Archive pour février, 2016

FEDE E MUSICA: MUSICA E CANTO COME ESPRESSIONE DI FEDE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/devozione/06-07/05-Musica_e_canto.html

FEDE E MUSICA: MUSICA E CANTO COME ESPRESSIONE DI FEDE

(ci sono molte immagini sul sito, elenco sotto)

Le origini religiose del melodramma Come si è detto nel numero scorso, il contesto nel quale nasce il canto è quello liturgico, fin dai tempi più remoti. Per “liturgico” si intende quel clima in cui parole, gesti e scelte sono ispirati dal senso della presenza divina. Quindi, evocare le origini del teatro lirico vuole dire riportarsi alle prime esperienze delle tragedie greche, in cui dèi e uomini si muovevano in piena simmetria di passioni, di ascese e di cadute. Omero ben dimostra come gli dèi si pieghino, talvolta, all’arroganza umana, e gli uomini da parte loro finiscano sempre con il piegare il capo alla supremazia di questi esseri tanto celesti quanto antropomorfi. Non esiste religione, per quanto primitiva, che non si manifesti con una configurazione musicale, cantata, danzata e mimata in cui dèi ed eroi appaiono secondo l’immagine convenuta mimando al suono degli strumenti il ricordo delle gesta che li hanno resi celebri. Di qui l’eccessivo antropomorfismo dei numi pagani, la cui caduta, oltre che alla forza della Rivelazione che irrompe nella storia, può anche essere addebitata alla loro totale sottomissione alle passioni. Gli dèi non si sottraggono alla ferrea volontà oscura dell’ananke greca, cioè il “fato”, che non teme la loro forza e li opprime e distrugge con il suo impenetrabile volere. Le grandi leggende della tragedia greca sono esempio eloquente della fragilità di fondo degli dèi, e se le prime opere nel senso moderno del termine hanno portato sulla scena la storia di Orfeo e di Euridice, questo non è avvenuto per filiazione diretta dell’ellenismo, ma per l’eredità dell’Umanesimo, preoccupato di ricoprire, con una matrice illustre, ciò che proveniva da ambiente pagano. Di qui si deduce che all’origine del melodramma vi è sì la tragedia pagana, nella quale non mancano suoni e cori; ma il passaggio al melodramma avviene grazie alla celebrazione – sia pure teatrale e ugualmente sgangherata – del mistero divino della Rivelazione e della Redenzione, svolta sulla base delle note del Quem queritis pasquale. Prima però di considerare quelle opere dalle quali, in modo inequivocabile, emerge l’elemento religioso – pagano prima e cristiano dopo, perciò fonte genuina del melodramma – è opportuno esaminare il luogo dal quale il melodramma muove i suoi primi e certo vaghi passi: l’ambiente e la cultura monastica. Infatti al centro dell’attività culturale medioevale si colloca indiscutibilmente l’Ordine di San Benedetto, e, nell’àmbito della sua vasta organizzazione, quella di Cluny è senza dubbio la più attiva di tutte. È nel canto che il Medioevo, così attento a scoprire i virtuali spunti di sviluppo, troverà, sia pur tardivamente, il punto d’inserzione che gli occorre per creare il nuovo genere, quello che dopo quattro secoli diverrà il melodramma dell’epoca moderna. Poiché, com’è noto, il Medioevo non crea mai ex-nihilo: non fa altro che svolgere e trasformare, ma con tale virtuosismo da risultare un creatore immenso. Ma già nel X secolo prende forma, a poco a poco, quello che diventerà il nostro teatro lirico; e la preistoria degli elementi destinati a costituirlo ha inizio molto tempo prima, addirittura nel secolo III, con una famosa frase in lingua greca, Iesous Christos Theou Uios Soter (Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore), che forma a sua volta l’acrostico Ichtus (pesce), simbolo dei primi cristiani. La frase, piamente raccolta da Sant’Agostino nel trattato De Civitate Dei, viene così a far parte del patrimonio letterario del grande Dottore della Chiesa. I suoi scritti sono frequentissimi nelle letture liturgiche, e sovente vengono anche cantati; la frase suddetta è talmente affascinante che non di rado, nei cori dei monaci, viene lasciata alla voce di un cantore solista, il quale diventa in qualche modo anche “attore”, cantando la profezia e gesticolando. A Limoges, verso la fine del secolo XI, i monaci hanno l’idea feconda di aggiungere, all’inizio della celebrazione corale, una parabola evangelica di carattere profetico, sull’argomento medesimo della venuta di Cristo. Proprio nell’abbazia di San Marziale, a Limoges, si trova un manoscritto che può considerarsi il primo lavoro del teatro lirico (1099). Si tratta della sceneggiatura, interamente cantata, metà in latino metà in dialetto limosino, della parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. L’angelo Gabriele canta un prologo moraleggiante, poi le vergini stolte si addormentano e quando si svegliano esprimono col canto, in strofe appassionate, il loro sgomento, supplicando le vergini sagge. Queste rispondono di andare dal mercante, e nel frattempo giunge il Cristo. Le vergini stolte finalmente si presentano, ma è ormai tardi. ll Cristo pronuncia cantando la maledizione e, dice il manoscritto, tunc accipient eas demones et precipitentur in infernum. Da questo straordinario documento, che nella liturgia monastica viene collocato tra le preghiere mattutine, ha inizio una torrenziale quantità di “misteri” cantati, ispirati ciascuno ad un racconto biblico o ad una verità della fede. Estremamente prolifica in questo settore è la Francia: e ovviamente menti eccelse del calibro di San Bernardo di Clairvaux (1091-1153) danno il loro contributo. Dal mystère si passa al miracle, composizione anch’essa di carattere sacro che tende a staccarsi dal contesto liturgico, fino a diventare una rappresentazione a sé stante, la moralité. La parte della musica, e naturalmente della voce, non conosce più limiti: diviene elemento mistico, pittoresco, simbolico, e in ogni caso indispensabile ancella del dramma. Indispensabile sì, ma, questa è la novità, con la funzione di ancella: il suo ruolo è quello della musica di scena e non costituisce più un supporto necessario, liturgico o meno. Dal secolo XVI l’azione sacra diventa tragico-sacra, e la nascita del madrigale (genere rappresentativo della musica profana) e del mottetto (genere musicale di carattere sacro) sono suggellati dai grandi nomi di Pierluigi da Palestrina (1525-1594) , Orlando di Lasso (1532-1594) fino a giungere al massimo compositore di quei due secoli e padre del melodramma, Claudio Monteverdi (1567-1643). Dal suo prodigioso Vespro della Beata Vergine (1610), stupenda celebrazione musicale in onore di Maria, Monteverdi approda all’opera teatrale con Orfeo (1607), cui fanno seguito i fondamenti del teatro lirico, Il ritorno di Ulisse in patria (1641) e L’incoronazione di Poppea (1642).

Espressioni religiose moderne Al termine di questo sguardo sull’origine religiosa del melodramma è utile un riferimento, che attesti quanto l’opera lirica sia rimasta profondamente animata proprio dal sentimento divino. Il patrimonio musicale italiano è certo quello più ricco, in Europa; ma pure quello francese contiene pagine insigni per orchestra e voci, di bellezza veramente superiore, e ovviamente immortali. Entrambe, Italia e Francia, e forse più ancora la seconda, affrontano con straordinaria attenzione il tema religioso. Le pagine francesi sono talmente ricche e vaste da richiedere uno sguardo apposito, che, magari, potrà trovare spazio in una prossima puntata. Le pagine italiane acquistano un tono meno filosofico e più popolare, ma raggiungono ugualmente, con assoluta e liberatoria precisione, il cuore dell’uomo. Uno degli innumerevoli esempi si trova in Gaetano Donizetti, nell’opera L’assedio di Calais (Napoli, 1836), dove amore patrio, affetti familiari, eroismo e fiducia in Dio si uniscono in un’unica elegia di amore. Al termine del secondo atto, i francesi sconfitti e umiliati dagli inglesi – siamo nel 1347, piena Guerra dei Cento Anni – si rivolgono fiduciosi all’onnipotenza divina, certi che il loro sacrificio non resterà senza premio celeste:

Oh Tu che scerni ogni pensiero, fonte di vita, luce del vero, a questi martiri del patrio zelo le immense volte apri del cielo. Sol fia per loro premio condegno seder fra gli angeli, dappresso a Te.

La modestia di questi versi, che possono persino riuscire ridicoli, non ha bisogno di sottolineature. Possono però, con l’armonia delicatissima di cui sono rivestiti, aiutarci a riflettere su di una verità: fin tanto che non avremo la città della pace, nella quale nessun antagonismo sarà più risolto con la forza, ma soltanto con l’amore tra gli uomini, noi saremo sempre in cammino. Fino a quando cioè non coesisteranno, su questa terra, il Regno di Dio e il Regno dell’uomo, che si intersecano a vicenda in una sola armonia di pace.  Franco Careglio OFM

IMMAGINI: 1  Il canto cristiano è l’espressione della gioia per la salvezza che Dio offre all’uomo. 2-3  Dai testi liturgici, nel Medioevo si sviluppa il melodramma grazie anche al contributo di maestri e letterati che allargano il momento celebrativo mediante piccole introduzioni che riprendono i testi evangelici e li elaborano in forma spettacolare. 4-5  Claudio Monteverdi (1567-1643) e Orlando di Lasso (1532-1594). 6-7  Gaetano Donizetti (1797-1848) e Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594). 8  La rappresentazione della Passione è sempre stata una delle occasioni preferite dal popolo cristiano per manifestare la propria fede.

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ESAMINATE OGNI COSA: SPIRITO DEL TEMPO O SEGNI DEI TEMPI? (studi paolini)

http://www.gliscritti.it/approf/2009/papers/lonardo280209.htm

ESAMINATE OGNI COSA: SPIRITO DEL TEMPO O SEGNI DEI TEMPI?

di Andrea Lonardo

«Fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene» (Rm 12,9). La lettera ai Romani, nel presentare l’atteggiamento del cristiano dinanzi alla cultura del proprio tempo, ripete le parole del primo scritto paolino, la prima lettera ai Tessalonicesi: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono, astenetevi da ogni specie di male» (1 Ts 5,21-22). Dove è immediatamente evidente la presenza nella vita del bene e, insieme, la coscienza che anche il male è all’opera. L’invito a non conformarsi «alla mentalità di questo secolo» (Rm 12, 2) indica ulteriormente la serietà della questione del discernimento che si impone a partire dalla presenza di Cristo nel mondo. Ha scritto una volta lo psicoanalista C. G. Jung che «con lo spirito del tempo non è lecito scherzare: esso è un credo a carattere completamente irrazionale, ma con l’ingrata proprietà di volersi affermare quale criterio assoluto di verità, e pretende di avere per sé tutta la razionalità. Lo spirito del tempo si sottrae alle categorie della ragione umana. Esso agisce su basi inconsce esercitando una suggestione preponderante sugli spiriti più deboli e trascinandoli con sé. Pensare diversamente da come si pensa oggi genera sempre un senso di fastidio e dà l’impressione di una cosa non giusta; può apparire persino una scorrettezza, una morbosità, una bestemmia» (da “Realtà dell’anima”). Quanto è necessario allora esercitare un vigile discernimento fra quelli che sono i “segni dei tempi”, secondo la nota espressione evangelica ripresa dal Concilio Vaticano II, e quello che è lo “spirito del tempo”, la “mentalità del secolo”, secondo il linguaggio paolino! Paolo nel cogliere la permanenza della presenza del bene si rivolge all’uomo in quanto tale, prima che alle singole culture da lui prodotte. Nella lettera ai Romani si sofferma sulla dimensione religiosa che appartiene al cuore umano (Rm 1,19-20). L’animo umano, pur non essendo in grado di giungere al mistero della croce di Cristo con le proprie forze, poiché questo è possibile solo a partire dalla rivelazione di Dio, manifesta l’apertura dell’uomo all’Infinito. Paolo afferma così implicitamente che la ricerca di Dio, la nostalgia di Dio presente nel cuore umano, è una delle caratteristiche più proprie dell’uomo che ne manifesta la sua dignità altissima. In un’intervista rilasciata ad alcune televisioni tedesche nel 2006 il papa Benedetto XVI ha affermato, a questo proposito, che «l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. Proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente». L’anelito a Dio è riconosciuto da Paolo come uno degli aspetti più grandi dell’esperienza umana ed anche nel famoso discorso dell’Areopago, pur fremendo «nel suo spirito al vedere la città piena di idoli» (At 17,16), inizia la sua predicazione testimoniando che i cittadini ateniesi sono «in tutto molto timorati degli dèi» (At 17,22). Ma anche l’esperienza morale, il relazionarsi al bene ed al male, appaiono a Paolo come straordinarie manifestazioni della dignità nativa dell’uomo, poiché essi hanno pur sempre, anche nel peccato, «la testimonianza della loro coscienza e dei loro stessi ragionamenti che ora li accusano ora li difendono» (cfr. Rm 2,15). Ma «poiché tutti hanno peccato» (Rm 5,11) ecco che sempre, a fianco del bene, la voce del male fa sentire la sua presenza e cerca di confondersi con il soffio dello Spirito. G. K. Chesterton così scriverà nei “Racconti” che hanno per protagonista il suo personaggio più famoso, il prete cattolico inglese padre Brown: «Sono un uomo – rispose padre Brown, gravemente – e perciò ho il cuore pieno di diavoli». Proprio questa capacità di leggere il cuore dell’uomo, a partire dal bene e dal male che vi abitano, sarà la carta vincente delle indagini nelle quali Scotland Yard non riesce a mettere le mani sui peggiori delinquenti, mentre il piccolo pretino risolve i casi più difficili, offrendo poi spesso al malvivente la possibilità del ravvedimento. Chesterton commenterà poi che «la Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo». Il rapporto della fede con il tempo si rivela così anceps, nell’epistolario paolino. Da un lato sempre l’uomo conserva le tracce della sua dignità, del suo desiderio di Dio, della sua grandezza di cuore, che lo contraddistinguono come colui che è uscito dalle mani del Creatore, ma, contemporaneamente, ogni singolo uomo porta in sé dei germi di morte penetrati a motivo del peccato originale e dei peccati che ne sono conseguiti. Così è anceps l’atteggiamento della fede cristiana dinanzi ad ogni cultura. In ogni epoca il cristiano cercherà, da un lato, di accogliere, ricevere e valorizzare quegli elementi che sono propri di ogni cultura e che manifestano nella storia la loro appartenenza a quel bene originario derivante dalla creazione e dalla presenza dello Spirito nel tempo, mentre, dall’altro, sottoporrà quella stessa cultura a critica, perché essa venga come rinnovata dall’interno, perché siano posti in luce e combattuti i suoi elementi di male. In questo senso non corrisponde a verità l’affermazione che il cristianesimo paolino o successivo a lui si è semplicemente ellenizzato – analoghe espressioni potrebbero orientare in vista di una ebraicizzazione o di una occidentalizzazione o di una orientalizzazione del cristianesimo – ma piuttosto la storia della Chiesa mostra che è stata la grecità, la latinità, così come l’ebraicità o l’africanità, a cristianizzarsi. Supremo è, per Paolo, il riferimento a Cristo. È alla sua luce e sotto la sua grazia che si manifesta ciò che è conforme e ciò che è difforme dal vangelo. Come nessuna cultura è povera di doni dinanzi a Cristo, così nessuna cultura è esente da un male dalla quale deve essere purificata attraverso un faticoso rinnovamento interiore. La ricchezza della fede consiste così nel fatto che essa è capace di accogliere ed insieme rinnovare le culture più diverse pur rimanendo pienamente se stessa.

Jesus and Children

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http://www.eospirituality.com/2014/12/remembering-14000-holy-infants-slain-by.html

Publié dans:immagini sacre |on 3 février, 2016 |Pas de commentaires »

TAIZÉ – 2009 FEBBRAIO – 1 CORINZI 9, 16-27: L’ESEMPIO DI PAOLO: TUTTO A TUTTI

http://www.taize.fr/it_article172.html?date=2009-02-01

Testo biblico con commento

Queste meditazioni bibliche mensili sono proposte per sostenere una ricerca di Dio nel silenzio e nella preghiera, anche nella vita quotidiana. Si tratta di prendere un’ora per leggere in silenzio il testo biblico suggerito, accompagnato dal breve commento e dalle domande. Ci si riunisce poi in piccoli gruppi, da 3 a 10 persone, a casa di uno dei partecipanti o in chiesa, per un breve scambio su ciò che ognuno ha scoperto, con eventualmente un momento di preghiera.

TAIZÉ – 2009 FEBBRAIO – 1 CORINZI 9, 16-27: L’ESEMPIO DI PAOLO: TUTTO A TUTTI

San Paolo scrive: Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo.   Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.   Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato. (1 Corinzi 9,16-27) Le parole di San Paolo sono come fuoco. Tutto il suo essere è pieno e mosso dallo zelo di annunciare il Vangelo. Per lui è una necessità, un felice obbligo. Senza provare vergogna, dice: «Guai a me se non predicassi il Vangelo» (v.16). Parla così perché il Vangelo è la forza di Dio per la salvezza di chi crede (Romani 1,16). Dapprima, lui stesso è stato preso da questa forza, corpo e anima. Incontrando il Cristo risorto, la sua vita si è trasformata ed è iniziata una nuova vita in comunione con lui. Ora, vuole trasmettere l’amore di Dio manifestato nella persona di Gesù a coloro che non lo conoscono ancora.

Con forza ed eloquenza l’apostolo svela il segreto del suo ministero d’evangelizzazione. Senza contraddizione né polemica, egli s’identifica con ciascuno e con tutti, anche appartenenti a categorie opposte. Vuole andare oltre le separazioni culturali e religiose per avere l’accesso a tutti, per «guadagnare» ascoltatori. L’apostolo è veramente libero e non si lascia paralizzare dalle opinioni correnti. Infatti si tratta d’annunciare la Parola di Vita a tutti senza eccezione, poiché Cristo è morto e risorto per tutti.

Le immagini dell’atleta e della corona fanno vedere quanta disciplina, sacrificio e padronanza di sé sono richiesti a coloro che s’impegnano nel lavoro dell’evangelizzazione. Come gli atleti, i discepoli hanno bisogno di allenarsi.

Paolo è un realista. Sa che il suo messaggio non sarà accolto da tutti. Ma questo non lo scoraggia né gli impedisce di osar superare le barriere apparentemente insormontabili. Se ha tanto operato e in un certo senso anche riuscito nel suo ministero, evita ogni orgoglio. È consapevole dei suoi limiti e delle sue debolezze. Ma nonostante tutto, Dio è all’opera. Paolo dirà più tardi che il tesoro del Vangelo noi lo portiamo in vasi di creta (2 Corinzi 4,7). Sa molto bene che la forza viene da Dio, non da noi.

Paolo mostra il suo zelo per l’annuncio del Vangelo, non per vantarsi, ma per esortare con il suo esempio i cristiani dispersi tra i popoli a maggioranza non credenti. Egli segue l’esempio di Gesù, suo maestro. Durante la sua vita sulla terra Gesù stesso non ha escluso nessuno e ha mostrato il volto di Dio, Padre di tutti gli uomini.

Oggi, come ai tempi di San Paolo, vivere del Vangelo e annunciarlo vanno di pari passo. In questo mondo sempre segnato dalle divisioni e opposizioni, si tratta di annunciare Cristo che ha distrutto la barriera di separazione che è l’odio, l’ostilità (vedi Efesini 2,14). Senza mettersi in un campo contro l’altro, si avrà l’audacia di annunciare il Cristo di comunione? Ciò incomincia in noi stessi. L’atteggiamento di San Paolo c’ispira e c’interpella.

PAPA FRANCESCO – MEDITAZIONE 16.5.13 – I GUAI DI SAN PAOLO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20130516_san-paolo.html

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

I GUAI DI SAN PAOLO

Giovedì, 16 maggio 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 112, Ven. 17/05/2013)

Con la sua testimonianza di verità il cristiano deve «dar fastidio» alle «nostre strutture comode», anche a costo di finire «nei guai», perché animato da una «sana pazzia spirituale» per tutte «le periferie esistenziali». Sull’esempio di san Paolo, che passava «da una battaglia campale a un’altra», i credenti non devono rifugiarsi «in una vita tranquilla» o nei compromessi: oggi nella Chiesa ci sono troppo «cristiani da salotto, quelli educati», «tiepidi», per i quali va sempre «tutto bene», ma che non hanno dentro l’ardore apostolico. È un forte appello alla missione — non solo nelle terre lontane ma anche nelle città — quello che Papa Francesco ha lanciato stamani, giovedì 16 maggio, nella messa celebrata nella cappella della Domus Sanctae Marthae. Punto di partenza della sua riflessione il passo degli Atti degli apostoli (22, 30; 23, 6-11) che vede protagonista appunto san Paolo nel pieno di una delle sue «battaglie campali». Ma stavolta, ha detto il Papa, è una battaglia «anche un po’ iniziata da lui, con la sua furbizia. Quando si è accorto della divisione fra quelli che lo accusavano», tra sadducei e farisei, ha fatto in modo che andassero «uno contro l’altro. Ma tutta la vita di Paolo era di battaglia campale in battaglia campale, di persecuzione in persecuzione. Una vita con tante prove, perché anche il Signore aveva detto che questo sarebbe stato il suo destino»; un destino «con tante croci, ma lui va avanti; lui guarda il Signore e va avanti».

E «Paolo dà fastidio: è un uomo — ha spiegato il Pontefice — che con la sua predica, con il suo lavoro, con il suo atteggiamento dà fastidio perché proprio annuncia Gesù Cristo. E l’annuncio di Gesù Cristo alle nostre comodità, tante volte alle nostre strutture comode, anche cristiane, dà fastidio. Il Signore sempre vuole che noi andiamo più avanti, più avanti, più avanti». Vuole «che noi non ci rifugiamo in una vita tranquilla o nelle strutture caduche. E Paolo, predicando il Signore, dava fastidio. Ma lui andava avanti, perché aveva in sé quell’atteggiamento tanto cristiano che è lo zelo apostolico. Aveva proprio il fervore apostolico. Non era un uomo di compromesso. No! La verità: avanti! L’annuncio di Gesù Cristo: avanti! Ma questo non era soltanto per il suo temperamento: era un uomo focoso».

Tornando al racconto degli Atti, il Papa ha rilevato come «anche il Signore s’immischia» nella vicenda, «perché proprio dopo questa battaglia campale, la notte seguente, dice a Paolo: coraggio! Va’ avanti, ancora di più! È proprio il Signore che lo spinge ad andare avanti: “Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma”». E, ha aggiunto il Papa, «fra parentesi, a me piace che il Signore si preoccupi di questa diocesi fin da quel tempo: siamo privilegiati!».

«Lo zelo apostolico — ha quindi precisato — non è un entusiasmo per avere il potere, per avere qualcosa. È qualcosa che viene da dentro e che lo stesso Signore vuole da noi: cristiano con zelo apostolico. E da dove viene questo zelo apostolico? Viene dalla conoscenza di Gesù Cristo. Paolo ha trovato Gesù Cristo, ha incontrato Gesù Cristo, ma non con una conoscenza intellettuale, scientifica — è importante perché ci aiuta — ma con quella conoscenza prima, quella del cuore, dell’incontro personale. La conoscenza di Gesù che mi ha salvato e che è morto per me: quello proprio è il punto della conoscenza più profonda di Paolo. E quello lo spinge a andare avanti, annunciare Gesù».

Ecco allora che per Paolo «non ne finisce una che ne incomincia un’altra. È sempre nei guai, ma nei guai non per i guai, ma per Gesù: annunciando Gesù, le conseguenze sono queste! La conoscenza di Gesù Cristo fa che lui sia un uomo con questo fervore apostolico. È in questa Chiesa e pensa a quella, va in quella e poi torna a questa e va all’altra. E questa è una grazia. È un atteggiamento cristiano il fervore apostolico, lo zelo apostolico».

Papa Francesco ha poi fatto riferimento agli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, suggerendo la domanda: «Ma se Cristo ha fatto questo per me, cosa devo fare io per Cristo?». E ha risposto: «Il fervore apostolico, lo zelo apostolico si capisce soltanto in un’atmosfera di amore: senza l’amore non si capisce perché lo zelo apostolico ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia spirituale, di sana pazzia. E Paolo aveva questa sana pazzia».

«Chi custodisce proprio lo zelo apostolico — ha proseguito il Pontefice — è lo Spirito Santo; chi fa crescere lo zelo apostolico è lo Spirito Santo: ci dà quel fuoco dentro per andare avanti nell’annuncio di Gesù Cristo. Dobbiamo chiedere a lui la grazia dello zelo apostolico». E questo vale «non soltanto per i missionari, che sono tanto bravi. In questi giorni ho trovato alcuni: “Ah padre, è da sessant’anni che sono missionario nell’Amazzonia”. Sessant’anni e avanti, avanti! Nella Chiesa adesso ce ne sono tanti e zelanti: uomini e donne che vanno avanti, che hanno questo fervore. Ma nella Chiesa ci sono anche cristiani tiepidi, con un certo tepore, che non sentono di andare avanti, sono buoni. Ci sono anche i cristiani da salotto. Quelli educati, tutto bene, ma non sanno fare figli alla Chiesa con l’annuncio e il fervore apostolico». Il Papa ha invocato quindi lo Spirito Santo perché «ci dia questo fervore apostolico a tutti noi; ci dia anche la grazia di dar fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa; la grazia di andare avanti verso le periferie esistenziali. La Chiesa ha tanto bisogno di questo! Non soltanto in terra lontana, nelle Chiese giovani, nei popoli che ancora non conoscono Gesù Cristo. Ma qui in città, in città proprio, hanno bisogno di questo annuncio di Gesù Cristo. Dunque chiediamo allo Spirito Santo questa grazia dello zelo apostolico: cristiani con zelo apostolico. E se diamo fastidio, benedetto sia il Signore. Avanti, come dice il Signore a Paolo: “Coraggio!”». Hanno concelebrato, tra gli altri, il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson e il vescovo Mario Toso, rispettivamente presidente e segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, monsignor Luigi Mistò, segretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), e il gesuita Hugo Guillermo Ortiz, responsabile dei programmi di lingua spagnola di Radio Vaticana. Tra i presenti, personale del dicastero Iustitia et Pax e un gruppo di dipendenti dell’emittente vaticana.  

« Waters of Massah/Meribah »

http://www.bible.ca/archeology/bible-archeology-exodus-kadesh-barnea-moses-struck-rock-waterless.htm

Publié dans:immagini sacre |on 2 février, 2016 |Pas de commentaires »

Romani 8,35.37-39: La potenza dell’amore di Cristo

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Romani%208,35.37-39

ROMANI 8,35.37-39

Fratelli, 35 chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

COMMENTO Romani 8,35.37-39 La potenza dell’amore di Cristo

Nel c. 8 della sua lettera ai Romani Paolo spiega come la liberazione dalla legge, operata mediante il dono dello Spirito, comporti per i credenti una salvezza che pervade non solo la loro vita personale, ma anche tutto il cosmo. Nella parte finale della sua riflessione (vv. 31-39) Paolo lancia ai suoi lettori un ultimo messaggio di speranza, che si basa sull’immensità dell’amore che Dio ha rivelato nel suo piano di salvezza. Egli si esprime mediante una cascata di domande retoriche la cui risposta appare scontata. In forza della scelta speciale che ha fatto in loro favore Dio è ormai dalla parte dei credenti (vv. 31-33). Nulla quindi potrà essere contro di loro. Se Dio è giunto fino al punto di non risparmiare il proprio Figlio, anzi di «consegnarlo» (paradidômi) per tutti loro, egli non potrà non donare loro ogni cosa insieme con lui. Sullo sfondo di questa affermazione vi è l’esperienza del Servo di jhwh, il quale è stato «consegnato» da Dio per i peccati di tutto il popolo (cfr. Is 53,6.12 nella traduzione dei LXX). Ricorrendo poi all’immagine del processo, Paolo spiega che nessuno potrà accusare (enkaleô, citare in giudizio) coloro che Dio ha scelto. Non sarà certo Dio, il quale li ha giustificati, a prendere posizione contro di loro. Ma neppure potrà condannarli (katakrinô) Cristo Gesù, che è morto, anzi che è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi (v. 34). Inizia qui il testo liturgico, che si apre con la successiva domanda di Paolo riguardante il superamento degli ostacoli che si frappongono all’amore di Cristo (v. 35-37), e prosegue affermando la vittoria del credente sulle potenze che dominano questo mondo (vv. 38-39).

Il superamento degli ostacoli (v. 35) Mediante le precedenti domande retoriche Paolo ha negato che Dio o Gesù Cristo possano condannare coloro che sono in Cristo Gesù (cfr. 8,1). Questa condanna potrebbe attuarsi solo se costoro perdessero la comunione con lui. Paolo prende in considerazione questa eventualità mediante un’altra domanda retorica: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?» (v. 35a). La fede in Cristo si configura come un rapporto di amore con lui. Ora proprio questo amore potrebbe essere messo in crisi, come spesso avviene nei rapporti umani, dalle difficoltà della vita: Paolo enumera anzitutto quelle che provengono dai propri simili, concludendo che nessuna di esse può riuscire nel suo intento. Questo elenco, simile ad altri riportati nell’epistolario paolino (cfr. 1Cor 4,11-12; 2Cor 4,8-10; 6,4-5; 11,23-28; 12,10; 1Ts 3,7), contiene una serie di termini in gran parte sinonimi. La «tribolazione» (thlipsis, da thlibô, calcare, premere) indica le angherie a cui uno è sottoposto e, in senso traslato, l’ansia e la preoccupazione che ne deriva; il sinonimo «angoscia» (stenochoria), letteralmente «essere ridotti in uno spazio stretto», indica la reazione psicologica di chi non ha via d’uscita; la «persecuzione» (diôgmos) non è altro che la pressione esercitata su una persona per farle cambiare credo religioso; la «fame» e la «nudità» indicano la mancanza degli elementi fondamentali per la sussistenza, cioè il cibo e il vestito; il «pericolo» rappresenta la mancanza delle più elementari garanzie di sicurezza; infine la «spada» può indicare la violenza in genere oppure più in particolare la sentenza di morte comminata da un tribunale (cfr. Rm 13,4). Da tutti questi mali i credenti non sono esentati: Paolo lo conferma rifacendosi anche alla sua esperienza quotidiana, già descritta in altri testi (cfr. 1Cor 4,11-13), alla quale però allude qui in modo sintetico mediante una citazione biblica omessa dalla liturgia: «Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello» (v. 36; cfr. Sal 44,23). La resistenza a tutte le difficoltà e le sofferenze della vita costituiva l’ideale dello stoico. Ma per Paolo non si tratta di una impassibilità conseguita mediante un diuturno esercizio, bensì di un dono divino: «Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (v. 37). La vittoria su tutte le difficoltà sopra elencate avviene mediante la forza dell’amore che Dio ha manifestato ai credenti mediante Cristo. Paolo è cosciente che nessuno può stare in piedi facendo affidamento sulle sue capacità, ma solo lasciandosi pervadere dall’amore che gli è stato dato.

La vittoria sulle potenze (vv. 38-39) Dopo le difficoltà che provengono dai propri simili, Paolo enumera un’altra serie di ostacoli con cui i credenti devono confrontarsi. In questo elenco, simile ad altri presenti nell’epistolario paolino (cfr. Rm 8,35; 1Cor 2,6; 3,22; 15,24-27; Fil 2,10; Ef 1,21; 3,10; 6,12; Col 1,16; 2,10.15), sono indicate, con termini generici e stereotipati, nove realtà terribili e potenti che possono influire negativamente sulla vita dell’uomo. Sei di esse sono disposte in “coppie polari”, le quali, più che le realtà stesse, delimitano gli ambiti entro cui operano. Alla luce dei testi paralleli si intuisce che Paolo pensava veramente a entità personificate che minacciano l’esistenza umana. «Morte e vita» non sono qui aspetti esistenziali dell’esperienza umana, ma potenze antagoniste che cercano di soggiogare l’uomo, la morte con le paure che suscita (cfr Rm 7,9-10; 1Cor 15,26.54-56), e la vita, con i suoi desideri e ambizioni (cfr. 1Cor 3,22); «gli angeli e i principati» sono gli esseri più potenti dopo Dio, che potrebbero in qualche modo volgersi contro l’uomo e minacciare la sua esistenza; «il presente e l’avvenire» indicano le minacce incombenti nella vita quotidiana, indicate spesso con i termini “fatalità”, “destino” (cfr. 1Cor 3,22); le «potenze» (dynameis) sono, come gli angeli e i principati, entità spirituali che dominano in questo mondo: in concomitanza con «le altezze e le profondità» potrebbero essere le potenze che esercitano il loro potere in alto, nei cieli, e in basso, sulla terra o sottoterra (cfr. Fil 2,10). Paolo esprime la sua persuasione che non solo queste realtà, ma nessun’altra creatura potrà mai separare i credenti dall’amore di Dio manifestato e donato in Cristo Gesù, Signore nostro. Se Dio e Cristo sono dalla parte dei credenti, nessun’altra realtà potrà mai condizionare in modo determinante la loro esperienza di fede.

Linee interpretative I nuovi rapporti con Dio che si sono instaurati mediante la giustificazione e l’infusione dello Spirito nel cuore dei credenti comportano una trasformazione radicale di tuttao il loro essere. Essi sono diventati figli di Dio in modo pieno e si proiettano verso il compimento finale, che implica una trasformazione profonda dei loro corpi e di tutto il creato. In altre parole essi hanno avuto la possibilità di dare un senso alla loro vita. In questo modo hanno anche superato la paura che domina l’esistenza quotidiana delle persone. Il sapere che sia Dio che Gesù Cristo sono dalla loro parte, crea in essi un senso di fiducia e di sicurezza che dà loro il coraggio di affrontare con serenità tutte le difficoltà della vita. Tutta la vita del credente si svolge così all’insegna della fiducia in Dio, nella convinzione che nulla potrà mai separarlo dall’amore che Dio gli ha manifestato in Cristo. Le sofferenze della vita sono espresse da Paolo in termini concreti e realistici. Non si tratta semplicemente delle tribolazioni che colpiscono ogni essere umano, ma di quelle che derivano dalle ingiustizie sociali e dall’oppressione da parte dei potenti, provocando reazioni di paura e angoscia. Ad esse si aggiungono quelle legate alla nuova professione religiosa la quale, rendendo le persone coscienti della loro dignità, provocava persecuzioni e violenze. L’essere cristiani non attenua il morso della sofferenza, ma dà la forza di non soccombere, mantenendo intatta la propria sicurezza e dignità. Infine la professione di fede elimina la paura nei confronti di realtà imponderabili e potenti, identificate nella mentalità popolare con entità spirituali superiori che condizionano l’esistenza umana. In questa categoria rientrano morte e vita, angeli e demoni, il fato, il destino. Paolo non fa affermazioni di principio circa l’entità oggettiva di questi poteri che minacciano l’uomo, ma si limita a dire che esse non possono esercitare il loro influsso negativo sui credenti. A costoro si prospetta dunque un’esistenza caratterizzata dalla fiducia e dalla pace, che rappresentano l’anticipazione nell’oggi di quella realtà escatologica che la fede prospetta come coronamento di una vita dedicata a Dio.  

Publié dans:Lettera ai Romani |on 2 février, 2016 |Pas de commentaires »
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