Archive pour janvier, 2016

BAUSOLA, AGOSTINO E IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ

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BAUSOLA, AGOSTINO E IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ

Adriano Bausola è professore ordinario di filosofia teoretica nell’Università Cattolica di Milano. Nella pagina che segue è messa bene in evidenza la complessità del fenomeno libertà; quello che preme evidenziare è come il piano filosofico, l’esigenza di una chiarezza tutta razionale (alla quale Agostino teneva moltissimo), entri in conflitto con il piano piú squisitamente religioso. Agostino filosofo cristiano non ha dubbi: di fronte alla scelta tra fede e ragione sceglie la fede. Il problema del libero arbitrio – oltre che per gli autori indicati da Bausola – è fondamentale anche per Lutero, già monaco agostiniano, autore di un De servo arbitrio in polemica con il filosofo umanista Erasmo da Rotterdam.           

Agostino affronta il problema della libertà nel De libero arbitrio, una delle sue opere filosofiche piú significative. Agostino l’aveva scritta per far luce sulle vere ragioni che lo avevano portato, pochi anni prima, a un completo abbandono del manicheismo; e il manicheismo, con la sua tendenziale negazione della libertà, in effetti giace come sullo sfondo del dialogo (composto in un lungo arco di tempo e completato nel 395, a Ippona, quando Agostino era già vescovo), da dove giustifica l’insistenza dell’autore nel sottolineare [...] i motivi morali e religiosi che gli imponevano di credere nella libertà dell’uomo. A sospingere Agostino in questa direzione era soprattutto il fermo convincimento che, senza una reale autonomia da Dio, noi non saremmo propriamente responsabili del male che compiamo né meritevoli del premio promessoci da Cristo: non potremmo cioè peccare, volendolo, né salvarci con pieno merito; e ciò toglierebbe credibilità alla Parola. Quanto al problema della prescienza divina, Agostino si limitava a osservare, sempre nel De libero arbitrio, che il sapere ab aeterno se un uomo si salverà, o se sarà dannato, non priva ancora l’individuo della sua libertà di iniziativa, infatti Dio nei nostri confronti si atteggia costantemente a Spettatore, non funge da Attore: vede ab aeterno come noi ci comporteremo e ab aeterno giudica i nostri atti, senza tuttavia costringerci a un corso di azione piuttosto che a un altro.         

Le conclusioni del De libero arbitrio erano rassicuranti per la fede, però non conservarono a lungo il loro valore agli occhi di Agostino, che non lesinava gli sforzi, nel tentativo di capire sempre piú a fondo la natura del messaggio cristiano. Dopo il 395, il vescovo di Ippona riscoprí – tra gli altri – l’apostolo Paolo; e i testi paolini gli schiusero nuovi orizzonti. Riflettendo su quelle pagine, egli a poco a poco comprese che un’eccessiva esaltazione dell’uomo va a discapito dell’importanza di Cristo, e ne rende quasi superfluo il sacrificio. Tutto considerato, incominciava a chiedersi Agostino, se non è per grazia ricevuta che noi possiamo salvarci, perché mai il Verbo si sarebbe fatto carne e sarebbe morto per i nostri peccati? A che cosa è servita la Croce, se noi ci procuriamo la salvezza in virtú dei nostri meriti? E una creatura immersa nel peccato, potrebbe mai trovarsi in una situazione del genere, potrebbe mai acquistare meriti sufficienti dinanzi a Dio?          A rendere ancora piú incisive le sue riflessioni provvide poi la filosofia neoplatonica. Essa indicava nell’Uno non soltanto il principio ontologico per eccellenza, ma la stessa luce che illumina il mondo e, contemporaneamente, il Sommo Bene che ordina a sé ogni cosa; e Agostino, che aveva cristianizzato ormai da tempo le idee dei neoplatonici, dopo il 395 ricavò da esse nuove implicazioni. In particolare, ora egli giunse a intravedere in Dio anche la ragione prima e unica del nostro tendere verso il bene, della nostra capacità di operare con spirito di giustizia, in definitiva, dell’impulso interiore che ci conduce alla salvezza; e la libertà dell’uomo, a questo punto, dovette proprio sembrargli, oltreché un ostacolo, un’illusione. Poteva davvero sussistere, in fondo, la libertà di arbitrio, in un universo neoplatonicamente incentrato su Dio, principio motore e allo stesso tempo causa finale del tutto?         

Deciso ad andare alla radice del problema, Agostino non ebbe tentennamenti: non si spaventò davanti alla “durezza” della risposta che gli veniva suggerita da Paolo, e rivelò con decisione, anzi con nettezza sempre maggiore man mano che trascorrevano gli anni, il carattere gratuito e soprannaturale della grazia (a partire, appunto, dal De diversis quaestionibus ad Simplicianum). Contemporaneamente, egli si impegnò in una vigorosa polemica contro i seguaci di Pelagio, sostenitori della tesi opposta, e la battaglia combattuta contro di loro non ebbe certo poco peso nel determinare l’esito finale della sua speculazione.         

Secondo Pelagio, Dio aiuta l’uomo, ma solo nel senso che in Cristo rende noto ciò che tutti debbono fare per salvarsi; invece, la decisione di ottemperare ai decreti divini pertiene al singolo, come al singolo spetta di scegliere la fede o la miscredenza, sicché la responsabilità di una eventuale perdizione ricade esclusivamente su di noi, non coinvolge Dio: Dio è del tutto innocente. Ma Agostino la pensava in modo diverso, e contro Pelagio ribadí che, dopo la caduta di Adamo, senza un intervento della grazia l’uomo non consegue la fede e non si incammina, in essa, verso la vita eterna. Per di piú, egli aggiunse, la penetrazione dell’Onnipotente in noi segue una strategia imperscrutabile e misteriosa che sollecita e sostiene con infinita misericordia la nostra volontà, senza tener conto della stessa né dei meriti acquisiti in precedenza.         

Se, e in qual misura, questo dono gratuito possa comportare per l’uomo un’effettiva perdita di libertà, è questione controversa e di difficile soluzione; non la si affronterà qui. Serve però ricordare che Agostino non uscí del tutto vincitore dalla contesa. Infatti, dopo alterne vicende i pelagiani furono finalmente condannati da papa Zosimo, nel 418: tuttavia il vescovo di Ippona venne quasi subito accusato, a sua volta, di aver sottolineato con troppa foga l’intervento della grazia, a danno della nostra libertà; e gli si fece inoltre carico di aver contraddetto, con ciò, la tradizione dei Padri della Chiesa.         

Invertitisi i ruoli, ora era Agostino a doversi difendere. Non esitò a lungo, e nel breve volgere di tre anni scrisse il De correptione et gratia (426 o 427), il De praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae (429), cerando con i suoi ultimi due lavori di rispondere, in particolare, alle obiezioni di Cassiano, del monastero di San Vittore, in Marsiglia. Questi sosteneva che la grazia, pur se indispensabile per compiere il bene, a volte segue a ricompensa della nostra buona volontà, e non predestina affatto. Agostino non era d’accordo; a suo giudizio ciò costituiva anzi un errore: meno grave di quello pelagiano, eppure non molto distante da esso e parimenti pericoloso, poiché tendeva a conciliare l’inconciliabile (l’autonomia umana con la radicale decisività del sacrificio compiuto da Cristo). Pertanto, nelle sue repliche, il vescovo di Ippona fu drastico: radicalizzò le tesi sostenute in precedenza e introdusse espressioni, già presenti nel De correptione et gratia, che, secondo alcuni, costituiscono una conferma (e sono una giustificazione) della lettura deterministica della teologia agostiniana poi tentata da Thomas Bradwardine (1290 ca-1349), Calvino (1509-1564) e Giansenio (1595-1638). Secondo altri, invece, tali affermazioni risultano solo accentuazioni polemiche, infelici, certo, ma non cosí gravi da escludere la possibile conciliazione di grazia e libertà in una superiore prospettiva religiosa: quella per cui la grazia libera l’uomo dal peccato agendo sulla sua volontà con soavità e leggerezza, senza dispotismi e prescindendo da qualsiasi forma di coazione (cfr. per quest’ultima interpretazione, in particolare, De correptione et gratia, c. VIII, sez. 17).   (A. Bausola, La libertà, Editrice La Scuola, Brescia, 19862, pagg. 84-86)

LE VENTIDUE PAROLE DELLA CREAZIONE – GIANFRANCO RAVASI

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LE VENTIDUE PAROLE DELLA CREAZIONE – GIANFRANCO RAVASI

Alfredo Chiappori continua la sua ricerca all’interno delle pagine più alte delle Scritture Sacre. Dopo aver percorso l’Apocalisse, il Cantico dei Cantici e il Salterio, ora si rivolge all’incipit assoluto della Bibbia e dell’essere, la Genesi, arrestandosi alla prima pagina, il capitolo d’apertura, e lambendo solo alcuni versetti della seconda. Come è noto, questi due fogli d’ingresso del libro biblico della creazione e dei patriarchi sono nati in epoche differenti e da inchiostri letterari diversi: il capitolo 1 è stato composto al tempo dell’esilio ebraico lungo i fiumi di Babilonia e perciò nel VI sec. a.C., mentre il secondo è da ricondurre a un racconto simbolico-sapienziale forse dell’èra salomonica (X secolo a.C.).

Una cabala di parole “numerate” Ci soffermeremo ora sul foglio ritagliato da Chiappori che ha come perimetro il primo versetto del primo capitolo, da un lato, e il versetto settimo del secondo capitolo della Genesi, dall’altro. In capite risuona quel Bereshît, “In principio”, che è la sigla dell’intero libro della Genesi ma è anche il titolo ideale di questo volume e del suo contenuto. Da quel foglio il pittore ha estratto ventidue parole, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Esse scandiscono la grande suprema avventura della creazione. Elenchiamo quelle parole solenni prima di penetrare nel senso globale del loro disporsi a testo, cioè a “tessuto”, come appunto dice l’etimologia originaria di textus. Obbligatorio e fondamentale è il primo termine, Bereshît, “in principio”, a cui segue l’“abisso”-tehôm, simbolo del nulla. Su di esso passa la rûah, cioè lo “Spirito” creatore. Ed ecco sbocciare la rosa della “luce”, ’ôr, che ricaccia hosheq, cioè la “tenebra”, mentre si apre sopra l’orizzonte la volta del “firmamento”, raqia‘. Sotto di essa si agitano le “acque” primordiali, majîm, il cui colore riflette quello del “cielo”, shamajîm. Dalle acque emergono i continenti, cioè l’“asciutto”, jabashah: è la “terra”, ’eres, alla cui riva si muovono con veemenza i “mari”, jammîm. Ecco, però, ramificarsi lentamente sulla superficie terrestre i “germogli” vegetali, deshe’, mentre scende la “notte”, lajlah, a cui si alterna il “giorno”, jôm. La tenebra notturna è trapuntata di kokabîm, di “stelle”, destinate “ad illuminarla” (leha’îr). Giunge così il grande momento in cui appare la nefesh hajjah, cioè “l’essere vivente”, costituito dai “volatili”, ‘of, dai “mostri”, animali possenti e terrificanti, i tannînim. Siamo, così, in presenza di tutta la gamma zoologica secondo la varietà della specie (mînah). Ma, al vertice della creazione, entra in scena ha’adam, “l’uomo”, che da Dio non riceve solo la vita fisica ma anche un dono unico, la nishmat hajjîm, cioè un alito vitale misterioso che lo raccorda direttamente a Dio. E’ una “fiaccola del Signore che scruta tutti i recessi segreti del cuore”, si spiega nel libro biblico dei Proverbi (20, 27). E’, dunque, la coscienza. Queste ventidue parole sono scelte all’interno di una trama lessicale costruita in modo raffinato, una specie di cabala ieratica, ritmata soprattutto sul numero “sette” della settimana liturgica, numero di pienezza e di perfezione che occupa l’intera prima pagina ebraica della Genesi. Siamo, infatti, in presenza di sette giorni all’interno dei quali si distendono otto opere divine, scandite in due gruppi di quattro; sette sono le formule fisse usate per costruire la trama del racconto; sette volte risuona il verbo bara’, “creare”; trentacinque volte (7×5) è scandito il nome divino; ventun volte (7×3) entrano in scena “terra e cielo”, il primo versetto ha sette parole e quattordici (7×2) il secondo…

La creazione come evento sonoro A questo punto non resta a noi che gettare uno sguardo d’insieme sulla pagina sacra della creazione. E’ suggestivo notare che l’atto creativo nella Bibbia è concepito come un evento affidato alla parola. Lo sterminato silenzio del nulla è squarciato da un imperativo possente: Jehî’or… Wajjehî’or, “Sia la luce… E la luce fu”(1, 3). Forse è necessario commentare queste parole affidandoci alla Creazione di Haydn con la sua prodigiosa generazione di un celestiale e solare Do maggiore dal caos d’una modulazione infinita. O evocare la sfida di Wagner, di Holst e di Schönberg, ossessionati dall’idea di cogliere in battute il risveglio dell’universo. O inseguire lo sforzo di conquista della sonorità cosmica da parte della Sagra della primavera di Stravinskij, dove le sette note della scala, avvinghiate nell’accordo di tutti gli accordi possibili, percuotono dal cielo la terra per ridestarne l’impulso vitale e popolarne di vita la superficie. O creare la lacerazione dei suoni di Licht, l’opera cosmologica in sette parti di Stockhausen. Mentre la Genesi di Battiato sembrerebbe suggerirci una comparazione tra fedi diverse sempre attorno allo stesso tema. Per la Bibbia la creazione è sostanzialmente un evento sonoro: è la voce divina a dar origine all’essere. Anche nella cultura indiana il Prajapati, “il Signore delle creature”, fa sbocciare l’essere da una cellula sonora che dilagherà negli spazi infiniti per riaggregarsi poi nei canti dei fedeli. La parola è da subito decisiva, e lo è soprattutto per un popolo come Israele, che ha optato per il silenzio delle immagini: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo né di ciò che è quaggiù in terra né di ciò che è nelle acque sotto terra” imporrà il Decalogo (Esodo 20, 4). L’essere non è sospeso su un gorgo fatale, come immaginavano, prima ancora dei Greci, gli antichi Sumeri, che pensavano al dio creatore Enlil come a un “arruffio di fili di cui non si conosce il bandolo”. La creazione non è neppure frutto di una lotta teogonica e intradivina, come aveva cantato il poema accadico-babilonese Enuma Elish, nel quale un dio vincitore, Marduk, riduceva a materia l’antagonista Tiamat, la divinità “abissale” negativa sconfitta, trasformata dalla Bibbia nel citato tehôm, l’abisso sotterraneo acquatico-infernale. Per la Bibbia noi siamo, invece, “appesi” a una Parola primordiale: “In principio c’era il Logos”, cioè il Verbo, la Parola efficace, come scriverà Giovanni l’evangelista. In essa si concentrano tutti i sensi che il Faust di Goethe vorrà dissociare proprio commentando il testo giovanneo: il Wort-parola è anche Kraft-potenza, Sinn-significato e Tat-azione. In principio ci fu, dunque, un suono, un’armonia. Ne è convinto un altro antico autore d’Israele, colui che ha messo in bocca alla Sapienza divina creatrice uno splendido inno, racchiuso nel capitolo 8 del libro dei Proverbi. Raffigurata come ’amôn, “architetto” o “giovane” – difficile è decidere il valore di quel vocabolo ebraico -, la Sapienza alla fine della creazione si abbandona a una danza, a una specie di ebbrezza festosa espressa con un verbo ebraico che implica delizia, allegria, abbandono gioioso, ballo: “Io ero con Lui come ’amôn,/ ero la sua delizia ogni giorno,/ danzando davanti a Lui in ogni istante,/ danzando sulla distesa terrestre,/ trovando la mia allegria tra i figli dell’uomo” (Proverbi 8, 30-31). Catturato da questa immagine sarà anche il poeta di Giobbe che farà entrare sulla scena del cosmo in formazione il Creatore, accompagnato da una corale angelica: “Le stelle del mattino acclamavano in coro/ e tutti i figli di Dio gridavano la loro gioia” (Giobbe 38, 7). Resterà sempre una sfida per l’uomo cogliere quel canto primordiale che echeggia nel tempo e nello spazio se è vero, come dice Shakespeare nel Mercante di Venezia, che “fin la più piccola orbe che tu ammiri, compiendo il suo moto, canta come un angelo (like an angel sings)”. Persino la scienza moderna è ricorsa a un analogo simbolismo, il “Big Bang” – certamente più volgare e brutale – per descrivere quel Bereshît affidato alla Parola suprema.

La creazione come evento visivo C’è, però, nella prima pagina della creazione un’altra dimensione che idealmente si sposa con l’opera del pittore. Il creato è contemplato come un dato estetico e visivo. Per sette volte, infatti, risuona una formula fissa: Wajjar’ ’elohîm… kî tôb, “Dio vide che (il creato) era bello/ buono” (Genesi 1, 4.10.12.18.21.25.31). Il tardo libro biblico greco della Sapienza esorterà l’umanità a risalire da questa epifania di bellezza, che già affascina lo stesso Creatore, al suo Autore: “Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore” (Sapienza 13, 5). Il vocabolo “estetico” tôb, destinato a definire la creazione e l’esperienza visiva che di essa ha l’uomo, è di sua natura simbolico: abbraccia, infatti, una sensazione di piacere fisico ma anche di esaltazione spirituale e morale. Le stesse versioni possibili della frase citata evocano questa molteplicità di esperienze: “Dio vide che era cosa buona… Dio vide che era bello… Dio vide: Era bello!… And God saw, how beautiful/good it was…!” Un esegeta, Claus Westermann, giustamente osservava che “la bellezza/ bontà di ciò che è stato creato non è qualcosa di aggiunto dopo la sua creazione ma appartiene allo statuto della creazione”. Già il citato libro della Sapienza, che era convinto della “bellezza delle realtà visibili” (13, 7), identificava la ragione di questo fascino nel fatto che Dio “ha disposto tutto con misura, calcolo e peso” (11, 20). Il vertice di questa percezione visiva della bellezza è raggiunto quando la creazione approda alla sua pienezza con la creazione dell’uomo e della donna. Allora l’autore sacro usa il superlativo ebraico tôb me’od: “Dio vide che era bellissimo” (Genesi 1, 31). E’ quasi un atto contemplativo perfetto che il riformatore Giovanni Calvino così commentava: “Ogni giorno della creazione ha una semplice approvazione; ma ora che l’opera del mondo è compiuta in tutte le sue parti e che Dio vi ha messo l’ultima mano per rifinirla e connetterla, egli dichiara che è perfettamente buona perché comprendiamo che nella proporzione e nel rapporto reciproco delle opere di Dio c’è una perfezione somma alla quale nulla può essere aggiunto”. In sintesi potremo, allora, affermare che la creazione è un evento visivo e artistico oltre che sonoro, tant’è vero che non pochi esegeti riconducono la frase citata alla reazione soddisfatta dell’artista di fronte al suo capolavoro. Così Dio reagirebbe dopo aver plasmato l’universo. Un sapiente biblico del II sec. a.C., il Siracide, esclamava: “Quanto sono amabili tutte le sue opere! Eppure appena una scintilla noi ne possiamo osservare… Tutte le realtà sono a coppia, una di fronte all’altra, nulla Egli ha fatto d’incompleto. L’una conferma i pregi dell’altra: chi si sazierà di contemplare la sua gloria?” (Siracide 42, 22-25). Immerso in questo orizzonte di colori e di vita il pittore deve quasi essere il liturgo che svela il segreto armonico del creato. Come scriveva Borges nella Metamorfosi della tartaruga, “l’arte vuole sempre irrealtà visibili”. Essa, cioè, scende nel grembo segreto del sogno di Dio sotteso alla realtà e lo rende epifania, svelandoci il senso ultimo del creato. Proprio come suggeriva Paul Valéry nei Cattivi pensieri: “Il pittore non deve dipingere quello che vede ma quello che si vedrà”, la realtà nella sua pienezza escatologica, cantata dall’Apocalisse di Giovanni. E’ così che si compie quanto aveva intuito nei Guermantes Proust quando aveva sospettato che “il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale”. E forse è proprio per questo che si usa parlare di “creazione” per l’opera dell’artista.

GIANFRANCO RAVASI

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 12 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

La Chiesa di San Giovanni Battista, Parrocchiale di Frattoli, confessionale

La  Chiesa di San Giovanni Battista, Parrocchiale di Frattoli, confessionale dans immagini sacre image034

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Publié dans:immagini sacre |on 11 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

SALMO 143 / LA MISSIONE COME TESTIMONIANZA DELLA BONTÀ DI DIO

http://www.saverianibrescia.com/missione_oggi_stampa.php?centro_missionario=archivio_rivista&rivista=2013-06&id_r=147&sezione=parola_e_missione&articolo=salmo_143_la_missione_come_testimonianza_della_bont_di_dio&id_a=5455

SALMO 143 / LA MISSIONE COME TESTIMONIANZA DELLA BONTÀ DI DIO

GIUGNO/LUGLIO 2013

di: Flavio Dalla Vecchia

Il Salmo 143 è l’ultimo dei sette salmi penitenziali. Il v. 2, dichiarando che ogni essere umano è peccatore, è stato uno dei punti di partenza della riflessione di Paolo, soprattutto nelle lettere ai Galati e ai Romani (dove è citato in 3,20). Espressioni come « io sono il tuo servo » (v. 12); « sei tu il mio Dio » (v. 10), solo apparentemente cerimoniali, possono nascondere alcune pretese, come insegna Gesù raccontando la parabola del fariseo e del pubblicano. Non è raro infatti, dal punto di vista umano, gettare in faccia a Dio la propria fedeltà, la propria lealtà nei suoi confronti, soprattutto i tanti costi a cui lo stare dalla parte di Dio sottopone. Così come non è raro che un uomo religioso divida il mondo in giusti ed empi: e il Dio santo dovrebbe prendere posizione!

UN’ACCORATA SUPPLICA FONDATA SULL’AMORE DI DIO
A prima vista il salmo può lasciare un po’ perplessi e si potrebbe essere tentati di leggervi una visione oscura della condizione umana. Ci sono tuttavia dei segnali che questo non è il punto di vista dell’orante. Egli infatti non rivendica alcuna giustizia propria: solo YHWH possiede fedeltà e giustizia (v. 1), anzi « davanti a te nessun vivente è giusto » (v. 2). Vi è una chiara sintonia tra quanto afferma il salmista e l’affermazione del saggio: «Chi può dire: « Ho la coscienza pulita, sono puro dal mio peccato? »» (Pr 20,9).
Si inizia con un’accorata supplica, fondata sull’amore di Dio, sulla fedeltà alle sue promesse (v. 1), motivo ripreso nel v. 5, quando il salmista fa memoria di quanto Dio ha fatto nel passato per lui e per il suo popolo, ricollegandosi a un argomento che echeggia anche altrove nelle invocazioni bibliche: «nell’oscurità si è certi che Dio non tacerà per sempre e il « ricordo » memoriale delle sue opere salvifiche passate è uno stimolo a far sì che egli torni a intervenire» (G. Ravasi).

NELL’ANGOSCIA OPPRIMENTE DELL’INGIUSTIZIA GRATUITA
Eppure la vita si presenta talvolta con un immenso carico di ingiustizia, anche per chi serve con impegno Dio: tutto il salmo è ritmato dall’angoscia che opprime l’orante, a causa della persecuzione cui lo sottopongono i suoi nemici. Non va dimenticato che il fedele in questo caso non legge tale situazione come una punizione divina per un peccato che egli avrebbe commesso. Il male non si spiega soltanto con un rapporto diretto colpa-castigo: vi è tanto male per così dire gratuito, perché ci sono bambini che muoiono, innocenti perseguitati, malattie che stroncano giovani vite. Da che parte sta dunque Dio?

IL SALMISTA COME ETTY HILLESUM
Anche chi crede talvolta si scontra con il volto nascosto di Dio (v. 7), non capisce più le vie di Dio (v. 8) e se valga la pena battere ancora i sentieri da lui indicati. Si tratta di un’aridità (v. 6: « come terra assetata ») che rimette in discussione una relazione: lo spirito vitale viene meno (v. 7). Nel buio della sofferenza ci può essere chi si ribella a Dio, o chi, come Etty Hillesum scrive: « Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui. So quel che ci può ancora succedere [...]. Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia, passando per il Drenthe. E secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono morti 700mila ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre. Eppure non riesco a trovare assurda la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato ».

CHIEDE A DIO DI RIAFFERMARE IL SUO POTERE SUL MONDO
Anche il fedele che ha lasciato la sua memoria nel Salmo non demorde: egli invoca lo spirito buono di Dio (v. 10), affinché il suo vigore ritorni; chiede a Dio di riaffermare il suo potere sul mondo, facendo rivivere il suo fedele: infatti nella vita dei suoi fedeli si manifesta la signoria di Dio (il suo « nome », v. 11) e con essa la sua giustizia. Per chi prega con questo salmo, la giustizia divina si manifesta pienamente allorché il nemico è sterminato (v. 12), quando cioè coloro che opprimono i deboli saranno finalmente dalla parte degli sconfitti; una richiesta che accompagna tanti passi biblici che si fanno voce di chi non ha voce e che esplicitano il grido che la Bibbia ricorda che sale a Dio fin dal primo essere umano vittima di violenza e oppressione (il giusto Abele).

ATTRAVERSO L’INTERRUZIONE DELLA CATENA DELLA VIOLENZA
Senza negare il valore di pagine come questa, il cristiano è tenuto, però, a ricordare che l’affermazione della giustizia di Dio non si ha soltanto nella sconfitta e nella morte dei nemici: in Gesù, Dio gli ha svelato che il suo potere si manifesta anche quando i suoi fedeli sono provati dalla persecuzione e dalla sofferenza. E che la vera vittoria sul nemico non è quella che decreta la sua fine, ma quella che fa volgere anche lui a Dio. Gesù non muore imprecando contro i suoi uccisori, ma pregando per loro: ci apre dunque a una nuova solidarietà con il mondo invischiato nel male, quella attraverso la quale si può interrompere la catena della violenza, proclamando al mondo la « bontà » (v. 12: la Bibbia CEI traduce con « fedeltà », ma il vocabolo ebraico esprime l’attitudine benevola e misericordiosa di Dio nei confronti delle creature) che sta al di sopra di ognuno e vuole raggiungere ogni mortale che non può rivendicare alcuna giustizia propria.

FLAVIO DALLA VECCHIA

SALMO 143

1Salmo. Di Davide.
Signore, ascolta la mia preghiera!
Per la tua fedeltà, porgi l’orecchio alle mie suppliche
e per la tua giustizia rispondimi.

2Non entrare in giudizio con il tuo servo:
davanti a te nessun vivente è giusto.

3Il nemico mi perseguita,
calpesta a terra la mia vita;
mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi
come i morti da gran tempo.

4In me viene meno il respiro,
dentro di me si raggela il mio cuore.

5Ricordo i giorni passati,
ripenso a tutte le tue azioni,
medito sulle opere delle tue mani.

6A te protendo le mie mani,
sono davanti a te come terra assetata.

7Rispondimi presto, Signore:
mi viene a mancare il respiro.
Non nascondermi il tuo volto:
che io non sia come chi scende nella fossa.

8Al mattino fammi sentire il tuo amore,
perché in te confido.
Fammi conoscere la strada da percorrere,
perché a te s’innalza l’anima mia.

9Liberami dai miei nemici, Signore,
in te mi rifugio.

10Insegnami a fare la tua volontà,
perché sei tu il mio Dio.
Il tuo spirito buono
mi guidi in una terra piana.

11Per il tuo nome, Signore, fammi vivere;
per la tua giustizia, liberami dall’angoscia.

12Per la tua fedeltà stermina i miei nemici,
distruggi quelli che opprimono la mia vita,
perché io sono tuo servo.

 

Publié dans:BIBBIA - ANTICO TESTAMENTO SALMI |on 11 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

IL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=129531

IL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

La Confessione è sacramento della Conversione poiché realizza sacramentalmente l’appello di Gesù alla conversione. Il peccato indebolisce l’uomo, lo depaupera, gli sottrae la sua bellezza originaria di essere creato a immagine e somiglianza di Dio. Ecco perchè la Chiesa invita i cristiani ad accostarsi con fiducia e maggiore frequenza al sacramento della Riconciliazione.
Nell’ultimo periodo si è parlato molto dei Sacramenti. Il Papa ha incentrato il suo discorso al Convegno della Diocesi di Roma sul Battesimo. Qualche settimana fa l’Incontro mondiale delle Famiglie ha celebrato la bellezza del Matrimonio e proprio ieri si è concluso il Convegno Eucaristico Internazionale di Dublino. Manca ancora uno: la Confessione. Un Sacramento che per i cattolici è un esercizio della carità di Dio, mentre per molte persone è un’occasione dove la persona viene giudicata e punita. Ma cos’è realmente la Confessione? Qual è il suo vero significato?
Ne ha parlato don Alessandro Saraco, Officiale della Penitenzieria Apostolica*, autore di due saggi pubblicati dalla LEV: “La Penitenzieria Apostolica. Storia di un Tribunale di misericordia e di pietà” e“La Grazia nella debolezza. L’esperienza spirituale di Andrè Louf”.
Don Alessandro, potrebbe spiegarci il vero significato della Confessione?
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, la Confessione è sacramento della Conversione poiché realizza sacramentalmente l’appello di Gesù alla conversione, il cammino di ritorno al Padreda cui si è allontanati con il peccato.
È chiamata anche sacramento del Perdono, poiché attraverso l’assoluzione del sacerdote, Dio accorda al penitente il “perdono e la pace”. Ancora, è sacramento della Riconciliazione perché dona al peccatore l’amore di Dio che riconcilia.
Bastano queste poche battute per smentire la mentalità di coloro che, erroneamente, concepiscono il confessionale come “il moderno Tribunale d’Inquisizione della coscienza”, e si evidenzia invece come in questo sacramento si raccoglie l’intero annuncio del Vangelo. Accostarsi al confessionale, infatti, è come entrare nel cuore stesso di Dio, il Padre ricco di misericordia, lento all’ira e grande nell’amore, che fa festa per ogni figlio che ritorna a Lui. Ecco la buona novella annunciata da Gesù: siamo peccatori, ma il nostro peccato può essere perdonato e assolto.
Alcuni sostengono che la confessione sia un’invenzione della Chiesa. Quando e per iniziativa di chi è iniziata questa pratica tra i cristiani?
E’ difficile individuare un filo unificante nello sviluppo storico del sacramento della Penitenza. La celebrazione di tale sacramento, come lo intendiamo noi oggi, era del tutto sconosciuta alla Chiesa delle origini, la quale concedeva al penitente il perdono dei peccati in un unico e irripetibile atto: il Battesimo. Tale stato di grazia ricevuto col Battesimo veniva interrotto da peccati considerati particolarmente gravi come l’idolatria, l’omicidio e l’adulterio. Commettere questi peccati comportava l’esclusione dalla comunione ecclesiale, senza poter partecipare all’Eucaristia.
In questi casi il processo di riconciliazione da parte del penitente comportava una disciplina molto severa, secondo la quale i peccatori dovevano fare una lunga e pubblica penitenza per i peccati commessi, prima di venire nuovamente accolti nella comunità ecclesiale dopo un’esortazione da parte del Vescovo.
La prassi di una “penitenza privata” ha inizio nell’Irlanda monastica nel VII secolo e si è poi diffusa in Europa grazie alla predicazione dei missionari. Bisogna attendere il IV Concilio Lateranense del 1215, con la Costituzione 21, Omnis utriusque sexus, per avere la prima e “ufficiale” proclamazione da parte della Chiesa dell’obbligo per “ogni fedele di entrambi i sessi, dopo che avrà raggiunto l’età della discrezione confessare fedelmente in privato i suoi peccati, almeno una volta all’anno, al proprio sacerdote”.
Cosa si intende per peccati? Perché la Chiesa invita a confessarli?
Il Catechismo definisce il peccato “una mancanza contro la ragione, la verità e la retta coscienza. E’ una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. In altri termini, il peccato è alienazione dell’uomo da Dio e, al medesimo tempo, alienazione dell’uomo da se stesso in quanto, una volta perduto il contatto con l’Assoluto, finisce per perdere se stesso. Il peccato indebolisce l’uomo, lo depaupera, gli sottrae la sua bellezza originaria di essere creato a immagine e somiglianza di Dio. Ecco perchè la Chiesa invita i cristiani ad accostarsi con fiducia e maggiore frequenza al sacramento della Riconciliazione: soltanto mediante la sua celebrazione possiamo ritrovare la verità di essere figli prediletti del Padre che si compiace di limitare e arginare l’azione distruttiva del peccato con la potenza della Sua infinita misericordia.
Chi ha il potere e la forza di perdonare i peccati e rinnovare a vita nuova?
Ricordando le parole di Benedetto XVI nella Spe Salvi posso dire che l’uomo può scegliere di commettere il male ma da solo non può liberarsene. Solo Dio ci può redimere. Perciò, occorre avere l’umiltà di riconoscersi peccatori e di rivolgersi con fiducia a Colui che non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva.
Spesso rimaniamo sgomenti quando prendiamo coscienza delle nostre fragilità e cadute. Alcuni disperano, altri si smarriscono; alcuni arrivano perfino a sfuggire da se stessi e da Dio. Ciò avviene perché non crediamo abbastanza che Dio è disposto sempre ad accoglierci e perdonarci. La vita spirituale è una continua opera di conversione. Non possiamo mai appartenere a quella categoria di persone di cui Gesù ha detto “che non hanno bisogno di conversione”, è sempre illusorio credersi convertiti una volte per tutte.
Non siamo mai dei semplici peccatori, ma dei “peccatori-perdonati”, dei “peccatori-in-perdono”, dei “peccatori-in-conversione”. Solo Cristo può vincere il male che ci abita e il confessionale diventa lo spazio privilegiato nel quale l’amore di Cristo fino alla donazione di sé trionfa sulla potenza del male e della colpa.
Benedetto XVI ha lamentato la perdita della pratica della Confessione in molte parti della Chiesa universale. Come mai avviene questo? E soprattutto come si pensa di far rinascere l’entusiasmo nella pratica del confessarsi?
Il Santo Padre, in tanti suoi interventi, più volte ci ha messo in guardia dal pericolo del relativismo etico e da una “imperante cultura edonista che sta oscurando nelle coscienze degli individui il senso del peccato”. Anzi, assistiamo al verificarsi di un fenomeno ancora più inquietante per cui il peccato perde la sua impronta di male e si trasforma in moda. Siamo come avvolti da un’atmosfera amorale. Non esiste più la frontiera tra vizio e virtù, tra bene e male, tra ciò che è buono e ciò che non lo è.
Conoscere il proprio peccato, rendersi conto del male delle nostre azioni, diventa allora un atteggiamento fondamentale se vogliamo emanciparci da una cultura di morte. Riconoscersi peccatori ci spinge a rivolgere il nostro cuore al Signore implorando il suo perdono e ottenendo così salvezza e pace. In tal senso, dovremmo tenere più presente un tema di vita spirituale caro alla tradizione monastica antica: la lotta spirituale, ovvero il combattimento invisibile in cui il cristiano, sostenuto dalla Grazia, resiste e lotta per non soccombere sotto il peso delle tentazioni. Occorre prendere sul serio tale “combattimento” per dire “no” al potere del Maligno e dire “sì” all’amore di Dio e alla Verità.
* La Penitenzieria Apostolica è il primo dei Tribunali della Curia Romana la cui competenza si riferisce alle materie che concernono il Foro interno e le Indulgenze. Per il Foro interno, sia sacramentale che non sacramentale, essa concede le assoluzioni, le dispense, le commutazioni, le sanazioni, i condoni e altre grazie. La stessa provvede che nelle Basiliche Patriarcali dell’Urbe ci sia un numero sufficiente di penitenzieri, dotati delle opportune facoltà. Le origini di questo dicastero sono antichissime. La sua fondazione risale intorno alla metà del XII secolo quando il forte incremento dei pellegrinaggi penitenziali presso la Sede Apostolica e il rafforzamento della plenitudo potestatis del Pontefice comportarono un consistente aumento delle richieste di assoluzioni da pene e censure dirette da ogni parte d’Europa verso Roma. Per potervi far fronte, i papi delegarono la propria facoltà di trattare determinate materie ad un cardinale, designato nel linguaggio delle fonti dapprima come “poenitentiarius papae”, poi come “poenitentiarius generalis” e dai decenni conclusivi del XIII secolo come “maior poenitentiarius”. Recentemente, è stato aperto alla consultazione degli studiosi una parte considerevole del patrimonio archivistico del Dicastero e, precisamente, la Serie dei Fondi riguardanti la documentazione di casi, materie e situazioni che la Penitenzieria Apostolica, nella sua plurisecolare attività, ha trattato in “Foro esterno”, unitamente ad altre Serie riguardanti più strettamente la storia del Dicastero, la sua evoluzione nel tempo, la struttura e organizzazione interna.

(Teologo Borèl) Giugno 2012 – autore: Don Alessandro Saraco

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - SACRAMENTARIA |on 11 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

Christ receives baptism at the hands of John the Baptist

 Christ receives baptism at the hands of John the Baptist dans immagini sacre epiphany-iconM

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BRANO BIBLICO SCELTO – ISAIA 40,1-5.9-11

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BRANO BIBLICO SCELTO – ISAIA 40,1-5.9-11

1 « Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. 2 Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati ». 3 Una voce grida: « Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. 4 Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato ». 9 Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: « Ecco il vostro Dio! 10 Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. 11 Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri ».

COMMENTO Isaia 40,1-5.9-11 Il lieto annunzio del ritorno   Il testo preso in esame è l’introduzione al libro della Consolazione di Israele, detto anche Deuteroisaia perché costituisce la seconda parte del libro che porta il nome del grande profeta (cc. 40-55). L’ambiente non è più quello dell’antico regno di Giuda, in cui è vissuto e ha operato Isaia (sec. VIII), ma quello degli esuli giudei che si trovano in esilio a Babilonia, quando questo regno sta ormai cadendo sotto i colpi dei persiani guidati da Ciro (538). Questo brano si presenta non come una composizione unitaria, ma piuttosto come una piccola antologia di diversi oracoli riguardanti la fine dell’esilio e il ritorno degli esuli a Gerusalemme: la consolazione di Israele (vv. 1-2); il nuovo esodo (vv. 3-5); l’efficacia della parola di Dio (vv. 6-8); il lieto annunzio (vv. 9-11).

La consolazione di Israele (vv. 1-2) Il testo si apre con un oracolo nel quale Dio stesso esorta a «consolare» il suo popolo. Questo invito viene rivolto non tanto al profeta, il quale si limita a registrare le parole di JHWH, quanto piuttosto ad anonimi araldi i quali sono inviati a tutto il popolo (v. 1). Nel versetto successivo appare che il messaggio è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa, personificazione del popolo giudaico, e forse non senza un riferimento specifico ai giudei che hanno vissuto la tragedia dell’esilio pur restando nella terra dei padri. I messaggeri devono parlare al «cuore» di Gerusalemme (v. 2a). Il cuore indica il centro della persona, dove hanno luogo le scelte determinanti per la vita: perciò «parlare al cuore» di Gerusalemme significa annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata perché JHWH ha deciso di  ripristinare quel legame d’amore che univa lo univa al suo popolo (cfr. Os 2,16). Il motivo della consolazione di Gerusalemme consiste nel fatto che «è finita la sua schiavitù, è scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati» (v. 2b). È dunque terminato il servizio coatto a cui erano sottoposti i suoi abitanti condotti in esilio dai babilonesi. Il popolo che si era allontanato da Dio ha ormai scontato ampiamente la pena dovuta alla sua iniquità (cfr. Lv 26,41.43), ha ricevuto un doppio castigo per i suoi peccati, cioè in termini di sofferenza ha pagato un prezzo persino superiore alle sue colpe. In sintonia con tutta la predicazione profetica il castigo viene attribuito a Dio stesso, anche se la causa immediata sono state le vicende politiche di un travagliato periodo storico. Tra breve il popolo sarà dunque liberato, con un gesto gratuito di misericordia, dallo stesso Dio che aveva dovuto intervenire con una dura punizione. Per gli esuli è giunto il momento del ritorno nella città santa, rappresentata come la sposa infedele che JHWH riprende con sé dopo una punizione esemplare (cfr. Ez 16; 23; Os 2,16; Is 49,14-26; 51,17-52,12; 54,1-17).

Il nuovo esodo (vv. 3-5) Il profeta comunica ora quanto dice «una voce», cioè un anonimo messaggero di Dio, il quale ordina di preparare nel deserto una strada perché in essa possa passare JHWH. Egli aveva guidato un giorno il suo popolo fuori dell’Egitto camminando alla sua testa sotto forma di colonna di fuoco di notte e di colonna di nubi durante il giorno (Es 13,20-22; 14,17), poi aveva posto la sua dimora nel santuario (Es 40,34) e infine nel tempio di Gerusalemme (2Re 8,10-11), ma lo aveva abbandonato a motivo dei peccati del popolo (Ez 10,18; 11,22-23). Ora egli sta per ritornare nella città santa e nel tempio alla testa del suo popolo dopo averlo liberato dall’oppressione babilonese (v. 3). La preparazione consiste nel colmare ogni valle, nell’abbassare monti e colli e nel trasformare il terreno accidentato e scosceso in pianura (v. 4). Fuori metafora ciò significa che l’evento del ritorno richiederà un profondo cambiamento nella mentalità di tutti i giudei, guidato e illuminato dalla predicazione profetica che non era mai venuta meno durante tutto il tempo dell’esilio. La religione di Israele in questo periodo è cambiata e dovrà ancora cambiare in profondità, coinvolgendo in questa trasformazione anche coloro che erano rimasti nella madre patria e avevano continuato nelle pratiche sincretistiche dei loro padri. Proprio l’incapacità da parte di costoro di accettare il nuovo di cui i rimpatriati erano portatori provocherà tutta una serie di tensioni che renderanno difficile la restaurazione del popolo di Dio. Il ritorno degli esuli comporterà una meravigliosa rivelazione della gloria di Dio: «Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato» (v. 5). Il termine «gloria» (kabôd) indica il fulgore che nell’immaginazione popolare accompagna la manifestazione di Dio. La gloria è la forma visibile e luminosa sotto cui Dio si era manifestato più volte nell’esodo (cfr. per es. Es 16,7.10; 24,16-17) e aveva preso dimora prima nella tenda (Es 40,34) e poi nel tempio di Gerusalemme (1Re 8,11). Vedere la gloria del Signore significa sperimentare in prima persona gli effetti dell’intervento divino. Ora la rivelazione della gloria di Dio sarà disponibile non solo agli israeliti, ma a tutti gli uomini. Secondo il Deuteroisaia l’evento del ritorno avrà una forte connotazione universalistica: tutti i popoli saranno coinvolti in esso, se non altro come spettatori che partecipano intimamente a quanto si svolge sotto i loro occhi. Nei successivi vv. 6-9 si dice che l’uomo è come l’erba che dissecca, mentre la parola di Dio dura per sempre. Dio dunque è più potente degli oppressori del suo popolo (cfr. Is 51,12), e anche del suo popolo peccatore: la sua promessa di liberazione perciò si attuerà infallibilmente. Questo concetto, che viene ripreso nella conclusione del libro (cfr. 55,10-11), rappresenta una delle idee chiave del libro.

Il lieto annunzio (vv. 9-11) Nuovamente viene chiamato in scena un araldo che viene inviato con un compito specifico: «Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: Ecco il vostro Dio!» (v. 9). L’araldo deve annunziare a Gerusalemme e alle città di Giuda il ritorno di JHWH alla testa degli esiliati. Egli è designato come «colui che reca liete notizie» (mebasseret): da questa espressione, tradotta in greco «colui che evangelizza» (euangelizomenos) deriverà il termine «vangelo», con cui i primi cristiani designeranno la predicazione di Gesù. Il Signore che ritorna alla testa del suo popolo è poi presentato con due immagini. La prima è quella del re potente e vittorioso, che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (v. 10): questo rappresenta il popolo stesso che JHWH ha sottratto alla dominazione straniera. La seconda immagine è quella del pastore che guida il suo gregge (cfr. Sal 23; Ez 34), lo raduna, lo fa pascolare, porta sulle spalle gli agnellini e ha cura delle pecore madri (v. 11).

Linee interpretative Nell’introduzione del Deuteroisaia sono indicati in modo significativo i grandi temi del libro: la fine dell’esilio, visto come un duro castigo per i peccati del popolo, il nuovo esodo, l’esigenza di una preparazione da parte del popolo, l’efficacia della parola di Dio, l’universalismo della salvezza. Dio viene presentato con immagini diverse: condottiero, marito, pastore. Tutto il brano esprime meraviglia, gioia ed esaltazione per la svolta improvvisa che sta prendendo la storia della salvezza. Il messaggio fondamentale di questo poema è la fiducia nel Dio che dirige gli eventi della storia umana piegandoli a quelli che sono i suoi piani di salvezza. Anche quando sembra che le vicende umane sfuggano al suo controllo, Dio non rinunzia al suo potere e non viene meno alle sue promesse. L’importante per l’uomo è di saper vedere la sua gloria quando si manifesta. Il profeta è convinto che il momento del ritorno segni l’attuazione delle grandi profezie che alla vigilia dell’esilio preannunziavano la trasformazione escatologica del popolo di Dio (Ger 31,31-34; Ez 36,25-27; Dt 30,6). Il tema del castigo è ancora presente, ma passa ormai in secondo piano: il popolo aveva un debito che doveva essere pagato, e di fatto ha scontato amaramente per le sue colpe, ma in realtà la salvezza è frutto di un intervento gratuito di Dio. Purtroppo la restaurazione del popolo non si verificherà con la pienezza annunziata, ma le immagini elaborate in questo momento entusiasmante serviranno per delineare la futura salvezza, rinviata ormai agli ultimi tempi.

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