « all’interno di istituzioni giuste ». Che la prospettiva del vivere bene comprenda in qualche modo il senso della giustizia, è implicato nella nozione stessa dell’altro. L’altro è tanto l’altro quanto il « tu ». « Correlativamente », la giustizia s’estende al di là del « faccia a faccia ». Sono qui in gioco due « asserzioni »: per la prima, il vivere bene non si limita alle relazioni interpersonali, ma s’estende alla vita nelle istituzioni; per la seconda, la giustizia presenta dei tratti etici non contenuti nella sollecitudine, essenzialmente un’esigenza di eguaglianza d’altro tipo rispetto a quello dell’amicizia. Riguardo al primo punto, come «istituzione» si deve intendere, a questo livello della ricerca, tutte le strutture del vivere insieme di una comunità « storica », irriducibili alle relazioni interpersonali e tuttavia connesse a esse in un senso significativo che la nozione di distribuzione – quale si ritrova nell’espressione « giustizia distributiva » – permette di chiarire. In effetti, si può intendere una istituzione come un sistema di divisione, di ripartizione, attinente a diritti e doveri, redditi e patrimoni, responsabilità e poteri – in breve, vantaggi e oneri. Proprio questo carattere « distributivo » – nel senso ampio della parola – pone un problema di giustizia. Una istituzione ha un’ampiezza più vasta del « faccia a faccia » dell’amicizia o dell’amore: nell’istituzione, e attraverso i processi di distribuzione, la prospettiva etica s’estende a tutti coloro che il « faccia a faccia » lascia fuori in quanto « terzi ». Si forma così la categoria del « ciascuno » – che non è affatto il « si » – ma il « partner » di un sistema di distribuzione. La giustizia consiste precisamente nell’attribuire « a ciascuno la sua parte ».

 

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