6 DICEMBRE 2015 | 2A DOMENICA DI AVVENTO ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
6 DICEMBRE 2015 | 2A DOMENICA DI AVVENTO ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO
* Bar 5,1-9 – Dio mostrerà il suo splendore in te. * Salmo 125 – Rit.: Grandi cose ha fatto il Signore per noi. * Fil 1,4-6.8-11 – Siate integri e irreprensibili per il giorno di Cristo.
* Canto al Vangelo – Alleluia, alleluia. Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio! Alleluia. * Lc 3,1-6 – Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio! « Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare… » « Popolo di Sion, il Signore verrà a salvare i popoli e farà sentire la sua voce potente per la gioia del vostro cuore » (cf Is 30,19.30). Leggermente modificando un oracolo di Isaia, diretto contro l’Assiria e inteso a rincuorare Gerusalemme assediata da Sennacherib (701 a.C.), l’antifona d’ingresso ci lancia un messaggio di speranza e ci invita ad attendere « la salvezza » che Dio offrirà a tutte le genti per la « gioia » dei nostri cuori. E la « salvezza » che Dio ci offrirà, mandandoci Cristo, non sarà tanto politica, come fu allora per gli Ebrei, quanto quella più profonda che tocca il « cuore » dell’uomo e lo rinnova nella totalità dei suoi rapporti: con se stesso, con gli altri, con le cose, con le istituzioni, con Dio. Dio salva l’uomo, ogni uomo, trasformandolo, facendolo diventare diverso: il mistero dell’Incarnazione, che il periodo liturgico dell’Avvento intende mettere in risalto, è la esemplificazione concreta di come Dio sappia assumere l’umanità per riportarla alla sua trasparenza originaria. Questa è la « salvezza » radicale che Cristo porta agli uomini, e di cui ognuno di noi ha bisogno, sia esso « politicamente » libero, oppure oppresso e tiranneggiato.
« Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto… » Sta di fatto, però, che anche la liberazione « politica » rientra nel quadro di questa salvezza più vasta e più profonda che la venuta di Cristo porta agli uomini: anzi può addirittura prefigurarla! Ecco il motivo per cui la Liturgia ci propone come prima lettura un bellissimo tratto del composito libro del profeta Baruc, che la tradizione ritiene sia stato il segretario di Geremia, ma che molto probabilmente è vissuto assai dopo. In ogni modo il Profeta, verso la fine del suo libro, parla direttamente a Gerusalemme e la invita ad aprire il cuore alla speranza perché i suoi figli, dispersi ed esiliati, torneranno. E con i suoi figli ritornerà a splendere su di essa la « gloria » del Signore, il quale la manifesterà appunto nel beneficare, nel ristabilire la pace e la giustizia, nel rendere una patria a chi l’aveva perduta. « Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivestiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre… Sarai chiamata da Dio per sempre: « Pace della giustizia e gloria della pietà ». Sorgi, o Gerusalemme, e sta’ in piedi sull’altura e guarda verso oriente, vedi i tuoi figli riuniti da occidente ad oriente, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio… Poiché Dio ha stabilito di spianare ogni alta montagna e le rupi secolari, di colmare le valli e spianare la terra, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. Anche le selve e ogni albero odoroso faranno ombra ad Israele per comando di Dio… » (Bar 5,1.4-8). Si noti come gli ultimi versetti riecheggino Isaia (40,3-4), che pure parla di « montagne » che debbono abbassarsi e di « valli » che debbono colmarsi, per rendere più facile il ritorno dall’esilio babilonese ai figli di Israele: anche il Vangelo di Luca (3,4-5), che leggeremo tra poco, vi farà riferimento. Nello sfondo poi c’è il ricordo e anche tutto il ricco simbolismo del primo Esodo, quando perfino il mare, il Giordano, i monti, gli stessi alberi della foresta (cf Sal 114,1-8) sembrarono fare da corteo regale a Israele che tornava nella terra dei padri. È chiaro che in tutto questo al Profeta interessa far vedere, più che la stessa potenza, la benevolenza e l’amore di Dio che soffre della stessa sofferenza dei suoi figli e perciò li libera dalle loro angustie: « Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui » (v. 9). Ogni venuta di Dio è una venuta di « liberazione ». Anche il Salmo responsoriale rievoca con commossi accenti poetici il ritorno dall’esilio babilonese, facendone una « prefigurazione » della gioia dei tempi messianici: « Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia… Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia » (Sal 126,1-3). L’ultimo versetto ci rimanda a un passo analogo del Magnificat, dove Maria canta la sua gratitudine al Signore dicendo: « Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente » (Lc 1,49). L’intervento grandioso e « sorprendente » di Dio nella Incarnazione è sulla linea degli interventi di liberazione del passato, anche se li supera all’infinito dando loro un significato più profondo.
Il « centro » della storia ormai è Cristo Il brano del Vangelo ci aiuta a cogliere tutti gli elementi di « sorpresa » che la venuta di Cristo in mezzo agli uomini ha portato con sé, anche come sintesi degli interventi salvifici di Dio nella storia passata del suo popolo. E questo Luca lo fa in una doppia maniera: primo, introducendo, come gli altri Sinottici, la figura maestosa e austera di Giovanni Battista che annuncia, con parole profetiche e con gesti concreti, l’inizio della missione pubblica del Signore; poi, inquadrandone in maniera originale la venuta sullo sfondo della storia universale del tempo, quasi a dire che Gesù ormai è il « centro » della storia e le dà pieno significato. Per fare solo un esempio: chi mai ricorderebbe al mondo che c’è stato un tempo, in Palestina, un governatore di nome Ponzio Pilato, se quest’oscuro magistrato di Roma non si fosse incontrato o scontrato con Gesù di Nazaret? Tutto ciò che viene a contatto con lui assume valore o disvalore, è salvato o perduto, in base all’atteggiamento che si prende nei suoi riguardi: egli porta con sé il « giudizio » di tutte le cose, di tutti gli avvenimenti, di tutti gli uomini. La sua venuta è una venuta « decisiva »! Questo ci ha voluto dire Luca con l’ampia inquadratura storica, in cui colloca l’inizio della predicazione di Giovanni Battista: « Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto » (Lc 3,1-2). L’anno « decimoquinto » dell’imperatore Tiberio coincide con il 27-28 della nostra èra, essendo egli succeduto ad Augusto il 19 settembre del 14 d.C. Non abbiamo qui interesse a fornire dettagli storici sui singoli personaggi, a cui Luca ha eretto un monumento ben più grande di quanto meritassero. Noi vogliamo solo rilevare la dimensione « teologica » del quadro storico e geopolitico, descrittoci da Luca il quale, pur seguendo costumi letterari propri agli storici greci del tempo che danno sempre punti di riferimento ai fatti da loro narrati, vuol « universalizzare » la portata degli eventi che richiama. « Il centro della storia, quello che dà valore e senso al processo degli avvenimenti storici, non è il potere politico mondiale, Tiberio Cesare, non è il potere religioso e politico locale, palestinese, i pontefici di Gerusalemme o i vassalli di Roma, ma la parola di Dio che arriva a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto (cf 1,80). La svolta storica realizzata da Gesù e inaugurata dall’attività di Giovanni si staglia netta su questo sfondo di storia universale ». È una « svolta » storica, quella introdotta da Gesù con la sua venuta, che non potrà mai essere bloccata, o confinata in qualche piccolo spazio di tempo o di luogo. È necessariamente destinata ad essere storia universale, che salva tutti: « Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio », ci dirà tra poco Luca (3,6) citando Isaia. « I suoi discepoli lo volevano circoscrivere alla Palestina con la scusa che egli era un ebreo, e se lo ritrovarono in Antiochia, in Alessandria, in Atene, in Roma, prima ancora che gli Apostoli vi ponessero piede. Gli volevano dare la cittadinanza romana ed egli era già di là, con i barbari. Gli fabbricarono basiliche stupende di travertino, ed egli aveva già accettato l’ospitalità sotto la capanna del monaco sulle rive della Mosa, del Reno, del Danubio. Gli avevano fissato come mare il Mediterraneo ed egli passava l’Atlantico con Colombo… Il feudalismo gli offriva il castello, ed egli faceva casa con i servi della gleba. I re lo nominavano ciambellano o cappellano, ed egli si faceva galeotto con Vincenzo de’ Paoli… Dopo averlo deriso, la borghesia è andata in cerca di lui, e la povera gente credette e continua a credere che sia rimasto di là con coloro che non le vogliono bene, mentre cammina portando le sue pene e le sue speranze » (Primo Mazzolari).
« Voce di uno che grida nel deserto… » Pur essendo stato colto dalla « parola di Dio » nel deserto, il luogo tradizionale degli appuntamenti di Dio con l’uomo, il Battista lo lascia per andare incontro alla gente, là dove essa più normalmente si trova: « Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, come è scritto nel libro degli oracoli del Profeta Isaia: « Voce di uno che grida nel deserto: Preparate le vie del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sia riempito, ogni monte e ogni colle sia abbassato; i passi tortuosi siano diritti; i luoghi impervi spianati. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio! » (Lc 3,3-6). Giovanni dunque si riconosce nella « voce » dell’annunciatore anonimo, predetto da Isaia (40,3-5), e che aveva il compito di preparare la strada al popolo che Dio prodigiosamente faceva ritornare dall’esilio babilonese. Adesso, però, il compito era anche più grande, proprio per quella maggiore ampiezza di prospettive salvifiche in cui si inserisce Cristo, e che viene ricordata dall’ultimo versetto: « Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio » (v. 6). Soltanto Luca lo riporta, mentre gli altri Sinottici interrompono la citazione isaiana immediatamente prima. Questa medesima espressione la ritroviamo al termine del libro degli Atti (28,28) quando, essendo Paolo già arrivato a Roma, Luca potrà dimostrare che « la salvezza di Dio » è davvero giunta « fino agli estremi confini della terra » (At 1,8). Giovanni dava anche dei concreti insegnamenti per preparare gli uomini alla venuta del Signore, come vedremo domenica prossima, ma soprattutto compiva un « gesto » quasi sacramentale, che per un verso significava e per un altro, in parte, realizzava il rinnovamento interiore dell’uomo: « Egli percorreva tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati » (v. 3). Il « battesimo » di Giovanni, perciò, non era uno dei tanti riti di immersione in uso presso gli Ebrei di quel tempo, anche a Qumran: esso infatti portava essenzialmente alla « conversione » del cuore, che esprimeva anche con il simbolismo dell’acqua che rinnova e purifica, annunciando nello stesso tempo « il perdono dei peccati » da parte di Dio. È evidente perciò che sulla sua bocca l’invito isaiano a « preparare la via del Signore » (v. 4), al di là del rimando all’imminente venuta del grande « liberatore » dell’umanità intera, assumeva il significato di una grande « trasformazione » morale: i monti da abbassare sono gli egoismi, il senso della superiorità e del privilegio, l’uso e l’abuso del potere – come facevano Tiberio, Erode e tutti gli altri ricordati all’inizio da Luca -; i « burroni » e le « valli » da riempire (v. 3) sono gli atteggiamenti di sfiducia e di sconforto, di abbattimento, di fatalismo, di rassegnazione che condannano l’uomo all’immobilismo. Con Cristo « che viene » tutto deve diventare « nuovo », all’interno e all’esterno dell’uomo: « Ecco infatti che io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà neppure in mente » (Is 65,17).
« Essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo » Questa « novità » e freschezza di vita morale è per il cristiano un impegno di sempre: essa ricomincia sempre da capo! O meglio, è Dio che « perfeziona » in noi « l’opera buona » che egli stesso ha « iniziato », come ricorda san Paolo nel bellissimo brano introduttorio della lettera ai Filippesi, in cui ringrazia Dio per la generosa « collaborazione », anche economica, data da quei cristiani alla sua opera di evangelizzazione. « Prego sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente, e sono persuaso che Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù » (Fil 1,4-6). Il « compimento », poi, consiste in una sempre più raffinata « sensibilità » spirituale, per cui il cristiano è capace non solo di vedere e fare il bene, ma addirittura di « distinguere il meglio ». Proprio per questo egli è in una continua crescita di carità e di giustizia: « E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio » (vv. 9-11). Si sarà notato che per ben due volte Paolo parla del « giorno di Cristo » (vv. 6.10), nel quale dovremmo aver già maturato la nostra santità e i « frutti » della giustizia. È dunque sempre l’Avvento del Signore, questa volta l’ultimo, che mette in tensione i credenti e li spinge a esprimere il meglio di sé nello spazio di tempo che Dio, per sua misericordia, ancora ci dona.
Settimio CIPRIANI (+)

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