BRANO BIBLICO SCELTO – FILIPPESI 3,17-4,1

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BRANO BIBLICO SCELTO – FILIPPESI 3,17-4,1

17 Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. 18 Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: 19 la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. 20 La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, 21 il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose. 4,1 Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!

COMMENTO Filippesi 3,17-4,1 Il comportamento cristiano La lettera ai Filippesi è stata scritta probabilmente nel corso di una prigionia subita da Paolo a Efeso, durante il terzo viaggio missionario. La lettera, nella quale sono stati inseriti con ogni probabilità i frammenti di altre due missive inviate da lui ai cristiani di Filippi, inizia con il prescritto seguito dal ringraziamento (Fil 1,1-11); il corpo della lettera contiene confidenze di Paolo su se stesso (1,12-26) ed esortazioni ai filippesi (1,27-2,18), seguite da un intermezzo narrativo (2,19-30). A questo punto è inserita la prima aggiunta, che è un testo di carattere polemico nei confronti dei suoi avversari infiltratisi nella comunità (Fil 3,1b-4,1). Dopo di esso sono riportate alcune esortazioni finali (4,2-9). Viene poi inserita la seconda aggiunta, che è una breve missiva con cui Paolo ringrazia i filippesi per gli aiuti economici che gli hanno inviato (Fil 4,10-20). La lettera termina con il poscritto (4,21-23). Nel brano liturgico è riportata la seconda parte del brano polemico inserito nella lettera originaria. Precedentemente Paolo aveva affermato la sua rinunzia ai privilegi che gli competevano come giudeo in vista della giustizia derivante dalla fede in Cristo e il suo impegno per essere completamente assimilato a lui (Fil 3,1-16). Nel brano liturgico egli conclude la sua polemica esortando i filippesi a farsi suoi imitatori (v. 17), senza lasciarsi sedurre da diverse teorie (vv. 18-19) e a orientare tutti i loro desideri alla patria celeste (vv. 20-21); conclude il brano un invito a restare saldi nel Signore (4,1).

L’imitazione di Paolo (v. 17) Paolo inizia la sua esortazione invitando i filippesi a farsi suoi imitatori (synmimêtai) (v. 17a). Il tema dell’imitazione (mimêsis) è proprio di Paolo (cfr. 1Ts 1,6; 1Cor 4,16; 11,1) il quale se ne serve per rendere comprensibile a lettori greci il tema evangelico della sequela. Qui però l’Apostolo pone se stesso come mediatore della sequela Christi, in quanto i suoi lettori non hanno conosciuto direttamente Gesù e solo per mezzo del suo apostolo possono avere accesso alla sua persona e al suo insegnamento. Il termine synmimêtai (lett. con-imitatori) ha una valenza comunitaria, in quanto solo nel rapporto fraterno tra di loro i filippesi possono diventare imitatori di Paolo. Paolo li esorta anche a guardare (skopeite) a quelli che si comportano secondo l’esempio che hanno in lui (v. 17b). Questa precisazione si rende necessaria perché Paolo è lontano e i filippesi hanno bisogno ogni giorno di avere esempi concreti a cui ispirarsi. Egli si riferisce certamente a Timoteo, suo diretto collaboratore, ed Epafrodito, dei quale ha appena fatto l’elogio: ambedue stanno per essere inviati da lui a Filippi. Ma certamente allude anche ad altri membri della comunità che hanno più profondamente assimilato il suo messaggio. Tutti costoro si comportano (peripateo, camminare) secondo il suo esempio (typon). Si stabilisce così una catena di testimoni i quali, con il loro modo di essere, fanno da locomotiva per tutta la comunità aiutandola a crescere nella fede. 

Guardarsi dai comportamenti devianti (vv. 18-19) L’esortazione di Paolo è determinata dal fatto che nella comunità vi sono anche coloro che non seguono l’esempio dell’Apostolo. Riguardo a loro egli mette in guardia ancora una volta i filippesi come, sottolinea, aveva già fatto spesso in passato. E lo fa «con le lacrime agli occhi» (v. 18), come aveva fatto scrivendo ai corinzi dopo essere stato offeso da un suo anonimo avversario in occasione di una sua visita alla comunità (cfr. 2Cor 2,4). Queste lacrime sono segno non di stizza, ma di ansia e di preoccupazione per il rischio che la comunità possa prendere una via sbagliata. Come accade di solito Paolo non dice esplicitamente a chi si riferisce, ma designa i personaggi in questione come persone che «si comportano da nemici della croce di Cristo» (v. 18b). Egli aveva già usato un’espressione analoga in Gal 6,12 dove si era scagliato contro coloro che costringono i cristiani della Galazia a farsi circoncidere «per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo». In quel contesto sembra che Paolo volesse alludere ai giudaizzanti, i quali mettevano in primo piano la loro appartenenza al giudaismo per evitare le sanzioni riservate ai seguaci di un uomo crocifisso dall’autorità romana, quindi ritenuto come un ribelle conclamato. Si può pensare che anche in Fil 3,18b l’espressione «nemici della croce di Cristo» abbia un significato analogo. Essa indicherebbe coloro che, affermando la permanenza delle pratiche giudaiche all’interno della Chiesa, in pratica tolgono alla croce il suo significato di mezzo primario ed esclusivo di salvezza. Se si accetta questa interpretazione, Paolo si riferirebbe anche qui agli avversari nominati all’inizio del capitolo dove, per il loro attaccamento alla circoncisione, li aveva designati sarcasticamente come «mutilazione» (katatome), cioè coloro che si fanno mutilare (cfr. Fil 3,2). A proposito di questi nemici della croce di Cristo Paolo afferma che «la loro fine (sarà) la perdizione» (v. 19a): con queste parole egli preannunzia non tanto un castigo, in questa vita o alla fine dei tempi, ma semplicemente il fallimento del loro progetto. Poi rincara la dose, attribuendo loro tre qualifiche negative: «hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra» (v. 19b». La prima di esse non si riferisce all’eccessiva importanza data alla ricerca del cibo, perché Paolo non sta parlando del vizio della gola. Invece è probabile che si riferisca eufemisticamente alla circoncisione o alle norme alimentari della legge mosaica, alle quali i giudaizzanti davano un peso notevole. Così facendo essi, secondo l’Apostolo, mettono il loro vanto proprio in quelle cose che egli, in quanto discepolo di Cristo, ha considerato una perdita (cfr. Fil 3,3-8). Da ciò si deduce che i nemici della croce di Cristo non sono i giudei che non hanno aderito a Cristo e neppure i gentili di Filippi, ma i cristiani giudaizzanti che cercano di portare la comunità paolina di Filippi nell’alveo del giudaismo.

L’attesa del ritorno di Cristo (vv. 20-21) In contrasto con la perdizione minacciata a quanti hanno preso una direzione sbagliata, Paolo prospetta il destino riservato a coloro che seguono il suo esempio. Egli afferma che la loro patria è nei cieli e di là aspettano come salvatore il Signore Gesù Cristo (v. 20). La patria (politeuma) è il gruppo umano a cui uno appartiene e con il quale interagisce, trovando in esso la sua sicurezza e la sua realizzazione personale. Affermare che per i credenti la propria patria è nei cieli non significa che essi si devono separarsi dalla società a cui appartengono in attesa di poter entrare, alla fine della propria vita terrena, in un altro mondo, in cielo, ma che hanno il pensiero rivolto costantemente a quel Dio presso il quale si trova Cristo in forza della sua risurrezione, con la certezza che egli un giorno ritornerà come «salvatore»: questo appellativo, spesso attribuito a Dio nell’AT, non è mai applicato a Cristo nelle lettere autentiche di Paolo, ma solo nelle deuteropaoline (cfr. Ef 5,23; 2Tm 1,10; Tt 1,4; 2,13; 3,6). L’attesa della parusia di Gesù resta dunque l’articolo di fede fondamentale anche per la comunità di Filippi (cfr. 1Cor 1,7). Con la sua venuta il Signore Gesù «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose» (v. 21). Egli riprende qui quanto aveva già spiegato ai corinzi: «Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati… È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità» (1Cor 15,51.53). Ciò sarà necessario perché egli «ponga sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici», l’ultimo dei quali a essere debellato è la morte (cfr. 1Cor 15,25-26).

Esortazione finale (4,1) A conclusione del brano Paolo fa ancora un’esortazione accorata: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!» (4,1). In questa frase si manifesta tutto l’affetto che Paolo nutre per i cristiani di Filippi, i quali sono da lui non solo amati ma anche desiderati, come avviene all’interno di un rapporto fortemente affettivo. Essi sono per lui motivo di «gioia» (chara), sono come la «corona» (stefanos) che l’atleta conquista con l’impegno agonistico (cfr. 1Ts 2,19-20; 1Cor 9,24-26), perché attestano che il suo lavoro apostolico non è stato vano. A essi raccomanda di restare saldi nel Signore, cioè di non deviare dal cammino che hanno intrapreso.

Linee interpretative Ad una comunità ancora giovane Paolo propone se stesso come modello di vita cristiana. Così facendo egli non vuole mettersi su un piedestallo, ma intende aiutare fraternamente i nuovi convertiti, provenienti da un ambiente religioso e culturale impregnato di valori diversi da quelli evangelici, a trovare la propria strada nella sequela di Cristo. Per questo sono necessari esempi concreti che indichino loro la strada da seguire. Che egli non voglia esaltare indebitamente la propria persona, appare dal fatto che propone come esempio anche il comportamento di altri cristiani la cui formazione è maggiormente approfondita. Paolo non si limita a indicare ai filippesi una direttiva di marcia, ma li esorta a non cadere in comportamenti devianti che li allontanerebbero da Cristo. Egli li mette in guardia nei confronti non tanto del mondo circostante, dal quale essi si sono separati, quanto piuttosto delle pressioni da parte di fratelli nella fede i quali si fanno promotori, teoricamente e praticamente, di comportamenti devianti. Egli si riferisce qui, come all’inizio del capitolo, ai missionari giudaizzanti i quali, pur annunziando Cristo, si dimostrano nemici della sua croce. In realtà essi non hanno obiezioni nei confronti del fatto storico della morte di Cristo in croce, ma mettono questo evento in secondo piano, in quanto tutta la loro preoccupazione è per l’osservanza della legge, che presentano come un mezzo essenziale per raggiungere la salvezza. In pratica essi vorrebbero portare le comunità paoline nell’alveo del giudaismo. Per Paolo, invece, il mezzo che porta alla salvezza è proprio l’adozione della logica della croce, in quanto espressione di un amore portato fino al limite estremo, e non l’osservanza della legge. Paolo infine mette al centro della vita cristiana l’attesa del ritorno di Gesù risorto, il quale verrà a compiere l’opera iniziata nella sua vita terrena, sottomettendo a sé tutte le cose. In quel momento egli trasformerà il corpo, cioè la persona, dei credenti in modo da renderli conformi al suo corpo glorioso. Quello che Paolo prospetta è il rinnovamento finale di tutte le cose, verso il quale i credenti in Cristo devono tendere, nell’attesa del ritorno di Gesù Cristo come salvatore. Cristo dunque, per coloro che credono in lui, rappresenta il maestro e la guida verso la salvezza. Ma anche per quelli che non hanno aderito a lui egli resta un modello a cui ispirarsi per raggiungere un’umanità piena.

 

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