L’ARCHITETTO DELLA SALVEZZA (LA VISIONE PAOLINA HA ISPIRATO TUTTI I GRANDI DELLA LETTERATURA)

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L’ARCHITETTO DELLA SALVEZZA (LA VISIONE PAOLINA HA ISPIRATO TUTTI I GRANDI DELLA LETTERATURA)

di Francesca D’Alessandro

Da Dante e Petrarca fino a Leopardi e Luzi, passando per Manzoni, la visione paolina ha ispirato tutti i grandi della letteratura. Ce ne parla una studiosa, che insegna all’Università Cattolica di Milano.

Questo Anno paolino ci offre l’occasione per tornare a riflettere su uno dei pilastri della civiltà, sul quale si sono fondati edifici di pensiero poderosi per vastità e durata, dove si ricompongono in equilibrio armonico le spinte e controspinte più disparate, concernenti discipline e ambiti di interesse assai diversi. Quanto di accomunante ci è parso di rilevare va colto alle radici dell’uomo e assume la forma della tensione verso una ipotesi di redenzione che non prescinda dall’agire nella storia, ma piuttosto ne riconosca il senso profondo, sostanziale, entro l’orizzonte della speranza, al quale anche Benedetto XVI ci ha invitato a guardare, con la sua enciclica («Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento», ICor 3,9-10). Tali sono i tratti di un umanesimo del quale l’Apostolo dei Gentili potrebbe dirsi uno dei tralicci portanti, nella misura in cui la sua voce di uomo nuovo sul cammino della salvezza non viene a determinare fratture, ma a compiere, alla luce della rivelazione, le conquiste che già furono della cultura classica, nel territorio metafisico e morale.
Sul versante letterario, crediamo sia imprescindibile rilevare la portata delle disseminazioni e degli affioramenti, impliciti ed espliciti, del magistero di san Paolo, almeno attraverso alcune voci della tradizione (un campionario senza pretesa di esaustività), tra le più alte di ogni tempo. Esse invitano a riconoscere nel superiore appello rivolto dal testo al lettore quelli che sono stati chiamati «i semi della nuova creazione», le tracce – più o meno consapevoli e dichiarate dall’autore – di temi, immagini e archetipi paolini di particolare intensità e significato. Non si tratta tanto e solo di inseguire nelle opere letterarie una vaga e non definita nostalgia del divino, né un’oscura tensione orfica e neppure una infondata astrazione metafisica. Ci si propone piuttosto di esplorare quei varchi verso le regioni ulteriori, aperti da una scrittura aderente al vero, fatta di cose e di eventi, nella convinzione che la sfida più appassionante in questo senso (alla luce del mistero dell’incarnazione) si giochi proprio sul terreno della storia, della società e persino della politica.
Di qui la preferenza – al di là di una più o meno esplicita confessione religiosa – per autori che hanno accolto o ripercorso la lezione di Paolo di Tarso, a partire da una tenace fedeltà alle proprie origini terrestri, che hanno nutrito e coltivato una pur avara speranza, con la ponderata e talvolta dolorosa presa di coscienza del proprio agire nel mondo, per sé e per gli altri, del proprio significativo essere parte della vicenda umana nel tempo. In loro, l’agire si configura come completamento del disegno divino, entro una solida e rinnovata dimensione progettuale, continuamente sorretta dall’architrave della ragionevolezza di ogni convinzione acquisita.
L’edificio della salvezza – ricostruito attraverso gli scrittori di ogni tempo – risulta così poggiare sulle fondamenta delle virtù teologali e di una professione di fede testimoniata nelle opere (Dante e Manzoni) e ardente di carità (Caterina da Siena e Vittoria Colonna). Tale edificio si rivela via via cadenzato dagli elementi architettonici dell’attesa e della gioia, con la sua forza inclusiva e trasfigurante (Petrarca e Sereni), su cui pure si proiettano le ombre dell’assenza e del dubbio, non prive di energia propositiva (Leopardi e Montale), destinate tuttavia a dissolversi nella potenza innovatrice del divino che salva (Péguy, Luzi e Betocchi).
L’intera tradizione volgare sorge dall’orizzonte profetico della Commedia dantesca, una storia della salvezza in forma di poema che nasce sotto il segno paolino, al crocevia tra la civiltà classica e quella cristiana (Inferno II 31-35). Quale nuovo Enea e nuovo Paolo, Dante si vede assegnata la missione di riformatore del mondo, di edificatore della speranza e continuatore dell’opera divina, in un’età avvertita come tempo finale e tempo della grazia. Non a caso la raffigurazione del passaggio dalle tenebre alla luce viene declinata, sin da Purgatorio VII, in termini paolini (Rom 12,12), sin anche nel risoluto vigore del combattente, chiamato ad abbandonare le opere delle tenebre e a rivestirsi delle armi della luce, a indossare la corazza della fede e della carità, con l’elmo della speranza (come recita ITess 5,8). Di nuovo l’itinerario dantesco fa leva sulla dignità dell’agire delle creature, chiamate, nella speranza, a tendere al compimento di sé e alla piena edificazione del progetto divino. Una speranza che Dante si preoccupa di riallacciare (rendendo omaggio al «verace stilo» di san Paolo) alla gerarchia delle virtù teologali, nella professione di fede da lui pronunciata alla presenza di Pietro, quando è prossimo ormai il gaudio della visione beatifica, alla fine del viaggio (Paradiso XXIV, 51-52).
Una tinta paolina si imprime anche sulla parola del padre dell’Umanesimo e della nuova età, Francesco Petrarca, che dal proprio orizzonte terreno si accosta alle perfezioni invisibili del divino artefice, attraverso la bellezza della creazione, e si incammina a una contemplazione intellettuale, non priva di sussulti e di dubbi. Il problema della salvezza si pone per lui nei termini di una profonda lacerazione interiore, di una quotidiana battaglia fra volere e disvolere, fra uomo di terra e uomo celeste, nella piena consapevolezza che la felicità coincide con la libertà dell’animo e la speranza con la misericordia divina.
Nel medesimo terreno dantesco, in materia di fede, si radica il pensiero manzoniano, che inaugura le sue Osservazioni sulla morale cattolica con la cifra paolina della unità e razionalità del credo cristiano. Principia qui a dipanarsi il filo delle reminiscenze paoline, destinato a riaffiorare, quando la meditazione sulla fragilità della natura umana accosta la confessione di Socrate e di Ovidio a quella del Saulo («Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l’approvo; e vo dietro al peggio», Rom 7,19). Al punto di innesto della civiltà cristiana sulla classica, il lamento dell’uomo debole e sconfitto trova tuttavia il riscatto nella radice paolina della speranza, nata dalla «cognizione di mali umanamente irrimediabili», eppure solido legame alla «colonna e fondamento della verità» (ITimoteo 3,15). Sono ancora due elementi architettonici a ribadire il valore delle opere, della libertà e coerenza dell’agire dell’uomo, collaboratore di Dio, chiamato a porre le basi su cui posare l’edificio della salvezza.
Viene così a definirsi, con nitidezza folgorante, il disegno della speranza capace di incidere sulle vicende della storia, tesa fra l’evento iniziale e l’esito finale, all’incontro fra il protendersi progettuale dell’uomo e il volgersi premuroso dello Spirito. Il culmine lirico e meditativo di tale disegno viene raggiunto nella ipotesi estrema di salvezza, nel miracolo della misericordia divina verso Napoleone morente, che Manzoni rappresenta nel finale del Cinque maggio. Qui paiono intersecarsi i piani argomentativi e il vigore metaforico di alcuni snodi della prima lettera ai Corinzi, di quella ai Filippesi e delle due ai Tessalonicesi. Se dalle prime discende l’immagine del premio sperato (ICor 9,24 e Filippesi 3,13), alle seconde può essere ascritta la raffigurazione del Dio glorioso che «discende dal cielo» e rapisce «tra le nubi», «nell’aria», di un Dio che affligge e dà sollievo, a un tempo, in un contesto epico di vittoria della fede e della speranza, ottenuta per tutti, una volta per sempre, con l’obbrobrio della Croce. Come lascia intendere Manzoni, nel solco del dettato paolino, esse giungono a fondare una giustizia nuova e, in quanto primizie dello Spirito, riescono a riscattare l’uomo dalla legge, a liberarlo dall’ossequio alla gloria umana, ad assecondare i suoi desideri profondi, oltrepassandoli nel diluvio della grazia.
Più problematica, ma altrettanto feconda risulta l’indagine entro percorsi compositivi di autori che non hanno trovato la riposata quiete dell’approdo a una fede dichiarata (benché continuamente riconquistata). Per lo più essi appartengono alla contemporaneità e parrebbero germogliare dal ceppo penitenziale della visione leopardiana, prevalentemente incentrata sulle piaghe della creazione, ferita e segnata da un dolore apparentemente irredimibile. Per Leopardi, l’incontro con san Paolo avviene sul terreno della coscienza della contraddizione che dilacera l’uomo, tra desiderio insaziabile di felicità e impossibilità di raggiungerla. Entro il quadro della desolata condizione dei viventi, ricostruito con spietata lucidità, egli delinea la sua riflessione sulla capacità significativa della parola, attraverso la quale giunge a giudicare ragionevole l’ipotesi dell’oltre.
Tra gli eredi novecenteschi di Leopardi, Eugenio Montale colloca l’origine del proprio poetare entro le polarità contrapposte della necessità naturale e della libertà dell’uomo, sul confine tra il fenomeno e il mistero, che sta oltre. Sin dai primi Ossi di seppia (1925), egli accosta allo sgretolamento apocalittico di Clivo l’«avara speranza» d’oltrevita di Casa sul mare, offerta in dono per la salvezza dell’altro. L’infinitarsi, dapprima negato al poeta, diviene in qualche modo possibile già nei secondi Ossi (1928), dove il miracolo dell’Incontro con l’alterità opera una rinascita a rinnovata pienezza vitale: «E farsi mia / un’altra vita sento, ingombro d’una / forma che mi fu tolta». Inizia qui un cammino destinato a sfociare, sullo sfondo del tragico irrompere nella storia della violenza dissennata e del male, in prossimità della Seconda guerra mondiale, in una pur ardua ipotesi di redenzione. A renderla possibile è la donna amata, paolinamente continuatrice dell’opera del creatore, ritratta con colori danteschi, nelle Occasioni e nella Bufera. La sua apparizione viene raffigurata con un linguaggio cristologico, che fa di lei (ebrea e perseguitata dalle leggi razziali) una vera immagine di Cristo, di inarrivabile altezza morale: «Perché l’opera tua (che della Sua / è una forma) fiorisse in altre luci / Iri del Canaan ti dileguasti».
Affine sensibilità si riscontra in Vittorio Sereni, che accoglie nei suoi versi le folate di una speranza intesa come viaggio verso l’alba (la cui luce ferisce e salva a un tempo), come sete di verità dolorosa e insaziata, eppure pronta a sfociare nella gioia. La sua speranza si genera paolinamente da una sorta di fede (pur insicura e vacillante) e si sporge, recidiva – dalla fedeltà tenace alle proprie origini terrestri – a una ipotesi di persistenza di vita oltre la morte, da intendersi come trasformazione dalla deperibilità della materia all’incorruttibilità del movimento e della luce.
È la stessa luce albare invocata e intravista da Mario Luzi, nella quale sfocia – dopo un viaggio periglioso nel magma della storia, contrassegnato dapprima dal dono della carità, poi da quello della profezia – la speranza pasquale, immersa nell’onda viva della creazione, finalmente redenta e ricapitolata nell’unzione cristica finale.

Francesca D’Alessandro

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