CHI SONO, DA DOVE VENGO E DOVE VADO: LA NECESSITÀ DELLA RICERCA DI DIO – BLAISE PASCAL
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CHI SONO, DA DOVE VENGO E DOVE VADO: LA NECESSITÀ DELLA RICERCA DI DIO – BLAISE PASCAL
1662 – PENSÉES, NN. 334, 335
Con il suo stile diretto e provocante, Blaise Pascal stimola i libertini del suo tempo a prendere necessariamente in esame il problema esistenziale del senso della vita umana. Esistono delle domande radicali alle quali nessuno può sfuggire, se non con la distrazione ed un oblio solo temporaneo. Quanto la religione cristiana dice a proposito dell’uomo e del suo destino non può lasciare indifferenti, perché essa fornisce le risposte proprio a quelle domande che l’uomo si pone. 334. Prima di addentrarmi nelle prove della religione cristiana, trovo necessario mettere in vista l’ingiustizia degli uomini che vivono nell’indifferenza verso la ricerca della verità di una cosa che per loro è così importante e che li tocca così da vicino. Di tutti i loro errori questo è, senza dubbio, quello che più li accusa di stoltezza e di accecamento, e nel quale è più facile confonderli con le più semplici riflessioni del senso comune e con i sentimenti naturali. È infatti incontestabile che il tempo di questa vita è solo un attimo, che lo stato della morte è eterno, qualunque ne possa essere la natura; di conseguenza, tutte le nostre azioni e i nostri pensieri devono prendere strade talmente diverse secondo lo stato di questa eternità, che è impossibile fare un passo con sensatezza e con discernimento senza regolarlo in vista di quel punto che deve essere il nostro ultimo fine. Non c’è nulla di più evidente di questo e, di conseguenza, secondo i principi della ragione, la condotta degli uomini è affatto irragionevole, se essi non prendono un’altra via. Si giudichi dunque da questo punto di vista di coloro che vivono senza pensare a quell’ultimo termine della vita, che si lasciano andare alle loro inclinazioni e ai loro piaceri senza riflessione e senza inquietudine e, come se potessero annientare l’eternità distogliendo da essa il loro pensiero, pensano a rendersi felici soltanto in questo attimo. Tuttavia questa eternità esiste e la morte, che la deve spalancare e che li minaccia ad ogni ora, li deve mettere infallibilmente in breve tempo nell’orribile necessità di essere eternamente o annientati o infelici senza che sappiano quale di queste eternità sia loro preparata per sempre. Ecco un dubbio di una terribile importanza. Essi sono nel pericolo di una eternità di miserie; e su ciò, come se non ne valesse la pena, trascurano di esaminare se è una di quelle opinioni che il popolo accoglie con facilità troppo credula o di quelle che, essendo di per se stesse oscure, hanno un fondamento solidissimo, benché nascosto. E così, non sanno se c’è verità o falsità nella cosa, né se c’è vigore o fragilità nelle prove. Le hanno dinnanzi agli occhi; rifiutano di guardarvi, e in questa ignoranza prendono il partito di fare tutto quello che occorre per cadere in quella infelicità nel caso che essa ci sia, di aspettare di farne esperienza al momento della morte, di essere nel frattempo assai soddisfatti in questo stato, di proclamarlo e, infine, di vantarsene. Si può pensare seriamente all’importanza di questo problema senza avere l’orrore di una condotta così stravagante? Questo adagiarsi in simile ignoranza è una cosa mostruosa di cui occorre far sentire la stravaganza e la stoltezza a coloro che vi trascorrono la loro vita, mettendola bene dinanzi ai loro occhi, per confonderli con la considerazione della loro stoltezza. Ecco infatti come ragionano gli uomini, quando scelgono di vivere nella ignoranza di quello che essi sono e senza ricercare una luce. «Io non so» dicono… 335. Che imparino almeno a conoscere qual è la religione che combattono, prima di combatterla. Se questa religione si vantasse di avere una chiara visione di Dio e di possederla scopertamente senza veli, sarebbe un combatterla l’affermare che nel mondo non si vede nulla che lo mostri con tale evidenza. Ma poiché essa afferma, al contrario, che gli uomini sono nelle tenebre e nella lontananza da Dio, che Dio si è nascosto alla loro conoscenza, e tale è il nome che Egli si dà nelle Scritture, Deus absconditus [Is 45,15], e infine, se essa si impegna ugualmente a stabilire queste due cose: che Dio ha posto segni sensibili nella Chiesa per farsi riconoscere da quelli che lo cercano sinceramente, e che nondimeno li ha avvolti in tal modo che Egli sarà scorto soltanto da quelli che lo cercano con tutto il loro cuore; orbene, quale vantaggio possono trarre costoro allorquando, professando di non applicarsi a cercare la verità, gridano che non c’è nulla che gliela mostri, poiché l’oscurità in cui si trovano e che essi rinfacciano alla Chiesa non fa che confermare una delle cose che essa sostiene, senza toccare l’altra, e conferma la sua dottrina, ben lungi dal distruggerla? Bisognerebbe, per combatterla, che costoro gridassero d’aver fatto ogni sforzo per cercarla ovunque, ed anche in ciò che la Chiesa propone per istruirsene, ma senza alcun esito. Se parlassero così, contesterebbero alla verità una delle sue ambizioni. Ma spero di dimostrare qui che non c’è alcuna persona ragionevole che possa parlare in tale modo, e oso pure dire che nessuno l’ha mai fatto. Si sa abbastanza bene in quale maniera agiscono coloro che sono in un tale atteggiamento di spirito. Credono di aver fatto grandi sforzi per istruirsi quando hanno speso qualche ora a leggere qualche libro della Scrittura e hanno interrogato qualche ecclesiastico sulle verità della fede. Dopo di che, si vantano d’aver cercato senza successo nei libri e fra gli uomini. Ma, in verità, dirò loro ciò che ho detto più volte, che tale negligenza non è tollerabile. Non si tratta qui dell’interesse passeggero di qualche estraneo, per comportarsi in quel modo; si tratta di noi stessi, e del nostro tutto. L’immortalità dell’anima è una cosa che ci interessa così fortemente, che ci tocca così profondamente, che bisogna aver perduto ogni sensibilità per rimanere indifferenti a sapere come stiano le cose. Tutte le nostre azioni e pensieri devono prendere indirizzi talmente diversi a seconda che si avranno o non si avranno beni eterni da sperare, che è impossibile fare un passo con criterio e giudizio senza regolarlo in vista di quel punto che deve essere il nostro ultimo oggetto. Io posso soltanto aver compassione per quelli che gemono sinceramente in questo dubbio, che lo considerano come l’estrema delle sventure e che non risparmiando nulla per uscirne, fanno di questa ricerca la principale e la più seria delle loro occupazioni. Ma per quelli che trascorrono la loro vita senza pensare all’ultimo termine della vita e che, per la sola ragione che non trovano in se stessi i lumi che li possano persuadere, trascurano di cercarli altrove e di esaminare a fondo se questa opinione è di quelle che il popolo accoglie con semplicità credula o di quelle che, quantunque per loro stesse oscure, hanno un fondamento molto solido e incrollabile, ho una considerazione del tutto diversa. Questa negligenza su una questione in cui si tratta di loro stessi, della loro eternità, del loro tutto, mi irrita più che non mi rattristi: essa mi stupisce e mi sgomenta: è per me una mostruosità. Non dico questo per pio zelo di una devozione spirituale. Penso, al contrario, che si debba avere questo sentimento per un principio di interesse umano e per un interesse di amor proprio: non occorre, per questo, che vedere quanto vedono le persone meno illuminate. Non è necessario avere un’anima molto elevata per comprendere che quaggiù non c’è soddisfazione vera e duratura, che tutti i nostri piaceri sono solo vanità, che i nostri mali sono infiniti, e che, infine, la morte, che ci minaccia ogni momento, deve infallibilmente metterci nel giro di pochi anni nell’orribile necessità di essere eternamente o annientati o infelici. Non c’è nulla di più reale di ciò, né di più terribile. Facciamo quanto vogliamo gli spavaldi: ecco la fine che attende la più bella vita del mondo. Si rifletta su ciò e si dica poi se non è indubitabile che, in questa vita, non ci sia altro bene all’infuori della speranza di un’altra vita, che non si è felici che nella misura in cui ci si avvicina ad essa e che, come non vi saranno più sventure per coloro che erano totalmente sicuri dell’eternità, così non c’è felicità per quelli che non ne hanno alcuna luce. È dunque sicuramente un gran male essere in questo dubbio; ma è almeno un dovere indispensabile cercare, quando si è in tale dubbio; e così, chi dubita e non cerca è insieme e assai infelice e molto ingiusto; se egli con ciò, tranquillo e soddisfatto, ne fa professione, e infine se ne vanta e fa proprio di questa situazione motivo di gioia e di vanità, allora io non ho parole per qualificare una così strana creatura. Donde si possono trarre tali sentimenti? Quale motivo di gioia si trova a non aspettarsi più che miserie senza rimedio? Quale motivo di vanità nel trovarsi in oscurità impenetrabili, e come è possibile che questo ragionamento passi nella mente di un uomo ragionevole? «Io non so chi mi ha messo al mondo, né che cos’è il mondo, né che cosa sia io stesso; mi trovo in una ignoranza terribile su tutte le cose; non so cosa sia il mio corpo, che cosa i miei sensi, che cosa la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quello che sto dicendo, che riflette su tutto e su se stessa, e non conosce se stessa così come non conosce le altre cose. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo che mi racchiudono, mi trovo confinato in un angolo di questa vasta distesa, senza sapere perché sono posto in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché questo poco di tempo che mi è stato dato da vivere mi è stato fissato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Vedo da ogni parte solo infinità che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno. Tutto ciò che so è che devo presto morire, ma quello che più ignoro è questa stessa morte che non saprei evitare. «Come non so di dove vengo, così non so dove vado, e so solamente che uscendo da questo mondo cadrò per sempre o nel nulla o nelle mani di un Dio sdegnato, senza sapere quale di queste due condizioni avrò in sorte per l’eternità. Ecco il mio stato, pieno di debolezza e d’incertezza. E da tutto questo concludo che devo dunque passare tutti i giorni della mia vita senza cercare quello che mi dovrà capitare. Forse potei trovare qualche chiarimento ai miei dubbi; ma non voglio darmene pena, né fare un passo per cercarlo, e poi, trattando con disprezzo quelli che si travagliano in questa ricerca – qualunque certezza che essi ne avessero, sarebbe un motivo di disperazione piuttosto che di vanità -, io voglio affrontare senza previdenza e senza timore un così grande evento, e lasciarmi mollemente condurre alla morte, nell’incertezza sull’eternità della mia futura condizione». Chi si augurerebbe di avere per amico un uomo che discorre in questo modo? Chi lo sceglierebbe, tra gli altri, per confidargli i propri affari? Chi ricorrerebbe a lui nelle afflizioni? E infine, a qual uso della vita lo si potrebbe destinare? In verità è titolo di gloria per la religione avere per nemici uomini così insensati; e la loro opposizione è per essa così poco pericolosa che riesce, al contrario, a convalidare le sue verità. Perché la fede cristiana a un dipresso afferma solo due cose: la corruzione della natura e la redenzione di Gesù Cristo. Ora io sostengo che se essi non servono a dimostrare la verità della redenzione con la santità dei loro costumi, servono almeno in modo ammirevole a dimostrare la corruzione della natura con sentimenti così snaturati. Nulla è così importante per l’uomo quanto il suo stato, nulla gli è così spaventoso quanto l’eternità; per questo non è affatto naturale che si trovino uomini indifferenti alla perdita del proprio essere e al pericolo di una eternità di miserie. Essi sono ben diversi nei riguardi di tutte le altre cose: hanno timore finanche nelle cose più leggere, le prevedono, le sentono; e quello stesso uomo che passa tanti giorni e tante notti nella rabbia e nella disperazione per la perdita di una carica o per qualche offesa immaginaria al suo onore, è lo stesso che sa di essere sul punto di perdere tutto con la morte, senza inquietudine e senza emozione. È una cosa mostruosa vedere in uno stesso cuore e nello stesso tempo una tale sensibilità per le cose più piccole e una tale singolare sensibilità per le più grandi. Sono un incantesimo incomprensibile, e un torpore soprannaturale, che indicano una forza onnipotente che ne è la causa Bisogna che vi sia nella natura dell’uomo un singolare stravolgimento, per vantarsi di essere in tale stato, nel quale sembra incredibile che possa stare una sola persona. Tuttavia l’esperienza me ne fa vedere in così grande numero che ciò sarebbe sorprendente se non sapessimo che la maggior parte di quelli che se ne occupano simulano e non sono tali in realtà; sono persone che hanno sentito dire che le belle maniere del mondo consistono nel fare così lo sregolato. È ciò che essi chiamano aver scosso il giogo, e che si studiano di imitare. Ma non sarebbe difficile far loro capire come s’ingannano se cercano per questa via la stima. Non è il mezzo per ottenerla, e questo vale per le stesse persone del mondo che giudicano rettamente delle cose e che sanno che l’unica via per riuscirvi è di mostrarsi onesti, fedeli, giudiziosi e capaci di rendere utili servigi al proprio amico, poiché gli uomini amano per natura solo ciò che può essere loro utile. Ora, quale vantaggio c’è per noi nel sentire dire da un uomo che ha scosso il giogo, che non crede che vi sia un Dio che veglia sulle sue azioni, che egli considera l’unico arbitro della propria condotta, e che non pensa a renderne conto che a se stesso? Pensa di averci condotti in tal modo ad avere orami molta fiducia in lui e attendere da lui consolazioni, consigli e aiuto in tutti i bisogni della vita? Pretendono di averci ben rallegrato, col dirci che sono sicuri che la nostra anima è solo un po’ di vento e di fumo, ed ancora, di dircelo con un tono di voce fiero e soddisfatto? È questa dunque una cosa da dirsi allegramente? Non è, al contrario, cosa da dirsi con tristezza, come la cosa più triste del mondo? Se ci pensassero seriamente, vedrebbero che questo è così mal pensato, così contrario al buon senso, così opposto all’honnêteté e così lontano sotto ogni punto di vista da quella distinzione che essi cercano, che essi sarebbero piuttosto capaci di correggere che corrompere coloro che avessero qualche inclinazione a seguirli. In realtà, fate che si rendano conto dei loro sentimenti e delle ragioni che hanno di dubitare della religione: vi diranno cose così futili e così volgari che vi convinceranno del contrario. È quanto diceva loro un giorno, ben a proposito, una persona: «Se continuate a discorrere in tale modo, in verità finirete con il convertirmi». Ed aveva ragione, perché chi non proverebbe orrore a vedersi con dei sentimenti in cui si hanno per compagni persone così spregevoli! E così quelli che soltanto fingono questi sentimenti sarebbero molto infelici a costringere la loro natura, per diventare i più impertinenti tra gli uomini. Se nel profondo del loro cuore sono contrariati di non aver più lumi, non lo dissimulino: questa confessione non sarà vergognosa. È vergognoso solo non averne vergogna. Nulla denuncia maggiormente una strema fiacchezza di spirito quanto il non riconoscere qual è la sventura di un uomo senza Dio; nulla denota di più una cattiva disposizione del cuore quanto il non desiderare la verità delle promesse eterne; nulla è più vile quanto il fare lo spavaldo contro Dio. Lascino dunque tali empietà a quelli che sono tanto mal nati da esserne realmente capaci; siano almeno persone oneste se non possono essere cristiani, e riconoscano in fine che vi sono due categorie di persone che si possono dire ragionevoli: o quelli che servono Dio con tutto il cuore perché lo conoscono, o quelli che lo cercano con tutto il cuore perché non lo conoscono. Ma quanto a quelli che vivono senza conoscerlo e senza cercarlo, essi si giudicano da sé tanto poco degni di prendersi cura di se stessi, che non possono essere degni delle cure degli altri; e occorre avere tutta la carità della religione che essi disprezzano per non disprezzarli fino ad abbandonarli alla loro insensatezza. Ma poiché questa religione ci obbliga a considerarli sempre, fino a che vivono, come capaci della grazia che può illuminarli, e di credere che possono essere fra breve più colmi di fede di quanto non lo siamo noi, e che potremo, al contrario, cadere nell’accecamento in cui loro si trovano, occorre fare per loro quello che noi vorremmo si facesse per noi se fossimo al loro posto, e invitarli ad aver pietà di loro stessi, e a fare almeno qualche passo per tentare di trovare qualche lume. Dedichino a questa lettura qualcuna delle ore che impiegano così futilmente in altre cose; qualunque avversione vi provassero, forse vi troveranno qualche cosa, e per lo meno non vi perderanno molto; ma per quelli che vi metteranno una perfetta sincerità e un veritiero desiderio di trovare la verità, spero che saranno soddisfatti e che saranno convinti delle prove di una religione tanto divina, che ho qui raccolte e nelle quali io ho seguito pressappoco quest’ordine. Da Pensieri, opuscoli, lettere, a cura di A. Bausola, tr. it. di A. Bausola e R. Tapella, Rusconi, Milano 19974, Pensieri, nn. 334, 335, pp. 517-527
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