Archive pour novembre, 2015

Day 1 From chaos to light

Day 1 From chaos to light dans immagini sacre 19%20BLAKE%20ANCIENT%20OF%20DAYS%20THE%20DIVISION
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Publié dans:immagini sacre |on 24 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

GIUSEPPE – IL PADRE DI GESÙ, (PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI GIANFRANCO RAVASI : SAN PAOLO EDIZIONI, 2014)

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GIUSEPPE – IL PADRE DI GESÙ,  (PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI GIANFRANCO RAVASI : SAN PAOLO EDIZIONI, 2014)  

La figura di San Giuseppe mi ha da sempre affascinato, per cui ho colto l’occasione di leggere Giuseppe – Il padre di Gesù di Gianfranco Ravasi, Edizioni San Paolo, con un misto di curiosità e aspettativa, e devo ammettere che sono tante le cose che ho appreso, alcune decisamente lontane dall’iconografia classica. Giuseppe, c’è poco da dire, è una figura misteriosa, circondata da un‘aura di riserbo e di silenziosa discrezione. Cosa sappiamo realmente di lui? Dai vangeli canonici poco, appare più come una figura dimessa, sullo sfondo della vita di Gesù, di Maria e degli apostoli. Sappiamo che era un uomo giusto e gentile, di età in un certo senso avanzata, dotato di una fede forte e profonda (messaggeri divini gli apparivano in sogno e lui non esitava a eseguire cosa gli veniva comandato) e di un certo coraggio, fidanzato e poi sposo di Maria, padre legale di Gesù, un gran lavoratore, un falegname, discendente della stirpe di Davide sebbene la sua condizione sociale fosse modesta. Ravasi comunque non si limita a presentarci la figura di Giuseppe che emerge dai vangeli canonici, e qui sta sicuramente la parte più interessante del libro, ma aggiunge anche notizie tratte dai vangeli apocrifi, quei testi anche molto antichi che non rientrano nei testi giudicati dalla chiesa di ispirazione divina. In appendice troviamo per esempio il testo integrale della Storia di Giuseppe il falegname, testo apocrifo in cui viene descritta la morte di Giuseppe, e apprendiamo per esempio che era vedovo quando sposò Maria e già padre di numerosi figli (i celebri fratelli di Gesù?). O a pagina 46, notizie tratte dal Vangelo arabo dell’infanzia, da cui apprendiamo i nomi dei due condannati che saranno crocifissi con Gesù a Gerusalemme, e le circostanze un po’ avventurose del loro incontro precedente in Egitto con la sacra famiglia. Curioso il capitolo intitolato Un falegname high-class in cui Ravasi riporta la polemica tra chi “vorrebbe continuare a classificare Gesù e la sua famiglia nella categoria della povertà e chi, invece, vorrebbe promuoverlo al rango della media borghesia”. Polemica della quale ero del tutto all’oscuro. Naturalmente è un testo scritto da un teologo, che riporta versetti e citazioni bibliche, ma con una certa leggerezza che permette anche ai meno avvezzi ai testi teologici di trovare spunti di riflessione interessanti. Curioso per esempio anche l’accostamento tra Lenin  e San Paolo di pagina 65, che non vi anticipo, lo scoprirete durante la lettura, o l’elenco di rappresentazioni pittoriche in cui appare l’effige di Giuseppe. Bella per esempio la copertina con la riproduzione di San Giuseppe con Gesù bambino, 1640-1642, di Guido Reni. Sebbene sia un testo relativamente breve, perfetto come regalo per la festa del papà, Giuseppe – Il padre di Gesù racchiude un ritratto approfondito della figura di Giuseppe, con un occhio all’universo bliblico e un altro alle tracce culturali, come sintetizza lo stesso autore nell’ introduzione. Letto in un pomeriggio, senza sforzo grazie a uno stile semplice e discorsivo, privo di asperità.         

UNA LAMPADA SU UN SENTIERO BUIO – GIANFRANCO RAVASI

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UNA LAMPADA SU UN SENTIERO BUIO – GIANFRANCO RAVASI

Una lampada su un sentiero buio, la pioggia che scende dal cielo su un terreno arido e stepposo, una spada che penetra nella carne: è con questi tre simboli che la parola di Dio si autodefinisce nella Bibbia. Il Salmo 119, monumentale cantico della legge-parola del Signore, vede l’esistenza dell’uomo come una strada avvolta nelle tenebre. Ecco, però, una luce che sfavilla: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino»(Sal 119,105). Il profeta anonimo, cantore della liberazione di Israele dalla schiavitù «lungo i fiumi di Babilonia», chiamato convenzionalmente Secondo-Isaia, concludendo il suo libretto di oracoli disegna il panorama della Terra Santa: una luce che abbaglia, una distesa arida e screpolata e solo qualche magro ritaglio di terra coltivata. Ma a primavera e in autunno su questo scenario di fuoco e di caldo si stende il velo della pioggia e la terra è percorsa da un brivido di vita. Così è la storia di un popolo morto, fecondato dalla parola divina: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (IS 55,10-11).     Quella solenne e raffinata omelia della Chiesa delle origini che è la Lettera agli Ebrei vede ramificarsi all’interno del popolo di Dio la stessa pericolosa tentazione che aveva colpito Israele nel deserto sinaitico, la tentazione dello scoraggiamento, dell’inerzia, della nostalgia. Ecco allora la provocazione violenta di una spada che penetra e sconvolge: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione del-l’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La Bibbia che ora apriamo deve, quindi, trasformarsi in lampada, in acqua viva, in spada. Ma perché avvenga questo, è necessario che si attui uno dei motti cari a chi si impegna alla conoscenza e alla diffusione della Bibbia: «Non basta possedere la Bibbia, bisogna anche leggerla; non basta leggere la Bibbia, bisogna anche comprenderla e meditarla; non basta comprendere e meditare la Bibbia, bisogna anche viverla». Ora, la comprensione profonda della parola di Dio – una parola incarnata in una storia e in uno spazio precisi – è simile a una conquista, a un assedio nei confronti di una cittadella fortificata nella quale si aprono molte brecce, ma il cui centro sembra restare inviolato e misterioso. Lo scrittore medievale Ruperto di Deutz parlava di una lotta corpo a corpo col libro sacro, simile a quella che Giacobbe dovette sostenere in quella notte oscura lungo le rive spumeggianti del fiume Iabbok (Gen 32): «Dolce lotta, più gioiosa di ogni pace». Qual è la scoperta che ci attende? Se sfogliamo le pagine della Bibbia è più facile che ci incontriamo con rumori di guerre che non con la pace di un eremo silenzioso; è più facile che vediamo una terra striata dal sangue e dalle ingiustizie che non il segno dorato di un mondo celeste perfetto; è più facile che nelle preghiere dei Salmi ci scontriamo con l’eterno grido di protesta dell’uomo sofferente («Perché Signore? […] Fino a quando starai a guardare?») che non con la serena contemplazione della natura; è più facile che ci imbattiamo nel brusio delle strade e della vita quotidiana che non nelle altissime intuizioni della mistica. La Bibbia è, quindi, l’intreccio tra Dio e la nostra storia: la pasqua del Cristo nasce dalla crocifissione, la vita sboccia dalla morte. Lo scopo della Bibbia non è quello di celebrare un Dio lontano, ma un Dio incarnato che salva la nostra storia: «La sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza» (Eb 3,6). Proprio per l’incarnazione della rivelazione biblica, questa edizione della Bibbia non è fatta solo di un nudo testo. Certo, al centro c’è la Parola, il Libro per eccellenza, offerto nella nuova versione curata dalla Conferenza episcopale italiana e detta comunemente Bibbia della CEI (BC, editio princeps del 2008). Ma questo testo è accompagnato da una guida, costituita da una delle più alte espressioni dell’esegesi contemporanea, la celebre Bible de Jérusalem (BJ) nella nuova versione del 1998. Nota in tutto il mondo attraverso molteplici traduzioni, questa Bibbia commentata è opera dei migliori esegeti cattolici francesi. Essi si sono idealmente e spesso realmente connessi alla città santa della Bibbia il cui nome, come dice il curioso anagramma ebraico di Ez 48,35, è YHWH «hammah», «il Signore è là». In questa «casa di Dio tra gli uomini» essi hanno preparato introduzioni, commenti, titoli esplicativi, referenze marginali ai passi paralleli. I testi, stesi sempre in modo piano ed essenziale, riflettono in filigrana un’estrema ricchezza di dati, rivelando sempre una grande finezza letteraria e teologica. L’edizione italiana che ora presentiamo offre anche alcune note di critica testuale preparate da un’équipe di biblisti italiani: esse hanno lo scopo di segnalare i casi in cui la BC sceglie una «lezione» e quindi una versione diversa rispetto a quella della BJ, dando le motivazioni per la nuova proposta. Con questa guida, la Scrittura diventerà anche testo letterario fragrante, espressione di poesia, di intuizioni altissime e dei mille segreti dell’esistenza. Con questa guida la Scrittura diventerà in modo più limpido parola di Dio, «saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» (Dei verbum, 21). Gregorio Magno in una lettera giustamente famosa indirizzata a un laico, il medico dell’imperatore, scriveva: «Cerca di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio perché tu possa più ardentemente desiderare i beni eterni e con maggior desiderio la tua anima si accenda di amore per Dio e per il fratello» (Epist. 31,54).

S.E Mons. Gianfranco Ravasi Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, delle Pontificie Commissioni per i Beni culturali della Chiesa e di Archeologia sacra

 

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 24 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

Jaume Huguet – The Archangel St Michael

Jaume Huguet - The Archangel St Michael dans immagini sacre Jaume_Huguet_-_The_Archangel_St_Michael_-_WGA11799

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Publié dans:immagini sacre |on 23 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

PAOLO, IL FARISEO CHIAMATO DA DIO

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PAOLO, IL FARISEO CHIAMATO DA DIO 

DI: P. FABRIZIO TOSOLINI, SX     FEBBRAIO 2009  

  Nella Lettera ai Filippesi Paolo vanta le sue origini: « Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile » (Fil 3,5-6). In Gal 1,13-14 evidenzia la propria intransigenza come persecutore: « Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo; superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri ».   I FARISEI E IL MOVIMENTO DI GESÙ I Farisei sembrano essere gli eredi dei gruppi di Giudei che nel II sec. a.C. si erano opposti al progetto di ellenizzazione forzata di Antioco IV Epifane, prima sostenitori e poi perseguitati dalla dinastia Asmonea. Pongono in grande rilievo lo studio della Legge, ritenendo che essa possa guidare il comportamento umano e santificarlo fin nelle azioni più comuni. Per mettere in pratica la Legge in ogni azione della giornata, in particolare per quanto riguarda il prendere cibo, devono sottoporla a minuziosa analisi in modo da trovarvi tutte le indicazioni necessarie. Al tempo di Gesù e di Paolo sembra che le confraternite farisaiche fossero concentrate a Gerusalemme e dintorni (la vita in comune rendeva più facile l’osservanza delle regole alimentari); appartenevano in media agli strati sociali più bassi e vivevano poveramente. Il movimento che nasce attorno a Gesù mostra molti tratti di similitudine sia con gli Esseni che con i Farisei. I Vangeli presentano i Farisei come duri avversari del Cristo a motivo della separazione che avviene dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., verso la fine del I sec. Al tempo di Gesù l’opposizione veniva da parte dei Sadducei, in particolare dalla famiglia di Anna e Caifa, sulla base di considerazioni politiche (in quanto discendente di Davide, Gesù aveva tutti i diritti di aspirare al trono di Israele). Giunto a Gerusalemme, Paolo deve essersi unito a qualcuna delle confraternite farisaiche e aver con loro studiato la Legge. Atti dice sotto la guida di Gamaliele. Non è impossibile che in questo tempo Paolo abbia sentito parlare di Gesù e forse lo abbia anche visto, quando il Rabbi di Nazaret saliva alla Città Santa.   LA REAZIONE DI PAOLO AL MOVIMENTO DI GESÙ  La predicazione di Gesù, e su Gesù da parte della prima comunità, deve aver suscitato in Paolo una forte reazione negativa: durante la sua vita pubblica Gesù mostra un’autorità superiore alla Legge e si attribuisce prerogative, quale quella di perdonare i peccati e di riformare il servizio nel Tempio, che sono solo di Dio; e questo sulla base della precisa coscienza di essere Figlio di Dio in modo superiore a quello di tutto Israele e di essere inviato da Dio per salvare il mondo e portare a tutti lo Spirito. Gesù era stato crocifisso e, siccome moriva della morte dei maledetti, Dio non poteva essere con lui. Ma i suoi seguaci stavano riempiendo Gerusalemme e il mondo giudaico della notizia della sua glorificazione, con un successo notevolissimo e con minaccia non solo per la funzione espiatrice del Tempio, ma anche per le tradizioni tramandate da Mosé (cf. At 6,13-14). Per questo, probabilmente, Paolo passa all’azione, mosso da quello zelo che era tipico delle comunità farisaiche e delle loro accese discussioni riguardo alla Legge. Non ci è chiaro come egli in concreto perseguiti i cristiani. È verosimile che si sia mosso in modo personale, autonomo, come un battitore libero, approfittando delle riunioni nelle sinagoghe per accusare pubblicamente i cristiani, contraddire il loro messaggio, obbligarli a fare pubblicamente delle affermazioni o dei giuramenti che andassero contro la loro fede (cosa che farà qualche decina d’anni dopo anche Plinio il Giovane). In questo modo egli ottiene la loro condanna da parte dei responsabili delle sinagoghe; condanna che, se non necessariamente comportava conseguenze fisiche (c’erano problemi di giurisdizione), di sicuro diventava un ostracismo morale che rendeva ai cristiani, doppiamente rifiutati (dai greci in quanto giudei, dai giudei in quanto cristiani), la vita molto difficile. È anche possibile che, in vista di questo, abbia ottenuto da parte del Sinedrio lettere di autorizzazione, che garantivano la sua autorità e ortodossia, e gli davano così una notevole forza di coercizione.   SULLA VIA DI DAMASCO LA CONVERSIONE L’apparizione di Gesù sulla via di Damasco costringe Paolo a ristrutturare tutto il suo mondo interiore. In quanto fariseo credeva nella risurrezione. Ora Gesù, vivo, si fa riconoscere da lui come colui che il Padre ha glorificato, e che, nello stesso tempo, manifesta la sua vita risorta nella Chiesa creando con essa una nuova storia. Non solo: dalla risurrezione risulta confermato quanto Gesù diceva di sé, di essere venuto e di donare se stesso per la salvezza di tutti gli uomini. Così che in Paolo l’attitudine di difensore della tradizione di Israele si rovescia nell’impegno di mettere tutti a contatto vivente, per mezzo della tradizione della comunità, con l’intenzione salvifica del Risorto. In questo modo Paolo riconosce che la Legge non può liberare dal peccato, se il Figlio di Dio è dovuto morire per espiare i peccati; anzi, se la Legge ha fornito le ragioni ad alcuni israeliti per condannare il Figlio di Dio, quel modo di interpretarla non ha più valore. La Legge ormai parla solo di Cristo e di ciò che lui è venuto a portare.   DALLA CONVERSIONE LA MISSIONE Paolo vede che il rapporto che Cristo instaura con lui avviene non più a partire dalla buona volontà umana, ma nasce e cresce per l’azione della potenza del Risorto, per la presenza dello Spirito che dà testimonianza allo spirito dell’uomo, lo guida alla confessione di fede e alla vita secondo la nuova Legge, che è la sua ispirazione nel profondo del cuore. Questa nuova Legge guida immancabilmente il cristiano sulle orme di Cristo, il quale si dona per la comunità degli uomini fino a perdere per loro le sue prerogative divine. Anche Paolo vedrà che ai doni mistici individuali è preferibile lo svuotamento di sé in vista della costruzione della famiglia di Dio, così che Cristo sia tutto in tutti. In questo modo Paolo esperimenta, interiormente ed esteriormente, nei gloriosi anni dell’impegno missionario, la mirabile corsa della Parola di Dio. Da povera e piccola parola annunziata, essa entra nel cuore e in esso si sviluppa, trasformandolo, operando in esso la fede, la speranza, la carità. La santificazione dello spirito umano si irradia nella vita visibile nel comportamento storico, nel cammino della comunità, la quale a sua volta diventa parola: parola irresistibile nella dinamica delle sue relazioni interne, quando tutti dicono le parole di Dio (cf. 1 Cor 14,25); parola che di nuovo diventa seme sulla bocca e nella vita degli annunciatori che essa invia. Sembra impossibile che Paolo abbia colto tutto questo nei brevi momenti in cui il Risorto gli fa conoscere la sua potenza. Eppure si può serenamente pensare che sia stato così, proprio come un grande albero è già tutto presente nel seme nascosto nella terra.   LE CONVERSIONI SONO L’OPERA DI DIO  Il libro degli Atti racconta tre volte l’esperienza della conversione di Paolo. L’apostolo stesso la paragonerà alla creazione (cf. 2 Cor 4,5). Sembra incredibile quanto poco poi, nell’esperienza comune della Chiesa, siano valutate le conversioni. Il fatto stesso di collocarne alcune in un’aura di straordinarietà contribuisce a distanziarle dalla vita. Eppure sono per antonomasia l’opera di Dio, il fuoco dal cielo che anche lo stesso Elia può solo invocare. Le comunità dovrebbero ritrovarsi sempre di nuovo attorno alle esperienze di conversione quasi come davanti alla Scrittura e davanti all’Eucaristia. Sono le conversioni quel mondo nuovo che Dio continua a scrivere nelle tenebre, facendole diventare giorno luminoso di risurrezione. Il resto rimane notte.   FABRIZIO TOSOLINI

LA BATTAGLIA DEL CRISTIANO È SPIRITUALE – (Ef 6, 11-20) – SANT’ISACCO DI NINIVE

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LA BATTAGLIA DEL CRISTIANO È SPIRITUALE -  (Ef 6, 11-20) – SANT’ISACCO DI NINIVE

“La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”

“Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere.” Lettera agli Efesini (6, 11-20)

LA LOTTA SPIRITUALE – SANT’ISACCO DI NINIVE 1. Continuità della lotta Finché uno non odia di cuore e in verità la causa del peccato, non è liberato dalla dolcezza che esso produce nel cuore; tale dolcezza è la potenza della lotta che si leva contro l’uomo fino al sangue. Quanto più un uomo entra nella lotta per Dio, tanto più si avvicinerà alla parresia del cuore nella sua preghiera. La lotta non termina in un attimo, né la grazia viene tutta intera in una volta e abita nell’anima. Ma un pò e un pò; ci sarà l’una e l’altra: c’è un tempo per la tentazione e un tempo per la consolazione. Una parte della lotta perdura fino alla morte: non sperare di qui la liberazione piena da essa. Questo mondo è la palestra della lotta e lo stadio della corsa; e questo tempo è il tempo del combatti­mento. E il luogo del combattimento e il tempo della lotta non sono soggetti a una legge. Ciò significa che il re non ha posto un limite ai suoi lavoratori, finché non sia finita la lotta e non siano tutti radunati nel luogo del Re dei re. Lì sarà esaminato colui che ha persevera­to nella battaglia e non ha ricevuto sconfitta, e colui che non ha voltato le spalle. Infatti, quante volte è ac­caduto che un uomo buono a nulla, che a causa della sua mancanza di esercizio era costantemente battuto e gettato a terra, e che era sempre in uno stato di fragi­lità, abbia afferrato lo stendardo dell’accampamento dei figli dei valorosi, e il suo nome sia diventato famo­so più di quello di coloro che erano stati diligenti, di coloro che si erano distinti, degli abili e degli istruiti, e abbia ricevuto la corona e doni più preziosi di quelli dei suoi compagni. Perciò, nessuno abbandoni la speranza. Solo: non disdegni la preghiera e il chiedere aiuto a nostro Signore. Teniamo bene nell’intelligenza questo: per tutto il tempo in cui siamo in questo mondo e abitiamo in questo corpo, se anche fossimo innalzati fino alla volta dei cieli, non ci è possibile restare senza fatica e avver­sità, e senza preoccupazione.

2. Ricominciare Altro sono gli inciampi e le cadute posti sulla via della virtù e sulla corsa della giustizia, secondo la paro­la dei padri: “Sulla via della virtù ci sono cadute, mu­tamenti, violenza, eccetera”. Altro è invece la morte dell’anima, la completa distruzione e la desolazione totale. Ecco come si fa a conoscere che si è nel primo ca­so: se uno, anche cadendo, non dimentica l’amore del Padre suo; e, pur essendo carico di colpe di ogni gene­re, la sua sollecitudine per la sua opera bella non è in­terrotta; se non smette la sua corsa; se non è negligente nell’affrontare di nuovo la battaglia contro le stesse co­se dalle quali è stato sconfitto; se non si stanca di rico­minciare, ogni giorno, a costruite le fondamenta della rovina del suo edificio, avendo sulla sua bocca la paro­la del Profeta: Fino all’ora del mio passaggio da que­sto mondo, non rallegrarti di me, o mio nemico! Perché sono caduto, ma di nuovo mi rialzo; sono seduto nella tenebra, ma il Signore mi illumina “. Così non cesserà di combattere fino alla morte; non si darà per vinto finché ci sarà respiro nelle sue na­rici; e anche se la sua nave naufragasse ogni giorno e i risultati ottenuti dal suo commercio finissero nell’a­bisso, non cesserà di prendere a prestito e caricare altre navi e navigare con speranza. Finché il Signore, vedendo la sua sollecitudine, avrà pietà della sua ro­vina, rivolgerà a lui le sue misericordie e gli darà in­citamenti potenti per sopportare e affrontare i dardi infuocati del male. Questa è la sapienza che viene da Dio, e chi è mala­to di questo è sapiente.

3. Convertire le fatiche Nella notte in cui sudò, il Signore nostro ha trasformato il sudore della fatica su di una terra che fa crescere spine e cardi  in sudore che si mescola alla preghiera. Il vento feconda i frutti della terra e lo Spirito di Dio i frutti dell’anima. L’ostrica nella quale la perla è plasmata riceve dall’aria il suo riempimento, come dice il nome; fino a quel momento è invece carne spoglia. Così avviene per il cuore del monaco: finché non ri­ceve il suo riempimento celeste, per mezzo del discer­nimento, la sua pratica è ancora spoglia; e in lui, nella sua ostrica, non c’è consolazione. I frutti degli alberi sono aspri e sgradevoli al gusto e non sono buoni da mangiare, finché non penetra in essi la dolcezza che viene dal sole. Così le vecchie fa­tiche della conversione sono amare e molto sgradevoli, e non danno consolazione al solitario, finché non pe­netra in esse la dolcezza della contemplazione che ri­muove il cuore dalle realtà terrene e il solitario non dimentica se stesso. Le pratiche del corpo senza le bellezze del pensie­ro sono un grembo sterile e mammelle asciutte; non avvicinano alla conoscenza di Dio. Alcuni hanno il corpo affaticato, ma non si curano di sradicare le pas­sioni dal loro pensiero: neppure essi raccoglieranno; non raccoglieranno proprio nulla! Come un uomo che semina tra le spine e non può raccogliere, così è colui che rovina la propria intelli­genza con la preoccupazione, l’ira e il desiderio di am­massare ricchezze e intanto geme sul suo letto per le molte veglie e astinenze. Per ogni opera c’è una misura e per ogni pratica è noto un tempo. Chiunque cominci prima del tempo qualcosa che è superiore alla sua misura ne ha doppio danno e nessuna utilità. Nulla è simile alle fatiche misurate, quando sono ac­compagnate dalla fedeltà. La loro mancanza provoca un eccesso di desiderio, mentre il loro eccesso dà luogo alla confusione.

4. Discernere l’ambiguo C’è una fiducia in Dio che è accompagnata dalla fede del cuore e che è bella e deriva dal discernimen­to della conoscenza; e ce n’è un’altra che è insipi­da e deriva dalla stoltezza: questa seconda fiducia è fallace. Il coraggio del cuore e il fatto che uno disprezzi tutti i pericoli, procedono da una di queste due cause: o dal­la durezza del cuore, o da una grande fede in Dio. All’una è congiunto l’orgoglio, all’altra invece l’umiltà di cuore. Il silenzio continuo e la custodia della quiete perse­verano nell’uomo per una di queste tre cause: o in vi­sta della gloria degli uomini, o a motivo dell’ardore in­fuocato per la virtù, o perché si ha nell’intimo una qualche consuetudine con Dio che attira a sé il pen­siero. Chi non possiede queste ultime due cause, quasi necessariamente si ammala della prima. Una condotta che non ha occhi è vana; perché, a causa della sua distrazione, conduce facilmente al di­sgusto. Prega il Signore nostro perché procuri occhi alla tua condotta; di qui comincia a sgorgare per te la gioia. Allora le tribolazioni saranno per te dolci come un favo. Di qui troverai che la tua reclusione è una stanza nuziale. La vigilanza del discernimento è migliore di qualsia­si atteggiamento che si possa assumere davanti alle va­rie situazioni degli uomini. È meglio l’aiuto che viene dalla vigilanza, dell’aiuto che viene dalle opere. La vigilanza aiuta l’uomo più delle opere. L’ozio danneggia solo i giovani, la rilassatezza, invece, anche i perfetti e gli anziani.

II. GLI STRUMENTI DELLA LOTTA  1. Il rinnegamento DISCEPOLO: Cosa faremo al corpo che, quando è attorniato dalle disgrazie, a causa di esse viene meno alla volontà di desiderare i beni e la saldezza di un tempo? MAESTRO: Questo avviene per lo più a coloro che in parte sono usciti dietro a Dio, ma in parte sono rimasti nel mondo. Cioè il loro cuore non è ancora capace di staccarsi da qui, ma sono divisi in se stessi, poiché una volta guardano dietro di sé e una volta guardano davanti. Ritengo che il sapiente ammonisca costoro, che si accostano alla via di Dio in una tale divisione, quando dice: “Non accostarti ad essa con due cuo­ri; ma avvicinati ad essa come chi semina e come chi miete”. E ancora nostro Signore, a coloro che vogliono rendere perfetto questo esodo, vedendo che tra di loro vi sono alcuni uomini come questi la cui volontà è pronta ma i cui pensieri sono ancora attratti indietro dalla paura delle tribolazioni, causata dall’amore del corpo che non hanno ancora deposto da se stessi, per togliere da loro la fiacchezza del pensiero, dice: “Chi vuol venire dietro a me, prima rinneghi se stesso”.

Qual è il rinnegamento qui ricordato? E’ il rinnegamento che avviene nel corpo, a immagine di colui che, preparandosi a salire sulla croce, prende nei suoi pen­sieri l’intelligenza della morte e allora esce come uno che pensa di non avere più una parte in questa vita. Questo significa: Prenda la sua croce e venga dietro a me. Chiama croce la volontà pronta a ogni tribolazio­ne. E spiegando perché sia così, dice: “Chi vuole che la sua anima viva  in questo mondo, la fa perire alla vita vera; ma chi fa perire se stesso a causa mia qui, si ritro­verà di là”. Cioè, chi dirige i suoi passi sulla via della crocifissione, ma poi è ancora sollecito per questa vita del corpo, fa decadere la sua anima dalla speranza per la quale era uscito a patire. Nostro Signore ha posto davanti a te la croce perché tu sentenzi la morte sulla tua anima; e solo allora lascerai la tua anima andare dietro a lui. Non c’è nulla che sia potente come l’essere senza speranza in se stessi; questo non può essere sconfitto né da qualcosa di favorevole né da qualcosa di sfavore­vole. Quando un uomo, nel suo pensiero, ha abban­donato la speranza che viene dalla sua vita, nessuno potrà essere più coraggioso di lui, e nessun nemico po­trà attaccarlo, e non c’è afflizione il cui sentore potrà fiaccare la sua intelligenza. Perché ogni afflizione esi­stente è inferiore alla morte, e lui ha lasciato che la morte venisse su se stesso. Non c’è nessuno che ami qualcosa e non cerchi di moltiplicarne gli effetti. Non c’è nessuno che cerchi di occuparsi delle cose divine se non si è allontanato e non ha disprezzato quelle temporali, facendosi stra­niero all’onore del mondo e alle sue dolcezze, e strin­gendosi all’obbrobrio della croce, bevendo ogni giorno aceto e amarezze a motivo di passioni e uomini e demoni e miseria.

2. La rinuncia Abbandona le cose di poco valore per trovare quel­le preziose. Sii morto nella vita e così non vivrai nella morte. Fa’ che la tua anima muoia nella sollecitudine, e non che viva nella condanna. Non sono martiri solo coloro che a causa della fe­de in Cristo accolgono la morte, ma anche coloro che muoiono per custodire i suoi comandamenti. A ogni parola dura che l’uomo sopporta con discer­nimento, eccetto il caso che sia lui la causa dell’of­fesa, egli riceve sulla sua testa una corona di spine a motivo di Cristo; e sarà beato e anch’egli sarà incoro­nato in un tempo che non conosce. Colui che fugge la gloria, coscientemente, speri­menta in se stesso la speranza del mondo futuro. Colui che ha professato l’allontanamento dal mondo e poi litiga con gli uomini a motivo delle cose, per non essere impedito nel fare ciò che gli piace, è completa­mente cieco. Infatti, ha abbandonato l’intero mondo volontariamente, e ora litiga per una parte di esso. Colui che fugge gli agi di quaggiù, ha il pensiero fis­so al mondo futuro. Colui che possiede beni è schiavo delle passioni; e non considerare beni solo l’oro e l’argento, ma tutto ciò che tu possiedi con il desiderio della tua volontà. Se hai abbandonato l’intera realtà del mondo, vo­lontariamente, non contendere con nessuno per picco­le parti di esso. L’albero, finché non fa cadere le vecchie foglie, non fa spuntare i nuovi rami; così il solitario, finché non scrolla dal suo cuore i suoi vecchi ricordi, non fa spun­tare i nuovi rami  per mezzo di Gesù Cristo.

3. Un desiderio più grande DISCEPOLO: Come può l’uomo uscire completamente dal mondo? MAESTRO: Per mezzo del desiderio suscitato dalla memoria dei beni futuri, quelli che la divina Scrittura semina nel suo cuore con la dolcezza dei suoi versetti colmi di speranza. Infatti, il pensiero non può disprez­zare il suo amore di prima, finché un desiderio più ec­cellente non si contrappone a quelle cose che sono rite­nute gloriose e piacevoli, dalle quali l’uomo è posseduto. Ciò che ogni uomo desidera lo si conosce dalle sue opere; egli sarà sollecito a chiedere nella preghiera ciò che gli sta a cuore; e ciò per cui prega, avrà cura di ma­nifestarlo anche nelle opere palesi.

Chi desidera intensamente le cose grandi, non si preoccupa di quelle piccole. Quando in te l’amore per Cristo  non è forte al punto da renderti, per la gioia in lui, impassibile a tut­te le afflizioni, sappi che in te il mondo vive più di Cristo. Quando le infermità, i bisogni, il tormento del corpo, o la paura che viene dalle sue pene, turba il tuo pensiero allontanandolo dalla gioia della tua speranza e dalla meditazione limpida del Signore nostro, sappi che in te vive il corpo e non Cristo. In te vive ciò il cui amore ha su di te più potere.

4. La povertà Ama la povertà con perseveranza, perché il tuo pen­siero sia raccolto dalla dispersione. Odia la sovrab­bondanza, per essere preservato dalla confusione dell’intelligenza. Taglia corto con le molte cose e prenditi cura delle tue condotte, perché la tua anima eviti di dissipare la quiete interiore. Se possiedi qualcosa in più rispetto al nutrimento quotidiano, vai dallo ai poveri; poi vieni, presenta la preghiera con parresia, cioè parla con Dio come un fi­glio fa con suo padre. Non c’è nulla che avvicini il cuore a Dio quanto la compassione; e non c’è nulla che dia pace al pensiero quanto la povertà volontaria. Come non è possibile che la salute e la malattia sia­no in uno stesso corpo, senza che una di esse sia eli­minata dall’altra, così non è possibile che il denaro e l’amore siano in una stessa casa, senza che uno di essi distrugga l’altro. Finché un uomo si trova nella povertà, l’esodo dalla vita si leva continuamente nel suo pensiero; è in ogni istante medita sulla vita che seguirà la resurrezione, e in ogni momento si industria nella preparazione di ciò che è utile per l’aldilà. Ma quando accade che, per una qualche causa, una delle cose transitorie cade in mano sua ed egli l’acqui­sta per opera di colui che è sapiente in ogni cosa mal­vagia, immediatamente l’amore del corpo inizia a muo­versi nella sua anima, egli pensa di avere una vita lunga davanti a sé, e i pensieri relativi al riposo del corpo fioriscono in lui in ogni momento. Egli trattiene il suo corpo, se possibile, perché non sia vessato da nulla, e si industria in tutte quelle cose che possono dare riposo al corpo. Ma così si priva di quella libertà che non as­servisce ad alcun pensiero di timore; e quindi medita e riflette su tutti quei moti che producono la paura e che sono cause di timore, perché egli è ormai privato del coraggio del cuore, coraggio che aveva quando, grazie alla povertà, si era levato al di sopra del mondo. Ama i poveri, e grazie a essi troverai misericordia.

5. La memoria degli inizi Quando tu sperimenti la sconfitta, la fragilità, la mancanza di entusiasmo, e ti ritrovi legato e incatena­to dal tuo avversario in una terribile miseria e nello spossamento che la pratica del peccato produce, rie­voca al tuo cuore l’ardore dei primi tempi, quando mo­stravi sollecitudine anche per le piccole cose, eri mosso da zelo contro ciò che impediva il tuo cammino, esprimevi dolore per piccolissime cose da te trascurate sen­za tua colpa e cingevi intera la corona della vittoria, a motivo di tutto ciò. Allora, per mezzo di tali ricordi e di altri simili, la tua anima si sveglierà come dal sonno, si rivestirà di ardente zelo e si leverà dal suo torpore, come dalla morte. Si raddrizzerà e farà ritorno al suo posto di pri­ma, all’acceso combattimento contro Satana e contro il peccato. Tu, uomo che sei uscito dietro a Dio, in ogni tem­po della tua lotta, ricordati sempre dell’inizio, di quel primo ardore che fu al principio del cammino, di quel pensiero infuocato nel quale sei uscito dalla tua dimo­ra di un tempo e nel quale la tua anima è andata a schierarsi in battaglia. Esamina te stesso ogni giorno, perché non si smorzi il calore della tua anima fino a perdere quell’ardore di cui eri acceso; che tu non ven­ga a mancare di nulla dell’armatura di cui eri cinto al principio della tua lotta. Un anziano aveva scritto sulle pareti della sua cella varie frasi, pensieri di vario contenuto e parole mira­bili e diverse su tutti i pensieri. E gli fu chiesto: “Cos’é questo, abba?”. Rispose: “Sono i pensieri di giusti­zia che mi sono comunicati dall’angelo che è presso di me e dai retti moti della natura. Io li scrivo quando mi trovo in queste dimore, affinché, nel tempo della tene­bra, io mi intrattenga con essi, e così mi salvino dall’errore”.

6. L’attenzione alle piccole cose Chi trascura  le cose piccole, anche nelle grandi sarà un mentitore e un ingannatore. Non rigettare le cose piccole, per non essere privato di quelle grandi. Non si è mai visto un infante che succhia il latte mettere carne nella sua bocca. Per mezzo delle cose piccole si apre la porta alle grandi. Senza caricarsi del fardello delle cose piccole, non è possibile sfuggire ai grandi mali. Con ciò con cui hai perso i beni, con quello stesso devi riacquistarli. Tu devi a Dio una monetina? Non accetterà da te una perla al suo posto. Ciò che tu custodirai per Dio, Dio lo custodirà per la tua salvezza. La vita nello Spirito richiede in primo luogo tempo e fedeltà. Se, infatti, non è possibile che uno impari le arti del mondo senza persistere per molto tempo nella fedeltà dei loro commerci – e solo allora il pensiero afferra l’oggetto e il modo della pratica dell’arte che ha deciso di imparare -, quanto più questo è valido per noi. Se un’arte visibile agli occhi richiede tanto tempo e fedeltà di impegno, quanto più l’arte dello Spirito, che l’occhio non vede, per la quale non si conosce ciò da cui la si può apprendere, e che necessita di una grande purezza! Il maestro in questo è lo Spirito, e l’arte è nascosta.

7. La stabilità e la perseveranza Grande è la potenza di una condotta minima, quan­do questa è unita alla fedeltà. La soffice goccia, per la sua fedeltà, scava anche la dura roccia. Ogni condotta che è senza stabilità e di poca durata, si trova ad essere anche senza frutti.

8. La veglia Non pensare, o uomo, che tra tutte le fatiche degli asceti vi sia una pratica più grande e più preziosa della fatica della veglia. Da’ spazio alle fatiche della veglia e troverai che la consolazione è vicina, nella tua anima. Appresta tutto, con ogni mezzo, affinché, tra l’uffi­cio della notte e quello del mattino, vi sia un tempo per quella meditazione che è utile alla tua crescita nel­la conoscenza divina, per tutti i tuoi giorni. Anche questo è importante nella pratica della veglia; non cre­dere che la veglia consista solo nella ripetizione. L’anima che si affatica nella condotta della veglia diventerà esperta, otterrà occhi di cherubino per la fi­nezza dello sguardo e l’acume. Io prego te, che sei capace di discernimento e che desideri acquisire la vigilanza dell’Intelletto in Dio e la conoscenza della vita nuova, di non trascurare per tut­ta la tua vita la condotta della veglia; perché da essa i tuoi occhi saranno aperti per vedere l’intera gloria del­la condotta e la potenza della via della giustizia. Tu manchi di discernimento se … pensi che le veglie siano finalizzate alla fatica in se stessa e non a qualco­sa d’altro che da esse è generato. Bilancia del sonno è chiaramente l’equilibrio del ventre.

9. Il digiuno DISCEPOLO: Per colui che ha rigettato dalla sua ani­ma tutti gli impedimenti  ed è entrato nella casa della lotta, qual è l’inizio della sua battaglia contro il pecca­to? E da dove inizia lo scontro?

MAESTRO: E’ noto a chiunque che la fatica del digiu­no  precede qualsiasi lotta contro il peccato e i suoi desideri, soprattutto per colui che combatte il peccato che è dentro di sé. E il segno dell’odio per il peccato e i suoi desideri, in coloro che scendono in questo com­battimento che è invisibile, è reso visibile dal fatto che iniziano con il digiuno, seguito dalla veglia notturna. Colui che per tutta la sua vita ama la consuetudine con il digiuno, è amico della castità. Il digiuno è la dimora di tutte le virtù, e chi lo disprezza mette a repentaglio tutte le virtù. Infatti, il primo comandamento stabilito in principio per la no­stra natura la diffidava dal gustare un cibo, e proprio in questo cadde il nostro antenato. Quindi gli atleti del timore di Dio, quando si accingono alla custodia delle sue leggi, iniziano la loro costruzione proprio da lì dove è venuto il primo danno. Anche il Salvatore nostro, dopo la sua manifestazio­ne al mondo presso il Giordano, iniziò di qui. E scritto infatti: “Dopo che fu battezzato, lo Spirito lo fece uscire nel deserto, e digiuno  quaranta giorni e quaranta notti ­ e tutti coloro che seguono le sue orme, poggiano l’inizio della loro lotta su questo fondamento.

10. La castità Ama la castità, per non essere confuso al momento della preghiera, davanti a chi ti muove battaglia. Ogni piacere dello Spirito è preceduto dalle tribola­zioni della croce, mentre il piacere del peccato è gene­rato dal riposo del corpo. Per questa ragione, nel porto della castità c’è la contemplazione dello Spirito che risana l’Intelletto, ma è l’amore spirituale che ne è la causa. E poiché non si dà una realtà seconda senza la causa che la precede, né una terza virtù senza quelle che vengono prima di essa, tu troverai che è nel grembo della castità che spuntano le ali dell’Intelletto, per mezzo delle quali esso si leva verso l’amore divino; quell’amore nel quale si osa scrutare l’oscurità. Fratello mio, lava le bellezze della tua castità con le lacrime e il digiuno, e abitando da solo con te stesso.

11. La cella e la solitudine Dimora nella tua cella, e la cella ti insegnerà ogni cosa. La cella del monaco, secondo la parola dei padri, è la cavità della roccia dove Dio parlò con Mosè. Molte volte accade durante le ore del giorno che se anche a un fratello fosse dato il regno della terra, non si persuaderebbe in quell’ora a uscire dalla sua cel­la, neppure se qualcuno gli avesse bussato. E’ il tempo improvviso del commercio. Quante volte queste cose vanno e vengono nei giorni che sembrano di rilassamento: improvvisamente la grazia visita quel fratello, per mezzo di lacrime senza misura, o per mezzo della forza di una passione che grida nel cuore, o per mezzo di una gioia senza ragione, o per mezzo della dolcezza che la prostrazione procura. Conosco un fratello che aveva già messo la chiave nella porta della sua cella per chiudere e così uscire a pascere il vento, secondo la parola della Scrittura, quando lo ha visitato la grazia e subito è tornato indietro. La solitudine ci rende partecipi della mente divina e, in poco tempo e senza ostacoli, ci avvicina alla limpidità del pensiero. Dovunque tu sia, sii solitario nella tua intelligenza, e solo e straniero nel cuore, e non immischiato. In qualsiasi luogo tu entri, per tutti i tuoi giorni, considerati uno straniero, per poter sfuggire ai grandi mali che nascono dalla familiarità.

12. La quiete La quiete, come ha detto il beato Basilio – quella lampada che splende su tutta la terra -, è il principio della purificazione dell’anima. Quando, infatti, le membra esteriori si acquietano dal rumore esteriore, allora la mente ritorna dal suo vagare, nel suo luogo interiore, e il cuore si desta per ricercare i moti interio­ri dell’anima. Quando i sensi sono circondati da una quiete che non ha confini, e i ricordi grazie al suo aiuto invecchia­no, allora percepisci la natura dei pensieri dell’anima, di cosa sono fatti e di cos’è fatta la natura dell’anima, e percepisci quali tesori sono nascosti in essa. L’anima del solitario è simile a una fonte d’acqua, secondo la similitudine impiegata anche dagli antichi padri. Infatti, ogni volta che si acquieta da tutti i moti dell’udito e della vista, il solitario vede, in modo lumi­noso, Dio e se stesso, e attinge dall’anima acque lim­pide e dolci, che sono i soavi pensieri della saldezza. Quando invece si accosta a quei moti, a causa dell’intorbidamento che ne riceve, l’anima è resa simile a uno che cammina di notte, mentre l’aria è coperta dal­le nubi e davanti a lui non è visibile né la strada né il sentiero, ed egli erra facilmente per luoghi deserti e pericolosi. Quando però si acquieta insieme alla sua anima, come uno su cui soffi un limpido vento e sulla cui testa l’aria sia chiara, comincia di nuovo a risplen­dere davanti a se stesso, vede ciò che lui è, discerne dove si trova e dove gli si chiede di andare, e vede di lontano la stanza della vita.

 Isacco di Ninive, La lotta spirituale

Publié dans:Lettera agli Efesini, MEDITAZIONI, SANTI |on 23 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

MITEZZA. LA VIRTÙ DIMENTICATA – DI GIANFRANCO RAVASI

http://paroledivita.myblog.it/2011/03/08/mitezza-la-virtu-dimenticata/

MITEZZA. LA VIRTÙ DIMENTICATA

DI GIANFRANCO RAVASI,

AVVENIRE di domenica 6 marzo 2011

«Imparate da me che sono mite e umile di cuore». Questa autodefinizione di Gesù nel Vangelo di Matteo (11,29) ci permette di ricollegare il tema del ‘cuore’ di Cristo a quello della mitezza, che è al centro di una delle beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Una beatitudine che ha una sua radice anticotestamentaria nel Sal 37,11: «I miti [in ebraico, però, si ha anawìm che indica anzitutto i 'poveri'] erediteranno la terra e potranno godere della pace in abbondanza». Una beatitudine che sarà raccolta anche dal Corano, che fa esplicito riferimento al passo salmico: «Noi abbiamo scritto nei salmi […] che la terra l’avrebbero ereditata i miei servi buoni» (21,105). Sulla definizione esatta di questi ‘miti’, che le tre religioni monoteistiche esaltano come i destinatari della terra promessa, ossia del regno di Dio nella sua pienezza, si hanno differenziazioni tra gli studiosi. C’è chi vi vede i non violenti, gli oppressi che non ricorrono alla forza, coloro che non scelgono il possesso e l’autoaffermazione così da non prevaricare sugli altri e c’è chi intuisce il profilo dei mansueti, dei diseredati e degli espropriati; c’è chi pensa agli umili e agli inoffensivi, fiduciosi nella volontà di Dio e chi li considera interiormente forti e, per questo, pazienti, dolci, generosi e così via. Certo è che due sono le beatitudini parallele, anche a causa dell’unico vocabolo ebraico soggiacente alla differente terminologia greca usata dai Vangeli: «Beati i poveri in spirito» e «Beati gli umili». Sono due atteggiamenti che hanno una radice comune e che si espandono verso Dio (beatitudine dei poveri) e verso il prossimo (beatitudine dei miti). Il filosofo Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza (1993) aveva celebrato questa virtù come la più «impolitica» per eccellenza e si può comprendere questa sua posizione nel contesto della gestione della politica che ignora ogni compassione e si fonda sul potere e spesso sull’arroganza. In una visione più alta della politica, la mitezza avrebbe invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma vuole raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza. Noi, però, vorremmo ora in modo più ampio e libero delineare il volto della mitezza nella sua accezione più comune, quella della nonviolenza; lo faremo ricorrendo a una sorta di polittico numerico, espressione sia dell’antitesi alla mitezza sia della sua pienezza. Inizieremo con l’equazione 7 a 77. È questo l’atteggiamento incarnato da uno dei discendenti di Caino, Lamech, il quale codifica la reazione tipica dell’anti-mite, colui che opta per la spirale della violenza. Celebre è quel suo terribile canto della spada sempre insanguinata: «Ho ucciso un uomo per una mia ferita e un giovane per una mia ammaccatura. Caino sarà vendicato sette volte, ma Lamech settantasette». È quell’immensa scia di sangue che pervade la terra e la storia e che non si decide mai di arrestarsi. Lo scrittore francese Charles Péguy (1873-1914) metteva in bocca a Dio queste parole: «Gli uomini preparavano tali orrori e mostruosità che io stesso, Dio, ne fui spaventato. Non ne potevo sopportare l’idea. Ho dovuto perdere la pazienza; eppure io sono paziente perché eterno. Ma non ho potuto trattenermi. Era più forte di me. Io ho anche un volto di sdegno». Il giudizio divino è, alla fine, la protezione dei miti. Passiamo a un’altra equazione numerico-simbolica: 1 a 1, quella sottesa alla cosiddetta legge del taglione. Si legge, infatti, nel libro dell’Esodo: «Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, piaga per piaga» (21,23). La brutalità della formulazione, di taglio semitico, ci impedisce di vedere il progresso reale che qui si ha rispetto alla legge di Lamech: si ha, infatti, la codificazione della giustizia distributiva che sarebbe già un bel passo di civiltà. Non è forse vero che ebrei e cristiani e arabi ancora oggi nelle loro guerre adottano la norma della rappresaglia più feroce e non certo l’equilibrio della risposta giusta? Tuttavia è indiscutibile che anche in questa regola sangue chiama sangue ed è per questo che Cristo, pur attento alla giustizia, non esiterà a spezzare la catena del «taglione» (vocabolo derivante dal latino talis: tale la colpa, tale la pena), introducendo proprio lo stile della mitezza. Egli lo fa nella quinta delle sei antitesi del Discorso della Montagna, ricorrendo a una trilogia esemplificativa: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra. A uno che vuol trascinarti in giudizio per prendersi la tunica, dagli anche il mantello; se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Mt 5,38-41). Ci stiamo, quindi, spostando nella regione luminosa della mitezza, ove al radicalismo sanguinario di Lamech e al realismo duro del taglione si fa subentrare l’utopia dell’amore, un progetto che dev’essere incarnato con pazienza nella storia. Possiamo così passare a un’altra equazione: 7 a 1000. Essa, da un lato, calibra la giustizia nella sua pienezza (il 7), ma esalta il perdono e la misericordia fino all’infinito, raffigurato nel numero 1000. È ciò che viene espresso secondo il linguaggio semitico generazionale (per indicare che il peccato non è mai solo una questione esclusivamente individuale, ma sociale) in una specie di autoritratto divino, in quella che un esegeta, Albert Gelin, ha definito «la carta d’identità biblica di Dio»: «Il Signore, il Signore, Dio di pietà e misericordia, lento all’ira e ricco di grazia e verità, che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato, ma senza ritenerli innocenti, che visita la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli fino alla terza e fino alla quarta generazione» (Es 34,6-7). Da accostare a questa dichiarazione ce n’è un’altra, sempre messa in bocca a Dio, che ribadisce la scelta fondamentale del Signore: «Forse mi compiaccio della morte dell’empio? Oracolo di Dio, mio Signore. Convertendosi dalla sua condotta, forse non vivrà? […] Oh, non mi compiaccio certo della morte di alcuno, oracolo del Signore Dio. Convertitevi e vivrete» (Ez 18,23.32). La nostra sequenza numerica può, così, approdare a un’altra equazione: 7 a 70 x 7. È questa la formula del perdono e dell’amore cristiano che Gesù delinea in una risposta a un modello numerico suggerito dall’apostolo Pietro: «Signore, quante volte, se il mio fratello peccherà contro di me, dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». Gesù gli risponde: «Non ti dico fino a 7 volte, ma fino a 70 volte 7» (Mt 18,21-22). Come si vede, c’è un’allusione per contrasto alla legge della vendetta da cui siamo partiti, ovvero all’equazione 7 a 77. Qui essa è radicalizzata e condotta, attraverso il ricorso al simbolismo settenario, a una pienezza assoluta positiva. La meta da raggiungere è quella di un Dio che fa piovere su giusti e ingiusti e fa risplendere su tutti il suo sole (cfr. Mt 5,45-46). Ormai l’appello supera le frontiere dell’amico­nemico e giunge sull’invito che è lanciato sempre nel Discorso della Montagna: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (5,44). L’appello di Gesù andrà anche oltre lo stesso confine dell’io. Infatti, pur riconoscendo la validità dell’imperativo della legge «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18), egli accentuerà e travalicherà quella comparazione: «Amatevi gli uni agli altri, come io ho amato voi» (cfr. Gv 13,34). Ossia con un amore infinito com’è quello divino e un amore che giunge sino a rinunciare a se stessi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici» (15,13). Vorremmo a questo punto concludere con un apologo dello scrittore argentino Jorge L. Borges (1899-1986), che prende spunto dal celebre racconto di Abele e Caino, trasformandolo in un apologo sulla colpa, il rimorso e il perdono. Abele e Caino s’incontrano dopo la morte di Abele nel tempo eterno di Dio. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele, però, disse: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima». Allora Caino replicò: «Ora so che mi hai perdonato davvero, perché dimenticare è perdonare». Solo con il perdono tutto ricomincia da capo ed è nuovo.

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