ANNO PAOLINO (GIUBILEO PAOLINO): IL SOGNO ECUMENICO DI PAPA BENEDETTO
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ANNO PAOLINO (GIUBILEO PAOLINO): IL SOGNO ECUMENICO DI PAPA BENEDETTO
Assieme al patriarca di Costantinopoli, il successore di Pietro ha indetto uno speciale anno giubilare dedicato all’altro grande apostolo, Paolo. Obiettivo dichiarato: « creare l’unità della ‘catholica’, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli »
di Sandro Magister
ROMA, 2 luglio 2008 – Nella foto, Benedetto XVI e Bartolomeo I, il patriarca di Costantinopoli, pregano davanti alla tomba dell’apostolo Paolo, sotto l’altare maggiore della basilica romana di San Paolo fuori le Mura. È la vigilia della solennità dei santi Pietro e Paolo. E assieme hanno inaugurato uno speciale anno giubilare dedicato all’apostolo Paolo. L’Anno Paolino, iniziato il 28 giugno, durerà fino al 29 giugno 2009. L’occasione è il bimillenario della nascita dell’apostolo, collocata dagli storici tra il 7 e il 10 dopo Cristo. Benedetto XVI ha annunciato per la prima volta questo speciale anno giubilare un anno fa, il 28 giugno 2007. E così ora ha spiegato l’evento ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, prima dell’Angelus della festa dei santi Pietro e Paolo di quest’anno: « Questo speciale giubileo avrà come baricentro Roma, in particolare la basilica di San Paolo fuori le Mura e il luogo del martirio, alle Tre Fontane. Ma esso coinvolgerà la Chiesa intera, a partire da Tarso, città natale di Paolo, e dagli altri luoghi paolini meta di pellegrinaggi nell’attuale Turchia, come pure in Terra Santa, e nell’Isola di Malta, dove l’Apostolo approdò dopo un naufragio e gettò il seme fecondo del Vangelo. « In realtà, l’orizzonte dell’Anno Paolino non può che essere universale, perché san Paolo è stato per eccellenza l’apostolo di quelli che rispetto agli ebrei erano ‘i lontani’ e che ‘grazie al sangue di Cristo’ sono diventati ‘i vicini’ (cfr Ef 2,13). Per questo anche oggi, in un mondo diventato più ‘piccolo’, ma dove moltissimi ancora non hanno incontrato il Signore Gesù, il giubileo di san Paolo invita tutti i cristiani ad essere missionari del Vangelo. « Questa dimensione missionaria ha bisogno di accompagnarsi sempre a quella dell’unità, rappresentata da san Pietro, la ‘roccia’ su cui Gesù Cristo ha edificato la sua Chiesa. Come sottolinea la liturgia, i carismi dei due grandi apostoli sono complementari per l’edificazione dell’unico Popolo di Dio ed i cristiani non possono dare valida testimonianza a Cristo se non sono uniti tra di loro ».
* * * Universale ed ecumenico. Per una Chiesa che è « catholica » e « una ». È questo il doppio orizzonte che il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli hanno voluto dare all’Anno Paolino, indetto unitamente dalle rispettive Chiese di Roma e d’Oriente. Nella messa celebrata nel giorno dei santi Pietro e Paolo, i due successori degli apostoli sono entrati assieme nella basilica di San Pietro; assieme sono saliti all’altare, preceduti da un diacono latino e da uno ortodosso recanti il libro dei Vangeli; assieme hanno ascoltato il canto del Vangelo in latino ed in greco; assieme hanno tenuto l’omelia, prima il patriarca e poi il papa, dopo una breve introduzione di quest’ultimo; assieme hanno recitato il Credo, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca secondo l’uso liturgico delle Chiese bizantine; si sono scambiati il bacio della pace e al termine hanno assieme benedetto i fedeli. Dopo quasi mille anni di scisma tra Oriente e Occidente, è stata celebrata dal vescovo di Roma e dal patriarca di Costantinopoli una liturgia visibilmente protesa all’unità. Più in ombra resta per ora il rapporto con le comunità protestanti. Ma anche nel dialogo con queste l’Anno Paolino può essere ricco di significati. I maggiori pensatori della Riforma – da Lutero e Calvino fino a Karl Barth, a Rudolph Bultmann e Paul Tillich – hanno elaborato il loro pensiero a partire soprattutto dalla Lettera di Paolo ai Romani. E non meno rilevante è l’apporto che l’Anno Paolino potrà dare al dialogo con gli ebrei. Paolo era giudeo e rabbino osservante, prima di cadere abbagliato da Cristo sulla via di Damasco. E la sua conversione al Risorto non comportò mai per lui una rottura con la fede originaria. La promessa di Dio ad Abramo e l’alleanza del Sinai per Paolo fecero sempre tutt’uno con la « nuova ed eterna » alleanza sigillata dal sangue di Gesù. Su questa unità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, Joseph Ratzinger ha scritto pagine memorabili, nel suo libro « Gesù di Nazareth ». Qui di seguito è riprodotta l’omelia pronunciata da Benedetto XVI il 28 giugno 2008, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, nei vespri della vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo. In essa il papa risponde alle domande: chi era Paolo? e che cosa dice a me oggi? Più sotto trovi i link alla doppia omelia – del papa e del patriarca di Costantinopoli – nella messa del giorno successivo, e ad altri testi di Benedetto XVI sull’apostolo Paolo. Più vari rimandi a tutto ciò che riguarda l’Anno Paolino.
« Chi era Paolo? E che cosa dice a me oggi? » di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque duemila anni fa a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: « Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [di Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio… » (At 22,3). Alla fine del suo cammino dirà di sé: « Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità » (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. Maestro delle genti: questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi. Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi , oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale Anno Paolino: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, « la fede e la verità », in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo. In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’apostolo, una speciale Fiamma Paolina, che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della basilica [di San Paolo fuori le Mura]. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta Porta Paolina, attraverso la quale sono entrato nella basilica accompagnato dal patriarca di Costantinopoli [...] e da altre autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’Anno Paolino assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. [...].
* * * Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: chi è Paolo? che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’Anno Paolino che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo. Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: « Abbiamo avuto il coraggio… di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte… Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete » (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana; quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la « legge » della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: « Dilige et quod vis fac » (Tract. in 1Jo 7 ,7-8), ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.
* * * Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » Alla domanda: « Chi sei, o Signore? » vien data la risposta: « Io sono Gesù che tu perseguiti » (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. « Tu perseguiti me ». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti « la sua causa ». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto « carne ». Egli ha « carne e ossa » (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, « Capo e Corpo » formano un unico soggetto, dirà Agostino. « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? », scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: « Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà. C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. « Perché mi perseguiti? » Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
* * * Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. « Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo », dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re; « io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome » (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: « Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome ». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi. In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.
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