14 FEBBRAIO 2016 | 1A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
14 FEBBRAIO 2016 | 1A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
» Dt 26,4-10 – Professione di fede del popolo eletto. » Dal Salmo 90 – Rit.: Resta con noi, Signore, nell’ora della prova. » Rm 10,8-13 – Professione di fede di chi crede in Cristo. » Canto al Vangelo – Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria! Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Lode a te, o Cristo, re di eterna gloria! » Lc 4,1-13 – Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto e tentato dal diavolo.
« Nel deserto, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo » « Fra tutti i giorni dell’anno che la devozione cristiana onora in vari modi, non ve n’è uno che superi per importanza la festa di Pasqua, perché questa rende sacre tutte le altre solennità. Ora, se consideriamo ciò che l’universo ha ricevuto dalla Croce del Signore, noi riconosceremo che, per celebrare il giorno di Pasqua, è giusto prepararci con un digiuno di quaranta giorni, per partecipare degnamente ai divini misteri. Non solo i vescovi, i sacerdoti, i diaconi devono purificarsi da tutte le macchie, ma l’intero corpo della Chiesa e tutti quanti i fedeli; perché il tempio di Dio, che ha come base il suo stesso Fondatore, deve essere bello in tutte le sue pietre e luminoso in ogni sua parte » (S. Leone Magno). In queste parole del grande Papa e Padre della Chiesa è contenuto il significato austero e profondamente impegnativo del ciclo liturgico quaresimale, che oggi inauguriamo: una lunga « marcia » di purificazione e di preparazione per poter « partecipare degnamente » alla pienezza del « dono » trasformante della Pasqua, che Cristo ci offrirà come espressione massima della totalità del suo amore. I brani biblici che la Liturgia propone alla nostra attenzione sono particolarmente adatti a farci cogliere il senso e l’orientamento di questa nostra marcia, faticosa ma anche giubilante, verso la nuova terra di approdo che è la Pasqua cristiana.
« Mio padre era un Arameo errante » E prima di tutto la breve lettura, ripresa dal Deuteronomio (26,4-10), che contiene una commossa confessione di fede (vv. 5-9), fatta in occasione dell’offerta delle « primizie », cioè dei primi frutti della Terra promessa, « scorrente latte e miele » (v. 9), dove Dio aveva finalmente introdotto « con mano potente e braccio teso » (v. 8) il suo popolo. Con tale offerta Israele riconosceva che tutto quello che aveva, compresi i mezzi del suo sostentamento fisico, gli veniva da Dio: persino la « terra » in cui abitava era dono dell’Altissimo, perché egli l’aveva tolta ad altri popoli per darla a Israele! In questo sfondo si comprende bene il rapido abbozzo di « storia della salvezza », pronunciato dall’offerente al momento di deporre davanti all’altare le primizie della terra: « Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo, e ci diede questo paese dove scorre latte e miele » (Dt 26,5-9). Con l’espressione « Arameo errante » ci si vuol riferire a Giacobbe, padre delle dodici tribù, chiamato qui « Arameo » come i suoi antenati, oriundi di quella regione (Gn 25,20; 28,5; 31,20.24). Il termine « errante » non evoca solamente l’idea del nomade, ma anche l’idea di colui che non riesce a trovare la sua strada, come la pecora « perduta » nel deserto. In chiave quaresimale il testo mi sembra che esprima due idee particolarmente stimolanti: a) al termine di un lungo « peregrinare » per vie contorte e anche fuorvianti, Dio concede un approdo felice al suo popolo, donandogli la terra promessa; b) Israele « oppresso » ha gridato al Signore ed egli lo ha liberato dalla « schiavitù », operando « segni e prodigi » (v. 8). Tutto dunque è stato « dono » di Dio, anche la capacità disperata di Israele di ribellarsi al suo stato di oppressione e di umiliazione: questa « ribellione » Dio l’ha favorita per poi dare una risposta al « grido », implorante aiuto, del suo popolo.
« Se confesserai…_che Gesù è il Signore… » La fede, infatti, altro non è che una apertura e una implorazione di aiuto rivolta a Colui che solo può salvarci, introducendoci nel suo regno. È quanto ci dice, con termini molto efficaci, il passo di S. Paolo che riconosce nell’evento pasquale l’unica causa della nostra salvezza: « Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza » (Rm 10,10). Una confessione di fede interiore (« con il cuore »), professata però pubblicamente anche davanti alla comunità e insieme alla comunità (« con la bocca »): quasi certamente si allude qui al rito liturgico della confessione di fede battesimale. In confronto al gesto di liberazione di Jahvèh nei riguardi d’Israele, si esalta la salvezza più grande e più profonda operata da Cristo, che è offerta a tutti gli uomini e arriva perfino a spezzare il giogo della morte, per se stesso e per noi. Il problema anche qui è quello di « sentire » che abbiamo « disperato » bisogno di essere salvati e di gridare al cielo la nostra disperata sete di liberazione. Solo allora verrà la salvezza: « Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato » (v. 13). Anche dal testo paolino si ricava dunque che la nostra stessa « marcia » verso la salvezza e la forza di invocarla vengono da Dio: suo non è soltanto il dono della Terra promessa e della Pasqua, come punto di arrivo del nostro faticoso camminare, ma anche lo stesso muoverci e il sospirare quella salvezza. In questo senso mi sembra che sia molto importante riscoprire la Quaresima come « desiderio » sofferto e « implorazione » di salvezza: quello che la Liturgia chiama « segno sacramentale della nostra conversione » (Orazione). Solo una profonda dimensione di fede, come quella indicata da Paolo, può aiutarci in questo cammino: altrimenti saremmo davanti a un puro sforzo ascetico, più espressione di autosufficienza che di umile fiducia in Dio. Proprio come i Giudei di cui parla poco prima S. Paolo, quando dice che « ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (Rm 10,3).
« Se sei Figlio di Dio, di’ a queste pietre che diventino pane… » Il brano evangelico, ripreso da Luca (4,1-13), che ci descrive il drammatico incontro di Gesù con Satana, ci aiuta a cogliere anche meglio il senso della Quaresima come tempo di prova e di « tentazione » che affina lo spirito e lo rende totalmente docile alla volontà di Dio, colta negli appelli e nei risvolti più segreti della sua « Parola ». Non intendiamo qui affrontare i grossi problemi di carattere critico-storico-letterario che sottostanno al racconto delle tentazioni di Gesù e che saltano all’occhio di chiunque, non appena si faccia un confronto fra la triplice narrazione sinottica: ad esempio, Marco non ci dice nulla delle tre tentazioni, pur parlando della tentazione di Gesù nel deserto (1,12-13); Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13) non concordano fra loro nell’ordine delle tentazioni, ecc. Interessa piuttosto cogliere alcune indicazioni di fondo che ci aiutino a rileggere il brano lucano in chiave di « esperienza » quaresimale. E la prima indicazione mi sembra essere questa: per Luca la « tentazione » si coestende a tutto il tempo di dimora di Gesù nel deserto, e addirittura fino alla Passione. È dunque una « tentazione » che afferra tutta la vita di Cristo! A differenza di Matteo, infatti, Luca scrive che Gesù « fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo » (vv. 1-2). E conclude dicendo che, « dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato » (v. 13). Il « tempo fissato » è precisamente quello della Passione, dove il « diavolo » di nuovo appare come l’orchestratore del tradimento di Giuda (Lc 22,3) e della violenza fisica e della sopraffazione contro Cristo: « Questa è la vostra ora, e l’impero delle tenebre » (Lc 22,53), dirà Gesù alla soldatesca venuta ad arrestarlo nell’orto. Il testo ci permette anche di intravedere il « genere » di tentazione, con cui Satana, con abile suggestione, cerca di travolgere Cristo. Per ben due volte egli insiste sul fatto che Gesù è « Figlio di Dio »: « Se sei Figlio di Dio, di’ a queste pietre che diventino pane… Se sei Figlio di Dio, buttati giù… » (vv. 3.9). D’altra parte, il racconto delle tentazioni segue la scena del Battesimo, dove Gesù era stato proclamato solennemente « il Figlio prediletto » del Padre (3,22). Satana dunque collega la missione di Gesù quale « Figlio di Dio » con gesti di potenza, con manifestazioni di gloria mondana e lo invita ad accettare il ruolo di un « Messia » trionfatore e terrenistico. È questa la tentazione drammatica che ha inseguito sempre Cristo e che gli viene sempre di nuovo proposta dalle attese della gente (14,15; 19,11), dei suoi concittadini (4,23), perfino dei suoi Apostoli (10,20). Ancora sotto la Croce si leverà irridente, con una violenza quasi invincibile, l’ultimo ghigno della tentazione: « Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto » (23,35). Sembra quasi che la folla ripeta ad litteram le parole di Satana nel deserto! La tentazione di essere diverso da se stesso, di attuare un progetto di vita più facile e più accomodante, di essere il Messia desiderato dagli uomini più che quello voluto da Dio! Questa è la tentazione paurosa che Satana ha scatenato contro Cristo. Ma è anche la tentazione che scuote i cristiani d’oggi e di sempre: essere diversi da quello che Cristo, con il suo esempio ha voluto e vuole che noi siamo; adattarci alle attese degli altri, più che sollevare gli altri alle attese di Dio! È l’eterna seduzione di Satana, che purtroppo con noi riesce, mentre non è riuscita con Cristo. E non è riuscita, perché lui si è come inchiodato alla fedeltà più assoluta alla « Parola » quale espressione della volontà del Padre. È questo il significato del suo continuo ricorso alla Scrittura, per vincere le tentazioni di Satana: « Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo… Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai… È stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo » (vv. 4.8.12). Non si tratta qui tanto di una schermaglia dialettica o di sottile esegesi, quanto piuttosto di una precisa volontà di lasciarsi muovere e misurare dalla forza discriminante della Parola. E la Parola rimanda continuamente all’ultimo Assoluto che le sta dietro e la mette in essere: Dio come l’unico « Signore » che dobbiamo adorare e servire. Abbiamo qui un’altra indicazione per la nostra Quaresima: non solo l’ascolto della « Parola », ma soprattutto la realizzazione delle sue esigenze nella nostra vita per trasformarla in un autentico progetto di Dio. Solo così anche noi vinceremo, sull’esempio di Cristo, la sempre riaffiorante tentazione di un cristianesimo accomodante, che sembra voler piacere più agli uomini che a Dio (cf Gal 1,10).
Settimio CIPRIANI (+)