IL SIGNIFICATO DI ESSERE NATO A TARSO NELLA FIGURA DI SAN PAOLO – Prof Buscemi

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Tarso e il suo influsso su Paolo

IL SIGNIFICATO DI ESSERE NATO A TARSO NELLA FIGURA DI SAN PAOLO

Testo di: Alfio Marcello BUSCEMI, San Paolo, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1996, 23-27.

L’ambiente della fanciullezza di Paolo è certamente quello della Tarso degli inizi del I secolo d.C. Tarso, al dire dell’Apostolo, era “una città non senza importanza” (At 21,39): fin dai tempi antichissimi degli Ittiti fu capitale della Cilicia, la regione costiera di quella parte della penisola dell’Asia Minore che fa angolo tra la penisola stessa e il continente a cui si attacca e che si estendeva, da Nord verso Sud, dalle catene del Tauro e dell’Antitauro e dai monti della Siria fino al mare, mentre da Est ad Ovest, copriva la zona dal monte Amano, posto ai confini con la Siria, fino alla Panfilia. La regione si divideva: in Cilicia Piana o Campestre (dove si trovavano Tarso, la capitale, e Soli, famosa per i “solecismi” del suo linguaggio), e in Cilicia Montana, che andava da Soli fino ai confini con la Panfilia. La Cilicia, schiacciata sul mare dai monti della Siria, dal Tauro e dall’Antitauro, comunicava con il resto della penisola dell’Asia Minore attraverso le famose Porte Cilicie, un valico tra il Tauro e l’Antitauro, mentre con la Siria intesseva le sue comunicazioni attraverso le Porte Siriache e le Porte Amaniche. Storicamente appartenne al regno degli Ittiti con il nome di Kizzuwatna verso il 1200 a.C. – ricordata nell’Iliade come alleata di Troia: Andromaca, moglie di Ettore, era una principessa della Cilicia – passò poi, sotto gli Assiri (IX sec. circa), sotto i Persiani (fino al IV sec. a.C.) e infine divenne parte dell’impero di Alessandro Magno e dopo la sua morte l’ereditarono i Seleucidi. Ai tempi di Paolo, comunque, tutta la regione era unita con la Siria nell’unica provincia romana di Siria-Cilicia (cf Gal 1,21 ss.). Tarso era la città più rappresentativa di tutta la Cilicia e godeva nell’antichità fama mondiale. Le sue origini sono molto antiche e risale probabilmente ai tempi dell’impero ittita (XIV sec. a.C.); il suo nome si trova sull’obelisco nero di Salmanassar III verso la metà del IX sec. a.C.; Sennacherib verso il 698 a.C., dopo averla catturata, la rase al suolo; Ciro nel 401 a.C. l’annesse al Regno persiano; poi essa passò ai Seleucidi, che le cambiarono il nome in Antiochia sul Cidno; passata ai Romani verso il 47 a.C. prese il nome di Juliopolis, in onore di Giulio Cesare. Godette i favori di Antonio (a Tarso avvenne il celebre incontro tra Antonio e Cleopatra, come racconta Plutarco nelle sue “Vite Parallele”) e di Augusto (privilegiò la città soprattutto per onorare il suo precettore Atenodoro e il precettore di suo nipote, l’accademico Nestore). Tarso fu in primo luogo una città commerciale che richiamava gente da ogni parte e dava ai propri cittadini la possibilità di girare il mondo. Dal suo porto marittimo, chiamato Rhegma piccole imbarcazioni risalivano continuamente la corrente del Cidno, fiancheggiata da magazzini ed arsenali, per raggiungere il centro della città dove si potevano incontrare gente di ogni razza e lingua: abitanti della Cilicia, della Licaonia, della Cappadocia, dell’Asia Minore in genere, della Siria, della Mesopotamia, della Grecia e della lontana Roma. Significative sono le parole di Plutarco, nel descrivere la traversata di Cleopatra sul Cidno: «Risalì il fiume Cidno su un battello dalla poppa dorata, con le vele di porpora spiegate al vento. I rematori lo spingevano contro corrente, vogando con remi argentati, al suono di un flauto e si accompagnavano zampogne e liuti. Lei era sdraiata sotto un baldacchino trapuntato d’oro, acconciata come le Afroditi che si vedono nei quadri, e una frotta di schiavetti, somiglianti agli Amori dipinti, ritti ai due lati le facevano vento. Allo stesso modo, le più formose delle sue ancelle in vesti di Narcisi e Grazie stavano alcune sopra la sbarra del timone, altre sui pennoni. Profumi meravigliosi si spandevano lungo le rive al passaggio della nave, levandosi dall’incenso che sovente vi veniva bruciato. Gli abitanti o l’accompagnarono fin dalla foce, o lungo il fiume sulle due sponde, oppure scesero dalla città per assistere al suo passaggio. Antonio, seduto sul tribunale, rimase solo nella piazza, tanta fu la folla che uscì incontro alla regina; e fra tutta quella gente corse una voce, che Afrodite veniva in tripudio a unirsi a Dioniso per il bene dell’Asia». [Vite parallele, V, 26 (tr. C. Carena, Milano 1966)]. Una tale varietà di popolazione contribuiva non solo a dare a Tarso l’aspetto di città dedita al commercio, ma l’apriva agli influssi culturali di tutto il mondo, rendendola una vera città cosmopolita di tipo ellenistico. La sua importanza culturale fu tale da poter gareggiare con Atene ed Alessandria, secondo la testimonianza del geografo Strabone: «Tra i suoi abitanti regna un così grande zelo per la filosofia e per ogni ramo della formazione universale, che la città supera sia Atene che Alessandria e ogni altra città, in cui ci sono scuole e studi filosofici. Cosa particolarmente notevole che a Tarso gli avidi di sapere sono tutti del posto, i forestieri non vi si fermano volentieri; anzi anche gli stessi cittadini di Tarso non si fermano nel luogo, ma vanno altrove per il completamento della loro formazione e, quando sono giunti al termine, vivono volentieri all’estero». Tarso diede i natali a molti rinomati filosofi (Antipatro, Archedamo, Nestore, Atenodoro Cordilio, amico di M. Catone, Atenodoro, figlio di Sandon e precettore di Augusto), grammatici (Artemidoro, Diodoro) e poeti (Dionside, Boeto e forse anche Arato – di cui Paolo in At 17,28 riporta il detto “Di lui [Giove] infatti siamo anche stirpe”) dell’antichità ellenistica. Il clima cosmopolita di Tarso favoriva anche un certo sincretismo religioso. Elementi assiri, persiani ma soprattutto greci – introdotti dai vari dominatori di turno – si aggiunsero alle antiche credenze indigene della città, basate su due divinità principali: Ba’al Tarz, probabilmente l’antichissima divinità anatolica Tarku, vi figura come il signore supremo e in periodo ellenistico venne identificato con Zeus; accanto ad esso, ma di origine più recente, il dio Sandon identificato con Heracles. In suo onore, secondo Dione Crisostomo, ogni anno a Tarso si celebravano “i misteri di Sandon o Eracle”, comprendenti due fasi rituali: 1) la statua del dio veniva bruciata con grande solennità su una grande pira rappresentando la morte del dio; 2) ad essa seguivano danze sfrenate con cui si celebrava la risurrezione del dio. Sandon-Eracle assumeva, pertanto, i connotati di una divinità del ciclo stagionale della vegetazione e la cerimonia rappresentava il riprodursi della vegetazione che muore sotto i raggi cocenti del sole in estate e che rinasce a vita nuova in primavera. A questa religiosità misterica la popolazione indigena affiancava anche culti della religione ufficiale greco-romana e quelli degli stranieri abitanti a Tarso. In questo clima di libertà, anche i giudei godevano il diritto di esercitare il loro culto sinagogale, la pratica della circoncisione, l’osservanza del sabato e di tutte le altre opere legali. A confronto con il sincretismo religioso pagano, il giudaismo con il suo assoluto monoteismo, con la sua morale legalistica, con la sua forte coscienza razziale, doveva apparire diverso e strano. Comunque, gli ebrei dovevano essere abbastanza numerosi a Tarso, di condizione benestante e raggruppati in una quartiere particolare, dato che non era loro permesso di appartenere ad una tribù pagana. Nonostante questo volontario isolamento, caratteristico di tutti gli ebrei della diaspora, gli ebrei di Tarso dovevano essere abbastanza ellenizzati: conoscevano bene la lingua greca, si adattavano alle costumanze politico-commerciali e a volte, per motivi apologetico-missionari, ne assumevano anche il linguaggio filosofico per illustrare meglio ai pagani il valore religioso e morale della Torà. Paolo più in là dirà ai Romani: “Sono debitore ai greci e ai barbari, ai sapienti e agli ignoranti” (Rm 1,14). Comunque, in nessun modo si adattavano alla religiosità pagana, ai loro miti e ai loro riti, verso cui nutrivano una profonda avversione. Paolo si vanterà d’essere “Israelita, ebreo da ebrei, fariseo figlio di farisei”, volendo sottolineare così la stretta ortodossia della sua gente giudaica di Tarso, in seno alla quale era vissuto e si era adeguato ai principi rigidi della sua religione (Gal 1,13-14; Fil 3,4-5; At 23,6; 26,4). Anche ai costumi morali i giudei reagivano piuttosto rigidamente, anche se vi erano numerosi casi di adeguamento per quanto riguardava la frequenza della palestra, del ginnasio e dei giuochi. Ma per lo più disprezzavano e cercavano di allontanarsi dalla morale decadente del pagani (Rm 1,18-32). Forse, un certo fascino poteva esercitare la morale stoica, ma probabilmente anch’essa spesso veniva rigettata seguendo il detto del Talmud: “Maledetto l’uomo che alleva porci, e maledetto chi insegna a suo figlio la sapienza greca” (Baba Qamma 82b). Comunque, è chiaro che, vivendo a contatto con la popolazione pagana e dovendo continuamente commerciare con essa, si apprendevano anche involontariamente detti, modi di dire e tanti usi che erano generalizzati all’interno della polis di Tarso.

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