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29 NOVEMBRE 2015 | 1A DOMENICA DI AVVENTO ANNO C | OMELIA

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29 NOVEMBRE 2015 | 1A DOMENICA DI AVVENTO ANNO C | OMELIA

« In quei giorni farò germogliare un germoglio di giustizia »

Oggi ha inizio il periodo liturgico di Avvento, « che significa aspettativa, preparazione, desiderio, speranza dell’arrivo nel mondo, nel tessuto storico del popolo eletto e nel disegno universale dell’umanità, di Colui verso il quale, per secoli e in mezzo alle più tormentate esperienze, si è tesa l’ansia della salvezza, la visione del Re vincitore, dell’instauratore della giustizia e della pace… Questa spiritualità, rivolta verso un avvenire nuovo, felice, indescrivibile, e verso un Personaggio straordinario, che riassume in sé la figura di Davide, il re ideale, e la trasfigura in una personalità trascendente, liberatrice, salvatrice, e misteriosa, percorre l’Antico Testamento, facendosi sempre più chiara e sempre più librata sulla infelice e deludente realtà storica della Nazione da cui era coltivata, e la sorregge, questa Nazione, in una fiducia che sembra sfidare gli avvenimenti più avversi ». L’Avvento, come spirito di attesa e tensione verso il futuro, attraversa perciò tutto l’Antico Testamento: ma direi che non si esaurisce neppure con la venuta di Cristo, il Personaggio misterioso che non solo Israele ma l’universo intero ha atteso per millenni. La storia di Cristo non si circoscrive nello spazio di tempo in cui egli « ha posto la sua tenda fra noi » (cf Gv 1,14), ma continua nell’esperienza sempre nuova che gli uomini di tutti i tempi faranno di lui, fino al suo ritorno nella gloria. L’attesa perciò non è esaurita neppure per noi, ma si spinge sempre più lontano, verso ciò che deve ancora maturare in noi, nella storia, nel mondo, nella Chiesa. Il cristiano vive il suo « avvento », sempre, perché Cristo « viene » a ogni momento, e bisogna essere ben preparati ad accoglierlo. È su questa linea di riflessione che si muovono le letture bibliche, che adesso vogliamo rapidamente esaminare.

« Egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra » La prima ci riporta un testo di Geremia, criticamente un po’ incerto: infatti esso manca nella versione greca, così detta dei Settanta. Sostanzialmente, però, è identico a un altro passo riferitoci al cap. 23,5-6: per cui non ci può essere dubbio sulla sua provenienza geremiana. Nella collocazione attuale esso è inserito in una prospettiva di rinnovamento materiale e spirituale della nazione giudaica, ormai devastata dal lungo assedio dell’esercito babilonese (Ger 33,1-13). Dio, che è fedele alle sue promesse, non potrà venir meno all’impegno preso con Davide, per bocca del profeta Natan, di dargli un discendente che sieda « per sempre » sul suo trono. « Ecco, verranno giorni, oracolo del Signore, nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla. Così sarà chiamata: « Signore-nostra-giustizia »" (Ger 33,14-16). In Ger 23,6, l’appellativo « Signore-nostra-giustizia » non viene attribuito a Gerusalemme, ma al Messia direttamente. E questo in antitesi ironica col nome di Sedecia, l’imbelle re del tempo (597-586), che in ebraico vuol dire appunto « Signore-mia-giustizia »: la « giustizia » che Sedecia non è riuscito a realizzare, la realizzerà il Messia! Pur essendo l’attenzione dell’oracolo concentrata sul futuro discendente di Davide, sta di fatto che esso viene annunciato in quanto intimamente collegato con le sorti del « suo » popolo. Se in quei « giorni » lontani Giuda « sarà salvato » e Gerusalemme, la capitale del regno, « vivrà tranquilla » nella giustizia (v. 16), tutto sarà merito del Messia. Addirittura sembra che si preannunzi la ricostituzione unitaria del regno, ormai da tanto tempo diviso: la « casa d’Israele » e la « casa di Giuda » vedranno la realizzazione delle « promesse di bene » a loro fatte dal Signore (v. 14). Il Messia, perciò, promuoverà il bene spirituale e materiale del suo popolo: l’ »unità » degli spiriti, che aggrega tra di loro uomini e nazioni, è un fatto morale, ma anche « politico »! Tutto questo, del resto, è detto esplicitamente quando si afferma che « egli eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra » (v. 15). Era quanto preannunciava, in termini altamente poetici, anche il profeta Isaia: « Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada verso un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra » (Is 2,4). Come si vede, proprio per questa ampiezza di prospettive il Messia è colui che « ancora » tutta l’umanità aspetta. Il Cristo è venuto storicamente già da duemila anni, ma la sua missione di « giustizia » e di « pace », di « unificazione » degli uomini e delle nazioni fra di loro, di guarigione dei mali dello spirito e di quelli del corpo, è quasi tutta da compiere, come si può constatare guardandoci attorno. Si capisce allora come l’attesa messianica, « l’avvento » appunto, sia una dimensione essenziale del nostro essere cristiani, e anche semplicemente uomini. Ma non un’attesa messianica vaga, o che si limiti agli orizzonti terreni, sul tipo di certe ideologie oggi piuttosto di moda, che di fatto, però, uccidono la speranza! Un’attesa, invece, quella dei cristiani, ben precisa, che si identifica in Gesù dì Nazaret, che ha promesso agli uomini la « liberazione » totale, perfino quella dalla morte che travolge il nostro corpo. Oggi gli uomini si rendono sempre più conto che l’unico Messia che può aiutarli a risolvere tutti i loro problemi, a incominciare da quelli materiali, è Cristo in quanto espressione massima dell’amore, della donazione al servizio di tutti. È anche piena di poesia l’immagine con cui il Messia viene qui presentato: « In quei giorni farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia » (v. 15). È un termine, quello di « germoglio » (in ebraico sémah), che ha fatto fortuna e viene adoperato comunemente per esprimere il Messia. L’immagine richiama un terreno arido e disseccato da cui Dio, per un prodigio della sua onnipotenza, fa fiorire un nuovo « virgulto » di vita, una speranza di sopravvivenza. Dio soltanto suscita il Messia e lo fa apparire proprio quando la terra sembra ormai impotente a produrre anche un solo filo d’erba, quale segno di nuova vitalità e di speranza. I « messianismi », che gli uomini si inventano volta per volta, durano lo spazio di un giorno, perché la nostra « terra » da sola, purtroppo, non può produrre speranza!

« Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina » Anche il brano di Vangelo è tutto orientato ad alimentare l’attesa nel cuore dei cristiani: quell’attesa che ormai va oltre il Natale e punta sul ritorno finale di Cristo, il quale verrà a premiare la fedeltà dei suoi servi e a celebrare la sua vittoria su tutte le forze del male, siano esse interne o esterne all’uomo. Il brano è ripreso dal così detto discorso « escatologico », comune ai tre Sinottici (Mt 24,1-44; Mc 13,1-37). Pur concentrando la sua attenzione sulla fine di Gerusalemme (21,3-24), Luca l’assume come simbolo della fine di tutte le cose, a cui i cristiani devono prepararsi giorno per giorno, cercando di decifrarne i « segni »: « Vi saranno segni nel sole, nella luna, e nelle stelle, e sulla terra angoscia dei popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande. Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina » (21,25-28). Con il linguaggio « apocalittico » del tempo l’Evangelista preannuncia il rinnovamento della creazione e di tutte le cose, quando « il Figlio dell’uomo verrà sulle nubi con potenza e gloria grande » (v. 27): al vecchio mondo che crolla ne succederà un altro, in cui la « gloria » di Dio e di Cristo sarà assoluta, non insidiata dalle potenze torbide del male. È verso questo mondo nuovo, « liberato » dalla schiavitù del peccato, che i discepoli di Cristo spingono la loro attesa e il loro desiderio: « Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina » (v. 28). Ma questo mondo nuovo, se per un verso è creazione e dono di Dio, per un altro verso è anche frutto della cooperazione dell’uomo, nel senso che egli lo prepara e lo anticipa nella santità della vita e nello spirito di attesa e di vigilanza. È quanto Gesù ci ricorda al termine del suo discorso: « State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo » (vv. 34-36). Se ci lasciamo ingrovigliare e appesantire dagli « affanni della vita », non è verso il futuro che marciamo, ma rimaniamo inchiodati al presente e alla terrestrità: il regno di Dio sta oltre! Dobbiamo muoverci verso di esso con il cuore e la mente pieni di amore e di desiderio. È bensì vero che « quel giorno » si abbatterà « improvviso » su tutti gli uomini, « come un laccio »; ma il rischio è solo per coloro che non sono pronti a « comparire davanti al Figlio dell’uomo » (v. 36). Per chi, invece, l’avrà amato, servito, atteso, desiderato, quello sarà l’incontro più bello: l’avvento definitivo che premierà e coronerà tutte le altre innumerevoli « venute » di Cristo nella nostra vita. Di qui l’enorme importanza che Luca attribuisce alla « vigilanza » e alla « preghiera », che però sono opera « di ogni momento »: « Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere » (v. 36). Credo che l’accento in questa frase vada posto proprio sulla « continuità » sia della vigilanza che della preghiera. La « vigilanza » richiama l’atteggiamento della sentinella che, soprattutto durante la notte, scruta ogni segno di insidia o di assalto improvviso; la « preghiera » esprime il sentimento di bisogno e di fiducia di chi si trova in situazione di difficoltà. Vigilando e pregando « in ogni momento », il cristiano fa diventare tutta la sua vita un « continuo » avvento.

Vivere « in attesa » del Signore Tutto questo ovviamente afferra e trasfigura anche la nostra condotta morale, che non può non riflettere l’esigenza del continuo « irrompere » di Cristo nella nostra vita. È quanto Paolo raccomandava ai cristiani di Tessalonica, congiungendo in mirabile armonia le diverse venute di Cristo: quella che ormai ci sta alle spalle, ma che deve caricare di significato e di fedeltà il presente; quella che deve ancora venire, e che noi dobbiamo contribuire a preparare nella « irreprensibilità » della vita di ogni giorno, in cui Cristo fa già presenti i segni del suo continuo venire soprattutto nei gesti dell’amore. « Il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così, per distinguervi ancora di più… » (1 Ts 3,12-4,1). In attesa della « venuta del Signore con tutti i suoi santi » (3,13), si dà senso al presente, recuperando la pienezza salvifica del passato. Davvero il cristiano è un essere che vive nel tempo ma anche lo supera, perché non vuole e non può perdere nulla delle infinite « visite » del suo Signore: quelle di ieri, quelle di oggi, quelle ancora più belle di domani.

Settimio CIPRIANI (+)

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 27 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

Annunciation of the Blessed Virgin Mary

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Publié dans:immagini sacre |on 26 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

L’INCONTRO CON L’APOSTOLO PAOLO

http://www.opera-fso.org/italiano/?cat=6

L’INCONTRO CON L’APOSTOLO PAOLO

Tema: Meditazioni

(parla di Madre Giiulia, non la conosco, dovrebbe essere la fondatrice della famiglia spirituale « L’Opera »)

 All’inizio del XX secolo si diffuse in molti paesi il movimento liturgico. Il Congresso delle associazioni cattoliche a Mechelen nel 1909 divenne punto di partenza in Belgio di questo movimento, che ebbe l’obiettivo principale di porre nuovamente la santa Messa al centro della vita cristiana. In effetti, da diversi secoli la liturgia era divenuta una realtà riservata in gran parte ai chierici. Sebbene i laici fossero uniti, nella fede, al sacrificio della Messa, avessero un forte rispetto per la presenza eucaristica del Signore e confidassero nella sua grazia, potevano partecipare alla celebrazione della Messa solo in modo limitato. Durante la santa Messa i laici recitavano spesso preghiere personali che non erano sempre in stretta relazione con la celebrazione liturgica. Il movimento liturgico voleva contribuire a riscoprire la grande ricchezza della liturgia e ad arricchire la vita spirituale di molte persone. Durante il suddetto Congresso a Mechelen, il Padre Lambert Beauduin, benedettino, propose di diffondere il Messale come un libro di preghiera e di renderlo accessibile a tutti grazie ad una traduzione nella lingua madre dei testi latini della liturgia domenicale e dei vespri. Egli disse: “La liturgia è la vera preghiera dei fedeli; è una spinta potente verso l’unione ed un insegnamento religioso completo.”[1]  Padre Hillewaere promosse il movimento liturgico. Da fedele sacerdote volle venir incontro alla sete spirituale della giovane Giulia, infondendole un sano orientamento e il nutrimento spirituale necessario. Egli comprese che Giulia aveva molti doni particolari. Per questo motivo, le regalò – allora poteva avere 15 o 16 anni – un Messale in latino e olandese. In questa maniera ella poteva comprendere meglio le letture e le preghiere della santa Messa ed attingere in modo più fecondo dalla ricchezza delle Sacre Scritture e della liturgia. Questo Messale ebbe grande influenza sul suo sviluppo religioso. Circa settant’anni dopo, Giulia raccontò l’esperienza fatta con questo Messale, come se tutto fosse accaduto il giorno prima: “A quell’epoca le Sacre Scritture non erano ancore accessibili in lingua volgare. Per la prima volta ricevetti in mano un Messale in cui le letture e il vangelo non erano scritte solo in latino, ma anche in olandese. Ho aperto questo tesoro con molta gioia ed amore. Mi sentivo pervadere come da un grande fuoco. Non me lo potevo spiegare. Già dalla prima sera provai a meditare tutte le preghiere e tutti i testi: la lettura, il vangelo e tutto quanto si sarebbe letto o cantato durante la santa Messa del giorno seguente. Le parole della Sacra Scrittura mi affascinavano. Per noi bambini e giovani era del tutto ovvio andare quotidianamente a Messa.”[2]  Giulia, a quell’epoca, si trovava in una situazione difficile. Tempo addietro, prima che Padre Hillewaere le avesse regalato il Messale, le venne chiesto di servire ad un banchetto di alcuni personaggi famosi. In quest’occasione sentì parlare un sacerdote in termini poco rispettosi circa alcune questioni di fede, portando al riso gli altri commensali. Fu per lei un vero scandalo che un sacerdote avesse ridicolizzato le cose sacre. Provò sofferenza ed ansia fin nell’intimo della sua anima. Mai prima era stata così profondamente colpita dalle debolezze umane dei rappresentanti della Chiesa.  Lo scontro con la superbia e la falsità di alcune persone quasi sopraffecero Giulia con un senso di impotenza sempre maggiore: “Tutto questo mi portò lentamente ad una specie di crisi di fede. Ero molto infelice, sola, chiusa e quasi imprigionata in me stessa. Mi sforzavo di giungere ad un rapporto puro e autentico con Dio, attraverso sacrifici nascosti e l’impegno sincero nella virtù. Ma ciononostante mi allontanavo dalla pratica della fede. Cominciai ad essere assalita da una specie di superficialità e passività.”[3] Questa condizione di insicurezza nella sua anima perdurava. La sua confidenza nella Chiesa era compromessa. Per le tentazioni che l’assillavano non progrediva più ed era in cerca d’aiuto: “In questa situazione la giustizia misericordiosa del Signore mi venne incontro in maniera semplice, ma per me meravigliosa e assoluta.”[4]  Una sera – non molto tempo dopo aver ricevuto il Messale – Giulia si stava preparando ancora per la santa Messa, leggendo i testi liturgici del giorno seguente. Quella sera non si accorse di nulla in particolare, tuttavia il mattino seguente, durante la santa Messa, venne colpita così profondamente da una lettura di san Paolo da perdere, per un breve periodo, contatto con tutto il mondo circostante: “’Verrà un giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina’ (2 Tim 4,3). Venni così profondamente toccata da questo richiamo di san Paolo d’aver la sensazione di essere completamente inserita nel contenuto di tale testo. Mi pareva che Paolo volesse svelarmi il suo senso più profondo ed invitarmi ad orientare in questa direzione la mia vita.”[5]  Le parole che l’avevano folgorata provengono dalla seconda lettera a Timoteo e costituiscono una sorta di testamento del grande apostolo al suo figlio spirituale:  “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà un giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del vangelo, adempi il tuo ministero. Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.” (2 Tim 4,1-8)  Verso la fine della sua vita, Giulia ebbe a testimoniare: “Questo testo fu per me come un richiamo della provvidenza di Dio per tutta la mia vita sino ad oggi. Esso fu il primo seme per il Carisma de ‘L’Opera’”.[6]  In quel periodo Giulia prese coscienza della perenne attualità della parola di Dio. La Sacra Scrittura, in cui risplende la luce di Dio in tutta la sua chiarezza, divenne per Giulia una fonte di consolazione, di forza e di gioia. Più tardi scrisse che la parola del Signore “dà orientamento, con forza, a coloro che l’accettano nella fede, ascoltandola e accogliendola con cuore aperto e mettendola in pratica”.[7] Tuttavia venne colpita dalla parola di Dio non la sera prima quando leggeva personalmente il testo di san Paolo, bensì solo durante la celebrazione eucaristica. In questo modo la liturgia, che è il luogo proprio della parola di Dio, raggiunse nella vita di Giulia un’importanza fondamentale.  Da questo istante l’Apostolo Paolo divenne la sua guida personale, che la inserì sempre più nella ricchezza della fede ed nel mistero della Chiesa. Egli l’aiutava a ritrovare la serenità interiore e a crescere nell’amore verso la Chiesa: “Le sue lettere costituirono per me un preferito e fortificante nutrimento spirituale. Scoprii in esse, se posso esprimermi così, la santa Chiesa e concepii un grande amore per il Corpo mistico di Cristo. Questo mistero allo stesso tempo mi è stato ispirato e mi ha sempre accompagnata. Il santo Apostolo Paolo divenne per me uno strumento di Dio, una guida spirituale e un fratello diletto, di cui potevo sentire la vicinanza. In quel periodo mi pareva di vivere una seconda conversione verso il Cuore di Gesù e il suo Corpo, la Chiesa.”[8]  In modo del tutto inaspettato Paolo era entrato nella vita della giovane Giulia. Trovò in lui un amico che formava la sua coscienza. Passo dopo passo, si compì in lei una trasformazione di sentimenti che l’abituarono ad aprirsi ai doni della misericordia divina. Le persone che la incontravano potevano percepire che da lei emanava una particolare forza interiore. La sua preghiera divenne più contemplativa. Un fedele, che andava spesso a pregare nella chiesa parrocchiale di Geluwe, testimoniò: “Era mia abitudine andare ogni mattina in chiesa. La prima persona che vedevo era una donna giovane e graziosa, che abitualmente era inginocchiata vicino all’altare. Tutta la sua attitudine emanava interiorità. Era come rapita dalla preghiera.”[9]  Sempre più Paolo le aprì gli occhi anche riguardo alla perdita della fede, che si annunciava come una terribile tempesta. Lei percepì che l’Apostolo le voleva dare un orientamento ed un aiuto nelle difficoltà del tempo. La grande povertà spirituale, il crollo della morale, il crescente allontanamento dalla Chiesa, le debolezze all’interno del popolo di Dio e la progressiva secolarizzazione in tutte le realtà della vita minacciavano di portare ad un moderno paganesimo.[10] Paolo fece comprendere a Giulia che la conversione e la fede ci danno la forza per mantenerci fedeli anche in mezzo a nuove sfide: “Questo diletto fratello e padre mi ha accompagnato sul cammino di una profonda conversione e nello spirito del discernimento.”[11]  Giulia custodiva sempre nel proprio cuore, come un tesoro assai prezioso, la luce dell’Apostolo Paolo, anche in tempi di ricerca e di lotta interiore. Alla fine della sua vita scrisse: “Sono perfettamente consapevole che san Paolo, che mi ha insegnato le parole di Dio, è stato lo strumento di grazia per la mia vita. Egli mi ha aiutato ad aprire gli occhi della mia anima per la benevolente grazie dell’amore misericordioso del Signore, che è come un filo d’oro nell’intimo tessuto della mia vita. Mi ha regalato una chiave che poteva aprire il mio cuore ai comandamenti e alle leggi del Signore. Così potevo comprendere intimamente che le opere di Dio sottostanno a leggi soprannaturali e che spesso vanno in direzione opposta ai nostri calcoli puramente umani; che la parola di Dio, che viene percepita da cuori aperti, possiede in sé un’incredibile forza trasformatrice; che il merito della nostra vita e la sua forza d’irradiazione non dipende dalla misura delle nostre attività, bensì dall’amore che ci pervade e che è infuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo. Infatti, è proprio l’amore che ci rende possibile vedere Dio in tutto e in tutti.”[12]

estratto dal libro ” Ha amato la Chiesa. Madre Giulia Verhaeghe e gli inizi  della Famiglia spirituale “L’Opera”, Vita e Pensiero, Milano 2007, 53-57.

NOTE SUL SITO  

Publié dans:Paolo: studi |on 26 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

ANNO PAOLINO (GIUBILEO PAOLINO): IL SOGNO ECUMENICO DI PAPA BENEDETTO

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ANNO PAOLINO (GIUBILEO PAOLINO): IL SOGNO ECUMENICO DI PAPA BENEDETTO

Assieme al patriarca di Costantinopoli, il successore di Pietro ha indetto uno speciale anno giubilare dedicato all’altro grande apostolo, Paolo. Obiettivo dichiarato: « creare l’unità della ‘catholica’, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli »

di Sandro Magister

ROMA, 2 luglio 2008 – Nella foto, Benedetto XVI e Bartolomeo I, il patriarca di Costantinopoli, pregano davanti alla tomba dell’apostolo Paolo, sotto l’altare maggiore della basilica romana di San Paolo fuori le Mura. È la vigilia della solennità dei santi Pietro e Paolo. E assieme hanno inaugurato uno speciale anno giubilare dedicato all’apostolo Paolo. L’Anno Paolino, iniziato il 28 giugno, durerà fino al 29 giugno 2009. L’occasione è il bimillenario della nascita dell’apostolo, collocata dagli storici tra il 7 e il 10 dopo Cristo. Benedetto XVI ha annunciato per la prima volta questo speciale anno giubilare un anno fa, il 28 giugno 2007. E così ora ha spiegato l’evento ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, prima dell’Angelus della festa dei santi Pietro e Paolo di quest’anno: « Questo speciale giubileo avrà come baricentro Roma, in particolare la basilica di San Paolo fuori le Mura e il luogo del martirio, alle Tre Fontane. Ma esso coinvolgerà la Chiesa intera, a partire da Tarso, città natale di Paolo, e dagli altri luoghi paolini meta di pellegrinaggi nell’attuale Turchia, come pure in Terra Santa, e nell’Isola di Malta, dove l’Apostolo approdò dopo un naufragio e gettò il seme fecondo del Vangelo. « In realtà, l’orizzonte dell’Anno Paolino non può che essere universale, perché san Paolo è stato per eccellenza l’apostolo di quelli che rispetto agli ebrei erano ‘i lontani’ e che ‘grazie al sangue di Cristo’ sono diventati ‘i vicini’ (cfr Ef 2,13). Per questo anche oggi, in un mondo diventato più ‘piccolo’, ma dove moltissimi ancora non hanno incontrato il Signore Gesù, il giubileo di san Paolo invita tutti i cristiani ad essere missionari del Vangelo. « Questa dimensione missionaria ha bisogno di accompagnarsi sempre a quella dell’unità, rappresentata da san Pietro, la ‘roccia’ su cui Gesù Cristo ha edificato la sua Chiesa. Come sottolinea la liturgia, i carismi dei due grandi apostoli sono complementari per l’edificazione dell’unico Popolo di Dio ed i cristiani non possono dare valida testimonianza a Cristo se non sono uniti tra di loro ».

* * * Universale ed ecumenico. Per una Chiesa che è « catholica » e « una ». È questo il doppio orizzonte che il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli hanno voluto dare all’Anno Paolino, indetto unitamente dalle rispettive Chiese di Roma e d’Oriente. Nella messa celebrata nel giorno dei santi Pietro e Paolo, i due successori degli apostoli sono entrati assieme nella basilica di San Pietro; assieme sono saliti all’altare, preceduti da un diacono latino e da uno ortodosso recanti il libro dei Vangeli; assieme hanno ascoltato il canto del Vangelo in latino ed in greco; assieme hanno tenuto l’omelia, prima il patriarca e poi il papa, dopo una breve introduzione di quest’ultimo; assieme hanno recitato il Credo, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca secondo l’uso liturgico delle Chiese bizantine; si sono scambiati il bacio della pace e al termine hanno assieme benedetto i fedeli. Dopo quasi mille anni di scisma tra Oriente e Occidente, è stata celebrata dal vescovo di Roma e dal patriarca di Costantinopoli una liturgia visibilmente protesa all’unità. Più in ombra resta per ora il rapporto con le comunità protestanti. Ma anche nel dialogo con queste l’Anno Paolino può essere ricco di significati. I maggiori pensatori della Riforma – da Lutero e Calvino fino a Karl Barth, a Rudolph Bultmann e Paul Tillich – hanno elaborato il loro pensiero a partire soprattutto dalla Lettera di Paolo ai Romani. E non meno rilevante è l’apporto che l’Anno Paolino potrà dare al dialogo con gli ebrei. Paolo era giudeo e rabbino osservante, prima di cadere abbagliato da Cristo sulla via di Damasco. E la sua conversione al Risorto non comportò mai per lui una rottura con la fede originaria. La promessa di Dio ad Abramo e l’alleanza del Sinai per Paolo fecero sempre tutt’uno con la « nuova ed eterna » alleanza sigillata dal sangue di Gesù. Su questa unità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, Joseph Ratzinger ha scritto pagine memorabili, nel suo libro « Gesù di Nazareth ». Qui di seguito è riprodotta l’omelia pronunciata da Benedetto XVI il 28 giugno 2008, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, nei vespri della vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo. In essa il papa risponde alle domande: chi era Paolo? e che cosa dice a me oggi? Più sotto trovi i link alla doppia omelia – del papa e del patriarca di Costantinopoli – nella messa del giorno successivo, e ad altri testi di Benedetto XVI sull’apostolo Paolo. Più vari rimandi a tutto ciò che riguarda l’Anno Paolino.

« Chi era Paolo? E che cosa dice a me oggi? » di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque duemila anni fa a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: « Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [di Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio… » (At 22,3). Alla fine del suo cammino dirà di sé: « Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità » (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. Maestro delle genti: questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi. Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi , oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale Anno Paolino: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, « la fede e la verità », in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo. In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’apostolo, una speciale Fiamma Paolina, che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della basilica [di San Paolo fuori le Mura]. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta Porta Paolina, attraverso la quale sono entrato nella basilica accompagnato dal patriarca di Costantinopoli [...] e da altre autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’Anno Paolino assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. [...].

* * * Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: chi è Paolo? che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’Anno Paolino che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo. Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: « Abbiamo avuto il coraggio… di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte… Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete » (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana; quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la « legge » della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: « Dilige et quod vis fac » (Tract. in 1Jo 7 ,7-8), ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.

* * * Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » Alla domanda: « Chi sei, o Signore? » vien data la risposta: « Io sono Gesù che tu perseguiti » (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. « Tu perseguiti me ». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti « la sua causa ». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto « carne ». Egli ha « carne e ossa » (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, « Capo e Corpo » formano un unico soggetto, dirà Agostino. « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? », scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: « Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà. C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. « Perché mi perseguiti? » Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.

* * * Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. « Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo », dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re; « io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome » (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: « Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome ». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi. In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.

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Publié dans:immagini sacre |on 25 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

«NON LASCIARTI VINCERE DAL MALE, MA VINCI CON IL BENE IL MALE» GIOVANNI PAOLO II GIORNATA PER LA PACE 2005

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/messages/peace/documents/hf_jp-ii_mes_20041216_xxxviii-world-day-for-peace.html

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II PER LA CELEBRAZIONE DELLA XXXVIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2005

«NON LASCIARTI VINCERE DAL MALE, MA VINCI CON IL BENE IL MALE»

1. All’inizio del nuovo anno, torno a rivolgere la mia parola ai responsabili delle Nazioni ed a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, che avvertono quanto necessario sia costruire la pace nel mondo. Ho scelto come tema per la Giornata Mondiale della Pace 2005 l’esortazione di san Paolo nella Lettera ai Romani: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (12, 21). Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male. La prospettiva delineata dal grande Apostolo pone in evidenza una verità di fondo: la pace è il risultato di una lunga ed impegnativa battaglia, vinta quando il male è sconfitto con il bene. Di fronte ai drammatici scenari di violenti scontri fratricidi, in atto in varie parti del mondo, dinanzi alle inenarrabili sofferenze ed ingiustizie che ne scaturiscono, l’unica scelta veramente costruttiva è di fuggire il male con orrore e di attaccarsi al bene (cfr Rm 12, 9), come suggerisce ancora san Paolo. La pace è un bene da promuovere con il bene: essa è un bene per le persone, per le famiglie, per le Nazioni della terra e per l’intera umanità; è però un bene da custodire e coltivare mediante scelte e opere di bene. Si comprende allora la profonda verità di un’altra massima di Paolo: « Non rendete a nessuno male per male » (Rm 12, 17). L’unico modo per uscire dal circolo vizioso del male per il male è quello di accogliere la parola dell’Apostolo: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (Rm 12, 21).

Il male, il bene e l’amore 2. Fin dalle origini, l’umanità ha conosciuto la tragica esperienza del male e ha cercato di coglierne le radici e spiegarne le cause. Il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali. Il male passa attraverso la libertà umana. Proprio questa facoltà, che distingue l’uomo dagli altri viventi sulla terra, sta al centro del dramma del male e ad esso costantemente si accompagna. Il male ha sempre un volto e un nome: il volto e il nome di uomini e di donne che liberamente lo scelgono. La Sacra Scrittura insegna che, agli inizi della storia, Adamo ed Eva si ribellarono a Dio e Abele fu ucciso dal fratello Caino (cfr Gn 3-4). Furono le prime scelte sbagliate, a cui ne seguirono innumerevoli altre nel corso dei secoli. Ciascuna di esse porta in sé un’essenziale connotazione morale, che implica precise responsabilità da parte del soggetto e chiama in causa le relazioni fondamentali della persona con Dio, con le altre persone e con il creato. A cercarne le componenti profonde, il male è, in definitiva, un tragico sottrarsi alle esigenze dell’amore (1). Il bene morale, invece, nasce dall’amore, si manifesta come amore ed è orientato all’amore. Questo discorso è particolarmente chiaro per il cristiano, il quale sa che la partecipazione all’unico Corpo mistico di Cristo lo pone in una relazione particolare non solo con il Signore, ma anche con i fratelli. La logica dell’amore cristiano, che nel Vangelo costituisce il cuore pulsante del bene morale, spinge, se portata alle conseguenze, fino all’amore per i nemici: « Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere » (Rm 12, 20).

La « grammatica » della legge morale universale 3. Volgendo lo sguardo all’attuale situazione del mondo, non si può non constatare un impressionante dilagare di molteplici manifestazioni sociali e politiche del male: dal disordine sociale all’anarchia e alla guerra, dall’ingiustizia alla violenza contro l’altro e alla sua soppressione. Per orientare il proprio cammino tra gli opposti richiami del bene e del male, la famiglia umana ha urgente necessità di far tesoro del comune patrimonio di valori morali ricevuto in dono da Dio stesso. Per questo, a quanti sono determinati a vincere il male con il bene san Paolo rivolge l’invito a coltivare nobili e disinteressati atteggiamenti di generosità e di pace (cfr Rm 12, 17-21). Parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dieci anni or sono, della comune impresa al servizio della pace, ebbi a far riferimento alla « grammatica » della legge morale universale (2), richiamata dalla Chiesa nei suoi molteplici pronunciamenti in questa materia. Ispirando valori e principi comuni, tale legge unisce gli uomini tra loro, pur nella diversità delle rispettive culture, ed è immutabile: « rimane sotto l’evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso… Anche se si arriva a negare i suoi principi, non la si può però distruggere, né strappare dal cuore dell’uomo. Sempre risorge nella vita degli individui e delle società » (3). 4. Questa comune grammatica della legge morale impone di impegnarsi sempre e con responsabilità per far sì che la vita delle persone e dei popoli venga rispettata e promossa. Alla sua luce non possono non essere stigmatizzati con vigore i mali di carattere sociale e politico che affliggono il mondo, soprattutto quelli provocati dalle esplosioni della violenza. In questo contesto, come non andare con il pensiero all’amato Continente africano, dove perdurano conflitti che hanno mietuto e continuano a mietere milioni di vittime? Come non evocare la pericolosa situazione della Palestina, la Terra di Gesù, dove non si riescono ad annodare, nella verità e nella giustizia, i fili della mutua comprensione, spezzati da un conflitto che ogni giorno attentati e vendette alimentano in modo preoccupante? E che dire del tragico fenomeno della violenza terroristica che sembra spingere il mondo intero verso un futuro di paura e di angoscia? Come, infine, non constatare con amarezza che il dramma iracheno si prolunga, purtroppo, in situazioni di incertezza e di insicurezza per tutti?

Per conseguire il bene della pace bisogna, con lucida consapevolezza, affermare che la violenza è un male inaccettabile e che mai risolve i problemi. « La violenza è una menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra fede, alla verità della nostra umanità. La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani » (4). È pertanto indispensabile promuovere una grande opera educativa delle coscienze, che formi tutti, soprattutto le nuove generazioni, al bene aprendo loro l’orizzonte dell’umanesimo integrale e solidale, che la Chiesa indica e auspica. Su queste basi è possibile dar vita ad un ordine sociale, economico e politico che tenga conto della dignità, della libertà e dei diritti fondamentali di ogni persona.

Il bene della pace e il bene comune 5. Per promuovere la pace, vincendo il male con il bene, occorre soffermarsi con particolare attenzione sul bene comune (5) e sulle sue declinazioni sociali e politiche. Quando, infatti, a tutti i livelli si coltiva il bene comune, si coltiva la pace. Può forse la persona realizzare pienamente se stessa prescindendo dalla sua natura sociale, cioè dal suo essere « con » e « per » gli altri? Il bene comune la riguarda da vicino. Riguarda da vicino tutte le forme espressive della socialità umana: la famiglia, i gruppi, le associazioni, le città, le regioni, gli Stati, le comunità dei popoli e delle Nazioni. Tutti, in qualche modo, sono coinvolti nell’impegno per il bene comune, nella ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio. Tale responsabilità compete, in particolare, all’autorità politica, ad ogni livello del suo esercizio, perché essa è chiamata a creare quell’insieme di condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona (6). Il bene comune, pertanto, esige il rispetto e la promozione della persona e dei suoi diritti fondamentali, come pure il rispetto e la promozione dei diritti delle Nazioni in prospettiva universale. Dice in proposito il Concilio Vaticano II: « Dall’interdipendenza ogni giorno più stretta e poco alla volta estesa al mondo intero deriva che il bene comune … diventa oggi sempre più universale ed implica diritti e doveri che interessano l’intero genere umano. Pertanto ogni comunità deve tener conto delle necessità e delle legittime aspirazioni delle altre comunità, anzi del bene comune di tutta la famiglia umana » (7). Il bene dell’intera umanità, anche per le generazioni future, richiede una vera cooperazione internazionale, a cui ogni Nazione deve offrire il suo apporto (8). Tuttavia, visioni decisamente riduttive della realtà umana trasformano il bene comune in semplice benessere socio-economico, privo di ogni finalizzazione trascendente, e lo svuotano della sua più profonda ragion d’essere. Il bene comune, invece, riveste anche una dimensione trascendente, perché è Dio il fine ultimo delle sue creature (9). I cristiani inoltre sanno che Gesù ha fatto piena luce sulla realizzazione del vero bene comune dell’umanità. Verso Cristo cammina e in Lui culmina la storia: grazie a Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui, ogni realtà umana può essere condotta al suo pieno compimento in Dio.

Il bene della pace e l’uso dei beni della terra 6. Poiché il bene della pace è strettamente collegato allo sviluppo di tutti i popoli, è indispensabile tener conto delle implicazioni etiche dell’uso dei beni della terra. Il Concilio Vaticano II ha opportunamente ricordato che « Dio ha destinato la terra con tutto quello che in essa è contenuto all’uso di tutti gli uomini e popoli, sicché i beni creati devono pervenire a tutti con equo criterio, avendo per guida la giustizia e per compagna la carità » (10). L’appartenenza alla famiglia umana conferisce ad ogni persona una specie di cittadinanza mondiale, rendendola titolare di diritti e di doveri, essendo gli uomini uniti da una comunanza di origine e di supremo destino. Basta che un bambino venga concepito perché sia titolare di diritti, meriti attenzioni e cure e qualcuno abbia il dovere di provvedervi. La condanna del razzismo, la tutela delle minoranze, l’assistenza ai profughi e ai rifugiati, la mobilitazione della solidarietà internazionale nei confronti di tutti i bisognosi non sono che coerenti applicazioni del principio della cittadinanza mondiale. 7. Il bene della pace va visto oggi in stretta relazione con i nuovi beni, che provengono dalla conoscenza scientifica e dal progresso tecnologico. Anche questi, in applicazione del principio della destinazione universale dei beni della terra, vanno posti a servizio dei bisogni primari dell’uomo. Opportune iniziative a livello internazionale possono dare piena attuazione al principio della destinazione universale dei beni, assicurando a tutti — individui e Nazioni — le condizioni di base per partecipare allo sviluppo. Ciò diventa possibile se si abbattono le barriere e i monopoli che lasciano ai margini tanti popoli (11). Il bene della pace sarà poi meglio garantito se la comunità internazionale si farà carico, con maggiore senso di responsabilità, di quelli che vengono comunemente identificati come beni pubblici. Sono quei beni dei quali tutti i cittadini godono automaticamente senza aver operato scelte precise in proposito. È quanto avviene, a livello nazionale, per beni quali, ad esempio, il sistema giudiziario, il sistema di difesa, la rete stradale o ferroviaria. Nel mondo, investito oggi in pieno dal fenomeno della globalizzazione, sono sempre più numerosi i beni pubblici che assumono carattere globale e conseguentemente aumentano pure di giorno in giorno gli interessi comuni. Basti pensare alla lotta alla povertà, alla ricerca della pace e della sicurezza, alla preoccupazione per i cambiamenti climatici, al controllo della diffusione delle malattie. A tali interessi, la Comunità internazionale deve rispondere con una rete sempre più ampia di accordi giuridici, atta a regolamentare il godimento dei beni pubblici, ispirandosi agli universali principi dell’equità e della solidarietà. 8. Il principio della destinazione universale dei beni consente, inoltre, di affrontare adeguatamente la sfida della povertà, soprattutto tenendo conto delle condizioni di miseria in cui vive ancora oltre un miliardo di esseri umani. La Comunità internazionale si è posta come obiettivo prioritario, all’inizio del nuovo millennio, il dimezzamento del numero di queste persone entro l’anno 2015. La Chiesa sostiene ed incoraggia tale impegno ed invita i credenti in Cristo a manifestare, in modo concreto e in ogni ambito, un amore preferenziale per i poveri (12). Il dramma della povertà appare ancora strettamente connesso con la questione del debito estero dei Paesi poveri. Malgrado i significativi progressi sinora compiuti, la questione non ha ancora trovato adeguata soluzione. Sono trascorsi quindici anni da quando ebbi a richiamare l’attenzione della pubblica opinione sul fatto che il debito estero dei Paesi poveri « è intimamente legato ad un insieme di altri problemi, quali l’investimento estero, il giusto funzionamento delle maggiori organizzazioni internazionali, il prezzo delle materie prime e così via » (13). I recenti meccanismi per la riduzione dei debiti, maggiormente centrati sulle esigenze dei poveri, hanno senz’altro migliorato la qualità della crescita economica. Quest’ultima, tuttavia, per una serie di fattori, risulta quantitativamente ancora insufficiente, specie in vista del raggiungimento degli obiettivi stabiliti all’inizio del millennio. I Paesi poveri restano prigionieri di un circolo vizioso: i bassi redditi e la crescita lenta limitano il risparmio e, a loro volta, gli investimenti deboli e l’uso inefficace del risparmio non favoriscono la crescita. 9. Come ha affermato il Papa Paolo VI e come io stesso ho ribadito, l’unico rimedio veramente efficace per consentire agli Stati di affrontare la drammatica questione della povertà è di fornire loro le risorse necessarie mediante finanziamenti esteri — pubblici e privati — concessi a condizioni accessibili, nel quadro di rapporti commerciali internazionali regolati secondo equità (14). Si rende doverosamente necessaria una mobilitazione morale ed economica, rispettosa da una parte degli accordi presi in favore dei Paesi poveri, ma disposta dall’altra a rivedere quegli accordi che l’esperienza avesse dimostrato essere troppo onerosi per determinati Paesi. In questa prospettiva, si rivela auspicabile e necessario imprimere un nuovo slancio all’aiuto pubblico allo sviluppo, ed esplorare, malgrado le difficoltà che può presentare questo percorso, le proposte di nuove forme di finanziamento allo sviluppo (15). Alcuni governi stanno già valutando attentamente meccanismi promettenti che vanno in questa direzione, iniziative significative da portare avanti in modo autenticamente condiviso e nel rispetto del principio di sussidiarietà. Occorre pure controllare che la gestione delle risorse economiche destinate allo sviluppo dei Paesi poveri segua scrupolosi criteri di buona amministrazione, sia da parte dei donatori che dei destinatari. La Chiesa incoraggia ed offre a questi sforzi il suo apporto. Basti citare, ad esempio, il prezioso contributo dato attraverso le numerose agenzie cattoliche di aiuto e di sviluppo. 10. Al termine del Grande Giubileo dell’Anno 2000, nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte ho fatto cenno all’urgenza di una nuova fantasia della carità (16) per diffondere nel mondo il Vangelo della speranza. Ciò si rende evidente particolarmente quando ci si avvicina ai tanti e delicati problemi che ostacolano lo sviluppo del Continente africano: si pensi ai numerosi conflitti armati, alle malattie pandemiche rese più pericolose dalle condizioni di miseria, all’instabilità politica cui si accompagna una diffusa insicurezza sociale. Sono realtà drammatiche che sollecitano un cammino radicalmente nuovo per l’Africa: è necessario dar vita a forme nuove di solidarietà, a livello bilaterale e multilaterale, con un più deciso impegno di tutti, nella piena consapevolezza che il bene dei popoli africani rappresenta una condizione indispensabile per il raggiungimento del bene comune universale. Possano i popoli africani prendere in mano da protagonisti il proprio destino e il proprio sviluppo culturale, civile, sociale ed economico! L’Africa cessi di essere solo oggetto di assistenza, per divenire responsabile soggetto di condivisioni convinte e produttive! Per raggiungere tali obiettivi si rende necessaria una nuova cultura politica, specialmente nell’ambito della cooperazione internazionale. Ancora una volta vorrei ribadire che il mancato adempimento delle reiterate promesse relative all’aiuto pubblico allo sviluppo, la questione tuttora aperta del pesante debito internazionale dei Paesi africani e l’assenza di una speciale considerazione per essi nei rapporti commerciali internazionali, costituiscono gravi ostacoli alla pace, e pertanto vanno affrontati e superati con urgenza. Mai come oggi risulta determinante e decisiva, per la realizzazione della pace nel mondo, la consapevolezza dell’interdipendenza tra Paesi ricchi e poveri, per cui « lo sviluppo o diventa comune a tutte le parti del mondo, o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante progresso » (17).

Universalità del male e speranza cristiana 11. Di fronte ai tanti drammi che affliggono il mondo, i cristiani confessano con umile fiducia che solo Dio rende possibile all’uomo ed ai popoli il superamento del male per raggiungere il bene. Con la sua morte e risurrezione Cristo ci ha redenti e riscattati « a caro prezzo » (1 Cor 6, 20; 7, 23), ottenendo la salvezza per tutti. Con il suo aiuto, pertanto, è possibile a tutti vincere il male con il bene. Fondandosi sulla certezza che il male non prevarrà, il cristiano coltiva un’indomita speranza che lo sostiene nel promuovere la giustizia e la pace. Nonostante i peccati personali e sociali che segnano l’agire umano, la speranza imprime slancio sempre rinnovato all’impegno per la giustizia e la pace, insieme ad una ferma fiducia nella possibilità di costruire un mondo migliore. Se nel mondo è presente ed agisce il « mistero dell’iniquità » (2 Ts 2, 7), non va dimenticato che l’uomo redento ha in sé sufficienti energie per contrastarlo. Creato ad immagine di Dio e redento da Cristo « che si è unito in certo modo ad ogni uomo » (18) questi può cooperare attivamente al trionfo del bene. L’azione dello « Spirito del Signore riempie l’universo » (Sap 1, 7). I cristiani, specialmente i fedeli laici, « non nascondano questa speranza nell’interiorità del loro animo, ma con la continua conversione e la lotta “contro i dominatori di questo mondo di tenebra e contro gli spiriti del male” (Ef 6, 12) la esprimano anche attraverso le strutture della vita secolare » (19). 12. Nessun uomo, nessuna donna di buona volontà può sottrarsi all’impegno di lottare per vincere con il bene il male. È una lotta che si combatte validamente soltanto con le armi dell’amore. Quando il bene vince il male, regna l’amore e dove regna l’amore regna la pace. È l’insegnamento del Vangelo, riproposto dal Concilio Vaticano II: « La legge fondamentale della perfezione umana, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità » (20). Ciò è vero anche in ambito sociale e politico. A questo proposito, il Papa LeoneXIII scriveva che quanti hanno il dovere di provvedere al bene della pace nelle relazioni tra i popoli devono alimentare in sé e accendere negli altri « la carità, signora e regina di tutte le virtù » (21). I cristiani siano testimoni convinti di questa verità; sappiano mostrare con la loro vita che l’amore è l’unica forza capace di condurre alla perfezione personale e sociale, l’unico dinamismo in grado di far avanzare la storia verso il bene e la pace. In quest’anno dedicato all’Eucaristia, i figli della Chiesa trovino nel sommo Sacramento dell’amore la sorgente di ogni comunione: della comunione con Gesù Redentore e, in Lui, con ogni essere umano. È in virtù della morte e risurrezione di Cristo, rese sacramentalmente presenti in ogni Celebrazione eucaristica, che siamo salvati dal male e resi capaci di fare il bene. È in virtù della vita nuova di cui Egli ci ha fatto dono che possiamo riconoscerci fratelli, al di là di ogni differenza di lingua, di nazionalità, di cultura. In una parola, è in virtù della partecipazione allo stesso Pane e allo stesso Calice che possiamo sentirci « famiglia di Dio » e insieme recare uno specifico ed efficace contributo all’edificazione di un mondo fondato sui valori della giustizia, della libertà e della pace.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2004.

IOANNES PAULUS PP. II 

L’ALTRA GUANCIA O LA SPADA? – GIANFRANCO RAVASI

http://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9164:laltra-guancia-o-la-spada&catid=479:lectio-divina&Itemid=298

L’ALTRA GUANCIA O LA SPADA?

GIANFRANCO RAVASI

Diventato persino uno stereotipo, pronunciato spesso con una punta di ironia: « porgere l’altra guancia » è, come si sa, una citazione semplificata del Vangelo di Matteo (5,38-41 ) e, più precisamente, di quel discorso di Gesù detto « della Montagna », a causa del suo fondale forse più simbolico che reale. E’ interessante, comunque, risalire al testo integrale e al suo contesto. Cristo rievoca la cosiddetta « legge del taglione »: « Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente ». Su questa norma, espressa in modo apodittico e icastico, bisognerebbe essere più cauti di quanto si è soliti fare. Essa, infatti, non è – al di là della sua formulazione che suona brutale ai nostri orecchi – nient’altro che una colorata definizione della giustizia distributiva: a un delitto deve corrispondere una pena del tutto pari e coerente. Ora, se stiamo alle guerre e alle stesse ritorsioni che vengono praticate da certi stati (compreso lo stato di Israele), la legge del taglione è violata e sostituita da quella che porta il nome di un personaggio biblico, Lamek, il quale dichiarava senza esitazione: « Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette » ( Genesi 4, 23-24 ). Gesù non vuole negare il principio della giustizia ma – come avviene in tutta la serie di casi che egli propone in quel discorso – vuole suggerire al suo discepolo di procedere oltre, imboccando la via dell’ amore, del perdono, della non-violenza. Ecco, allora, il suo insegnamento affidato a un trittico di esempi che sono simili a mini-parabole: « Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; a chi ti vuol chiamare in causa per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello; e se uno ti costringe a fare un miglio, tu fanne con lui due ». Alla stessa legge di Lamek egli opporrà questa legge antitetica: « Non perdonerai fino a sette volte sette ma fino a settanta volte sette » (Matteo 18,22). E Gesù sarà sempre coerente con questo suo principio: si pensi al suo arresto e all’ invito rivolto al suo discepolo che tenta di difenderlo con una spada (« Rimetti la spada nel fodero… »). Ora, nello spirito di tutto quel discorso della Montagna – si pensi solo alla splendida ed emozionante pagina di apertura, le beatitudini – Gesù non vuole proporre né una legislazione ecclesiale o sociale né codificare una regola concreta. Egli delinea un atteggiamento radicale, una vera e propria opzione della coscienza; la sua è una spina messa nel fianco del buonsenso, dell’ovvio, del luogo comune così da mostrare una più alta potenzialità di vita, una ben diversa società, una meta, possibile eppur desueta, aperta all’uomo. In questa luce si può parlare di utopia ma nel senso più alto del termine e Gesù incarna in modo forse supremo la missione genuina delle religioni. Esse non devono ridursi a gestire l’esistente, come deve fare uno Stato, né ridursi al piccolo cabotaggio ma far tendere l’umanità verso un Oltre e un Altro. In questa prospettiva si colloca coerentemente il costante magistero di Giovanni Paolo II, anche in occasione degli attuali eventi tragici. Questo, però, non significa che la morale religiosa (e cristiana in particolare ) debba escludere la giustizia e la storicità con tutto il suo peso. Gesù stesso polemizza aspramente con la gestione del potere politico e religiosa di allora, facendo denuncie specifiche ( si legga, ad esempio, Matteo 23 ) ma anche col suo celebre detto: « Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio » riconosce un’ autonomia al potere politico. Paolo nella Lettera ai Romani affronta la questione fiscale affermando non solo la legittimità dell’autorità costituita – che nella fattispecie era quella imperiale di Nerone – e del suo sistema penale perché « non invano essa porta la spada » ( 13,1-7 ) . L’ Apocalisse, invece, attacca aspramente le repressioni e le ingiustizie di quello stesso potere romano, raffigurato sotto l’ immagine di Babilonia. Ecco, allora, la costante necessità per i cristiani di non perdere di vista l’ideale, riducendosi a un partito o a movimento di opinione, ma anche di non astrarsi dalla realtà racchiudendosi nel bozzolo della tensione apocalittica o mistica. E’ un difficile equilibrio che comporta, da un lato, la continua affermazioni dei grandi valori, della moralità alta, di ideali anche supremi, e d’altro lato, la necessità della loro « incarnazione » e quindi del confronto col groviglio delle vicende sociali, politiche, economiche. Riguardo a questo secondo versante vorremmo proporre un esempio che ben s’adatta ai giorni che stiamo vivendo. Intendiamo riferirci alla legittima difesa che di per sé eccede rispetto alla logica del « porgere l’altra guancia » ma che si colloca nel piano più « basso » della norma di giustizia. Famosa è la giustificazione etica addotta da Tommaso d’ Aquino: « L’azione di difendersi reca con sé un duplice effetto: l’uno è la conservazione della propria vita, l’altro è la morte dell’aggressore. Il primo è quello veramente voluto, l’altro non lo è » (Summa Theologiae II-III,64,7). La tradizione cristiana preciserà questa regola del « duplice effetto » in ambito pubblico elencando le condizioni da rispettare per ammettere la legittimità di questa autodifesa: che tutti gli altri mezzi si rivelino impraticabili e inefficaci, che l’uso di armi non crei mali e disordini più gravi del male da eliminare (proibita sarebbe, perciò, l’opzione nucleare), che non si colpiscano innocenti, che il danno inflitto dall’ aggressore sia durevole, grave e provato nelle sue responsabilità. E’ ciò che è affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 (nn.2.263e 2.309) ed è ciò che è stato ripetuto dalla lettera dei vescovi cattolici americani al presidente Bush nei giorni scorsi: « La nostra nazione ha il diritto morale e il grave obbligo di difendere il bene comune contro tali attacchi terroristici…Ma ogni risposta militare dev’essere in accordo con i sani principi morali quali la probabilità di successo, l’immunità dei civili e la proporzionalità ». Ma lo stesso testo comprende anche una eco del principio evangelico da cui siamo partiti, formulato attraverso l’invito a impegnarsi per rimuovere le cause strutturali ingiuste, a ripudiare l’intolleranza etnica e religiosa, a considerare sempre arabi e musulmani come fratelli e sorelle, « parte della nostra famiglia nazionale e umana », e – citando una frase di Giovanni Paolo II – a « non cedere alla tentazione dell’odio e della violenza, impegnandosi al servizio della giustizia e della pace ». La chiesa, quindi, pur coinvolta nella giustizia che dovrebbe reggere la città di Cesare, non deve mai dimenticare la legge ultima del Regno di Dio.

Il Sole24Ore – 30/9/2001

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